Che fare nella “civitas diabuli”? La risposta di Italo Calvino

Che fare nella “civitas diabuli”? La risposta di Italo Calvino

Ricominciamo da qui: ricominciamo da quanto detto da Vittorio Sgarbi sulla mattanza di Gheddafi: “Così poi non si ammazza neanche un animale”[1]. Un’esecuzione in stile Ku Klux Klan (ecco cosa affiora dietro l’ipocrisia umanitaria dei terroristi nordatlantici: vi torneremo), voluta come monito per tutti i leader africani che volessero ribellarsi all’immutabile ruolo di “negri” riservato loro dal Nuovo Ordine Mondiale.
Cosa dire, non solo  di fronte alla predetta ipocrisia (all’uranio impoverito!) della “comunità internazionale” ma all’invereconda cortigianeria dei giornalisti “embedded”?
La tentazione dello scoramento è forte: ci soccorre la risposta finale data da Marco Polo a Kublai Kan in quel capolavoro della letteratura del ‘900 che è il romanzo Le città invisibili, di Italo Calvino (Einaudi, 1972, pp. 169-170):
L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte
delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora
scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia
la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark,
Icaria.
   Chiese a Marco Kublai: — Tu che esplori intorno
e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri
ci spingono i venti propizi.
   —  Per questi porti non saprei tracciare la rotta
sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte
mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un
paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia,
il dialogo di due passanti che s’incontrano nel
viavai, per pensare che partendo di li metterò assieme
pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti
mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli,
di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se
ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua
nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa,
tu non devi credere che si possa smettere di
cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando
sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla,
ma a quel modo che t’ho detto.
   Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante
le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle
maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo[2], Butua, Brave
New World.
   Dice: — Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non
può essere che la città infernale, ed è là in fondo che,
in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
   E Polo: — L’inferno dei viventi non è qualcosa che
sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce
facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso
ed esige attenzione e apprendimento continui:
cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Giornalisti “embedded”, ovvero …”Accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”.

[2] Il riferimento, probabilmente, è agli esseri subumani descritti nei Viaggi di Gulliver, di Jonathan Swift.

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