Il Vangelo di Marco e la parodia di Petronio

Nel post pubblicato due giorni fa facevo notare come, grazie agli studi di autori quali Ilaria Ramelli e Carsten Peter Thiede, sia finalmente emerso che il cristianesimo era ben conosciuto già nel primo secolo dell’era cristiana da grandi autori pagani.

E infatti Antonio Socci, nel suo libro, da me più volte citato, La guerra contro Gesù osserva a tale riguardo:

“Ma sono le nuove ricerche degli ultimi anni, come si è detto, ad aver spalancato questi scenari. Infatti finora gli storici hanno sempre ritenuto, come scrive Romano Penna, che «prima del II secolo nessun autore latino o greco ci offre attestazioni di una sua conoscenza del cristianesimo» (L’ambiente storico-culturale, cit., p. 271)[1].

Quella secondo cui “prima del II secolo nessun autore latino o greco ci offre attestazioni di una sua conoscenza del cristianesimo” è un’affermazione che mi ha particolarmente colpito. Ma davvero gli storici sono stati ciechi fino a questo punto?

D’altra parte, è proprio la prof. Ramelli a ricordarci che

“…l’opinione dominante è che nel I secolo in ambiente pagano, e in particolare tra gli stoici romani, il Cristianesimo non fosse conosciuto e che non potesse comunque suscitare tanto interesse da indurre gli autori pagani ad alludervi nelle loro opere”[2].

Alla cecità dell’”opinione dominante” si potrebbe opporre allora un’ulteriore considerazione della stessa Ramelli:

“Abbiamo visto che anche il vescovo di Roma Clemente, scrivendo ai Corinzi, ricorda, come Tacito e come Giovenale, e in tempi non lontani da loro, la spettacolarità delle esecuzioni dei Cristiani nella persecuzione neroniana; che Seneca sembra impressionato in modo particolare dall’apparato spettacolare degli strumenti di morte, fra cui specialmente la croce, soprattutto nelle Lettere a Lucilio, del 62-64, e che Marziale – che influenzò Giovenale – ricorda con particolare impressione la trasformazione del supplizio della croce in spettacolo, quale aveva caratterizzato appunto la persecuzione del 64 contro i Cristiani, che il poeta aveva conosciuto bene. Anche Lucano, come abbiamo visto, che scrisse il X libro del suo Bellum civile esattamente a Roma nel 64-65, sotto l’impressione degli eventi di quel periodo, vi cita un identico, spettacolare supplizio, ardere come torce sospesi in croce. Tacito, Giovenale e Dione, come pure Marziale e Lucano, oltre al cristiano Clemente di Roma, sembrano accennare tutti alla persecuzione neroniana contro i Cristiani a Roma, confidando che il loro pubblico sapesse cogliere questi riferimenti: molte persone dovettero rimanere colpite dalla crudeltà spettacolare di quelle esecuzioni, che fecero sorgere miseratio perfino tra i pagani, i quali pure ritenevano i Cristiani colpevoli di flagitia, come attesta Tacito (Ann. XV 44)”[3].

Insisto: davvero nessun autore latino o greco del I secolo conosceva il cristianesimo? Torniamo a Petronio e alle reminiscenze del Vangelo di Marco e, più in generale, del messaggio cristiano che si possono trovare nel Satyricon. Petronio negli anni 60 del primo secolo faceva parte della classe dirigente neroniana che, dopo la svolta dell’anno 62, prese a perseguitare i cristiani: era quindi ostile al cristianesimo e però, a modo suo, ne parla, sia pure per dissacrarlo e stravolgerne i contenuti.

Ho pensato allora di mettere a confronto i passi del Vangelo di Marco con i brani del Satyricon che li riecheggiano. I passi di cui propongo la lettura sono tre: l’unzione a Betania, l’eucarestia e il canto del gallo (dopo il tradimento di Pietro). I passi del Vangelo di Marco sono tratti dalla Sacra Bibbia a cura di mons. Salvatore Garofalo (Marietti 1966). I brani del Satyricon sono tratti dall’edizione a cura di Andrea Aragosti (Rizzoli 2020).

