Il Testimonium Flavianum è autentico anche se Flavio Giuseppe non era cristiano

Oggi vorrei fare alcune osservazioni sul celeberrimo Testimonium Flavianum di Flavio Giuseppe. Sul Testimonium sono stati scritti fiumi di inchiostro. Soprattutto per sceverare ciò che vi è di autentico dalle parti (presuntivamente) interpolate. Io però vorrei seguire una strada diversa, che non viene quasi mai percorsa: vorrei cioè esaminare il Testimonium alla luce di altri passi delle opere di Flavio Giuseppe, passi che ci possono dire qualcosa sul contesto storico del Testimonium.

Nelle Antichità giudaiche Flavio Giuseppe parla infatti anche di due personaggi profondamente legati a Gesù: Giovanni Battista e Giacomo, il “fratello di Gesù”.

Innanzitutto riporto il testo del Testimonium nella traduzione di Luigi Moraldi:

“Allo stesso tempo, circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumeri altre cose meravigliose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti Cristiani”[1].

Qui finisce il testo del Testimonium Flavianum, che tanto ha fatto discutere

Subito dopo, Flavio Giuseppe aggiunge:

“Nello stesso periodo un altro orribile evento gettò lo scompiglio tra i Giudei e contemporaneamente avvennero azioni di natura scandalosa in connessione al tempio di Iside”.

Una prima puntualizzazione: come si può notare, Flavio Giuseppe considerava la condanna alla croce di Gesù un evento orribile, anche se molti, troppi, studiosi, omettono di ricordarlo.

Riporto adesso il passo su Giovanni Battista:

“Ma ad alcuni Giudei parve che la rovina dell’esercito di Erode fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta giusta per la maniera con cui si era comportato verso Giovanni soprannominato Battista. Erode infatti aveva ucciso quest’uomo buono che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il battesimo doveva rendere gradito a Dio. Essi non dovevano servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato commesso, ma come di una consacrazione del corpo insinuando che l’anima fosse già purificata da una condotta corretta. Quando altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode, perciò, decise che sarebbe stato molto meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte. Ma il verdetto dei Giudei fu che la rovina dell’esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene infliggere un tale rovescio a Erode”[2].

Quindi, secondo Flavio Giuseppe, Giovanni Battista era un uomo buono, che esortava i Giudei a una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca e alla pietà verso Dio. Un attestato di stima che denota un atteggiamento profondamente diverso rispetto a quello delle autorità religiose del tempo di Erode, che, oltre a Gesù, odiavano anche il Battista. Ecco cosa dice di loro il Vangelo di Matteo:

“Quando [Gesù] fu entrato nel tempio, i gran sacerdoti e gli anziani del popolo gli si avvicinarono mentre insegnava e dissero: «Con quale autorità fai questo? E chi ti ha dato codesta autorità?». Gesù rispose loro: «Vi farò anch’io una sola domanda e se voi mi risponderete anch’io vi dirò con quale autorità faccio questo: il battesimo di Giovanni donde veniva, dal cielo o dagli uomini?». Ed essi ragionavano dentro di sé: «Se diciamo: ‘Dal cielo’, ci dirà: ‘Perché, allora non ci avete creduto?’. Se invece diciamo: ‘Dagli uomini’, dobbiamo temere la folla, perché tutti ritengono Giovanni un profeta». E risposero a Gesù: «Non sappiamo». Ed egli replicò: «Nemmeno io vi dico con quale autorità faccio questo»”[3].

Le autorità religiose ebraiche non credettero a Giovanni così come si rifiutarono di credere a Gesù. Passiamo ora al passo delle Antichità giudaiche in cui Flavio Giuseppe parla dell’omicidio di Giacomo, il “fratello di Gesù”, omicidio voluto dal sommo sacerdote Anano nell’anno 62 d.C.:

“Con il carattere che aveva, Anano pensò di avere un’occasione favorevole alla morte di Festo mentre Albino era ancora in viaggio: così convocò i giudici del Sinedrio e introdusse davanti a loro un uomo di nome Giacomo, fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo, e certi altri, con l’accusa di avere trasgredito la Legge, e li consegnò perché fossero lapidati. Ma le persone più equanimi della città, considerate le più strette osservanti della Legge si sentirono offese da questo fatto. Perciò inviarono segretamente (legati) dal re Agrippa supplicandolo di scrivere una lettera ad Anano che il suo primo passo non era corretto, e ordinandogli di desistere da ogni ulteriore azione. Alcuni di loro andarono a incontrare Albino che era in cammino da Alessandria informandolo che Anano non aveva alcuna autorità di convocare il Sinedrio senza il suo assenso. Convinto da queste parole, Albino inviò una lettera sdegnata ad Anano minacciandolo che ne avrebbe portato la pena dovuta. E il re Agrippa, a motivo della sua azione depose Anano dal sommo pontificato che aveva da tre mesi, sostituendolo con Gesù, figlio di Damneo”[4].