L’unzione a Betania

Marco 14, 3-9

“Essendo Gesù a Betania, reclinato a mensa in casa di Simone il lebbroso, venne una donna che portava un vaso d’alabastro di unguento, di nardo autentico molto costoso e, spezzato il vaso, glielo versò sul capo. Alcuni però si indignarono dentro di sé: «A che pro s’è fatto questo sciupo di unguento? Si sarebbe potuto vendere questo unguento per più di trecento denari e darli ai poveri!». E brontolavano contro di lei. Gesù disse: «Lasciatela stare; perché le date noie? Essa ha compiuto verso di me un’opera buona. I poveri, infatti, li avrete sempre con voi e quando lo vorrete potrete sempre far loro del bene, ma non sempre avrete me. Essa ha fatto ciò che ha potuto: ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura. In verità però vi dico: dovunque sarà predicato l’evangelo, nel mondo intero, si parlerà anche di ciò che ha fatto costei, in suo ricordo»”.

Satyricon 77,7-78,4

“«…Intanto tu, Stico, porta i paramenti funebri, coi quali voglio essere portato via. Porta anche l’unguento e un assaggio di vino da quell’anfora, che voglio sia usata per lavare le mie ossa». Stico non perse tempo, perché anzi portò nella stanza del triclinio una coperta bianca e una pretesta <…> e [Trimalchione] ci invitò a palparle, per saggiare se erano fatte di lana buona. A questo punto, sorridendo, disse: «Bada bene, Stico, che questa roba non venga in contatto con topi o tarme; altrimenti ti faccio bruciare vivo. Io voglio essere portato via in pompa magna, di modo che la gente tutta mi mandi delle benedizioni». Subito dopo aprì l’ampolla del nardo e ce ne unse tutti, e: «Mi auguro» disse «che da morto mi piaccia come da vivo».

Osserva Ilaria Ramelli:

“…in entrambi i casi si è a mensa ed è recato dell’unguento, e precisamente un vasetto di nardo, che è spalmato sul/dal protagonista – Gesù e Trimalcione – in prefigurazione, come dichiara il protagonista stesso, della sua unzione per la sepoltura…Il nardo […] non compare mai come unguento conviviale in prefigurazione dell’impiego funerario se non in questi due soli passi, in tutta la letteratura antica…Non sfugge poi che l’intera cena Trimalchionis è configurata come una sorta di ‘ultima cena’, dato l’invito esplicito di Trimalcione, rivolto ai convitati durante l’episodio dell’’unzione’, a considerare la cena come un banchetto funebre, e dati anche i numerosi e costanti riferimenti al tema della morte disseminati in tutto il romanzo e già variamente posti in luce dalla critica”[4].

L’eucarestia

Marco 14, 22-25

“Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, recitata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese una coppa e, rese grazie, la porse loro e tutti ne bevvero. E disse loro: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti. In verità vi dico: non berrò più il frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio».

Satyricon 141, 2-3

“«Tutti coloro che hanno dei legati nel mio testamento, ad eccezione dei miei liberti, percepiranno ciò che ho elargito alla condizione di fare a pezzi il mio corpo e mangiarlo alla presenza del popolo»

«Sappiamo che presso alcuni popoli si osserva tuttora la legge secondo la quale i defunti debbon essere mangiati dai propri parenti, al punto anzi che i malati vengono rimproverati di sovente perché col loro stato peggiorano la qualità della propria carne. Con ciò io esorto i miei amici a non respingere le mie volontà, ma con quella stessa disposizione di spirito con cui mi hanno divorato l’anima, a mangiare anche il mio corpo»”.

Osserva Carsten Peter Thiede:

“Verso la fine del romanzo, nel frammentario capitolo 141, uno dei personaggi principali, Eumolpo, dichiara: «Tutti coloro che hanno dei legati nel mio testamento, ad eccezione dei miei libretti, percepiranno ciò che ho elargito alla condizione di fare a pezzi il mio corpo e mangiarlo alla presenza de popolo». La formulazione ricorda drasticamente la direttiva impartita da Gesù ai suoi discepoli: «Durante la cena, prese il pane, rese grazie, lo spezzò, lo porse ai suoi discepoli e disse: “Prendete, questo è il mio corpo”» (Marco 14, 22)”[5].

Il canto del gallo

Marco 14, 66-72:

“Mentre Pietro stava giù nel cortile arriva una delle serve del sommo sacerdote e, visto Pietro che si scaldava, lo fissa e gli dice: «Anche tu eri col Nazareno, con Gesù». Ma egli negò: «Non so, non capisco ciò che dici». E uscì fuori nel vestibolo, e un gallo cantò. Ma la serva, vedutolo, cominciò di nuovo a dire agli astanti: «Costui è di quelli!». Ma egli ancora negava. Poco dopo gli astanti dicevano di nuovo a Pietro: «Tu sei davvero di quelli, perché sei galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco l’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola dettagli da Gesù: «Prima che il gallo abbia cantato due volte, tre volte mi avrai rinnegato». E proruppe in pianto”.

Satyricon 74, 1-3:

“Mentre stava pronunciando queste parole, si sentì il canto di un gallo. Turbato a sentire questo suono, Trimalchione ordinò di spargere vino sotto la tavola e di versarne anche sulla lucerna. Per di più si passò l’anello nella destra e aggiunse: «Non è senza motivo che questo trombettiere ha dato il segnale; infatti o ci deve essere un incendio o qualcuno nelle vicinanze sta per tirare le cuoia. Dio ce ne scampi e liberi! Pertanto, chiunque porterà qui questo profeta di sventure, avrà una mancia»”.

Secondo Ilaria Ramelli, nel mondo greco e latino il canto del gallo “non è mai ritenuto un preannunzio di morte se non in Petronio, da un lato, e, dall’altro, nei Vangeli: anzi, Marco è quello che si sofferma più degli altri sul particolare del gallo, che canta due volte”[6].

A giudizio di diversi papirologi, all’epoca della composizione del Satyricon era già stato scritto almeno il Vangelo di Marco:

“Se si accetta l’identificazione – proposta da José O’Callaghan e accolta da Carsten Peter Thiede, Orsolina Montevecchi, Sergio Daris, Karl Jarosh, J. Marie Vernet –, del frammento qumrânico 7Q5 con il passo di Mc 6, 52-53, si deve far risalire il Vangelo a prima del 50, come è suggerito dallo stile paleografico del frammento, e comunque prima del 68, quando le grotte di Qumrân furono definitivamente chiuse”[7].

Un altro autore pagano che quasi certamente conobbe il cristianesimo e rispetto al quale, a differenza di Petronio,  fu tutt’altro che ostile, è Seneca. È probabile che il suo epistolario con san Paolo, a lungo considerato apocrifo, sia – a parte una lettera sicuramente apocrifa – davvero autentico, come hanno più volte argomentato la prof. Marta Sordi e la predetta Ilaria Ramelli. Ne riparleremo.

Lucio Anneo Seneca

 

 

[1] Antonio Socci, La guerra contro Gesù, Rizzoli, Milano 2011, p. 180, nota 283.

[2] Ennio Innocenti – Ilaria Ramelli, Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006, p. 491

[3] Ivi, p. 395.

[4] Ivi, pp. 303-305.

[5] Carsten Peter Thiede, La nascita del cristianesimo, Mondadori, Milano 1999, p. 131.

[6] Ennio Innocenti e Ilaria Ramelli, op. cit., p. 306.

 

[7] Ivi, p. 302.

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