Dunque, riassumendo, Flavio Giuseppe elogia Giovanni Battista, riferisce – senza contestarla – la vox populi secondo cui la rovina di Erode era una punizione divina per l’omicidio di Giovanni e, infine, depreca l’uccisione di Giacomo: questi mi sembrano altrettanti segnali del distacco maturato da Giuseppe nei confronti di quella classe dirigente, religiosa e politica, ebraica che avversava il cristianesimo e alla quale Giuseppe era pur appartenuto, sia per nascita (era di stirpe sacerdotale, per parte di padre, e di stirpe regale, per parte di madre) che per formazione (in gioventù era stato fariseo).

È così illogico pensare che, con queste premesse, Giuseppe potesse riconoscere anche la grandezza di Gesù, e questo pur senza convertirsi al cristianesimo?

A questo punto vorrei sottoporre ai lettori un ulteriore elemento di valutazione sulla considerazione che Flavio Giuseppe aveva di Gesù presentando un passo della Guerra giudaica troppo spesso sfuggito, nelle sue reali implicazioni, all’attenzione degli studiosi. Un passo che però non è sfuggito all’attenzione del grande esegeta mons. Francesco Spadafora. Si tratta del passo relativo alla profezia riguardante la conquista di Gerusalemme e l’incendio del Tempio. Riporto a seguire il passo in questione, nella traduzione di Giuseppe Ricciotti, con il relativo commento di Spadafora:

«Ogni statuto umano – conclude Giuseppe – era da loro [dagli zeloti] calpestato, le cose divine erano derise, e gli oracoli dei Profeti beffeggiati come volgari fandonie; eppure questi avevano preannunziato, circa la virtù e il vizio certi precetti, trasgredendo i quali, gli Zeloti fecero anche sì che s’avverasse la profezia contro la loro patria.

«Esisteva infatti un antico detto di uomini ispirati da Dio, secondo cui la città sarebbe stata conquistata e il (luogo) santissimo sarebbe stato incendiato per diritto di guerra, allorché fosse scoppiata la sedizione e mani domestiche avessero profanato il recinto sacro di Dio: e tali preannunzi gli Zeloti, pur non negando loro fede, s’offrivano quali ministri per avverarli»[5].

Commenta mons. Spadafora:

“A quale vaticinio allude qui lo scrittore giudaico? Non c’è in realtà nei testi sacri nulla cui ci si possa riferire; di una profanazione del Tempio ad opera di mani domestiche, cioè di elementi giudaici; come nulla si riscontra negli scritti apocrifi. «Il Thackeray ha rilevato che un oracolo di questo genere esiste realmente in Oracoli Sibillini, IV, 117 e s., e che si tratta di un vaticinium post eventum, giacché questo passo non risale oltre l’80 d.C. circa; in tal caso, però, è contemporaneo o anche di poco posteriore alla Guerra giudaica, e Giuseppe non avrebbe potuto conoscerlo». Ma se l’esistenza del vaticinio, tra i Giudei, è esatta; se Giuseppe riferisce con precisione anche questo particolare; se nessuna fonte biblica (V. T.) e extrabiblica può giustificarne la provenienza; è forse temerario avanzare l’ipotesi che il vaticinio noto ai Giudei, sia la profezia di Gesù sulla distruzione di Gerusalemme, nella quale è dato come segno inconfondibile la profanazione del Tempio? È del tutto verosimile che una profezia ripetuta oralmente nella catechesi, così solennemente data dal Cristo, e messa per iscritto da Matteo (circa 40-42), e quindi da Mc. E da Lc. (ca. 50/55), non rimanesse del tutto ignota ai Giudei, i quali dovettero essere colpiti da quella indicazione accurata del segno per eccellenza, offerto da Cristo”[6].

Edizioni Amicizia Cristiana - Francesco Spadafora: Bio-Bibliografia

Francesco Spadafora

L’ipotesi di Spadafora mi sembra illuminante, per quanto trascurata dagli studiosi. È infatti possibile, se non probabile, che una persona come Flavio Giuseppe, che nutriva un profondo interesse per la spiritualità e per le correnti religiose del suo popolo, abbia conosciuto la profezia di Gesù – non solo dai Vangeli scritti ma anche, forse, dalla catechesi orale.

La realizzazione della profezia di Gesù deve aver suscitato un’impressione enorme non solo sugli uomini della generazione apostolica ma anche su quelli della generazione successiva: quelli della generazione di Giuseppe. Ripeto la domanda: è davvero illogico pensare che un uomo intellettualmente onesto come Flavio Giuseppe abbia riconosciuto la grandezza di Gesù quale emerge dal suo Testimonium?

Osservo che non è necessario essere cristiani per riconoscere la grandezza di Gesù. Ad esempio, il filosofo stoico Mara bar Serapion, vissuto nella seconda metà del I secolo d.C., era un ammiratore di Gesù, eppure non risulta una sua conversione al cristianesimo. In una lettera inviata al figlio, datata a poco dopo il 73, chiama Gesù «il saggio re dei Giudei» e considera la catastrofe ebraica del 70 “come una punizione divina nei riguardi dei Giudei, da lui ritenuti responsabili della condanna di Gesù”[7].

Certo, nel Testimonium c’è una espressione (“Egli era il Cristo”) che un vero cristiano non avrebbe mai pronunciato: un vero cristiano avrebbe scritto che Gesù è il Cristo. Ma proprio un’espressione come quella di Flavio Giuseppe, giudicata non autentica da molti studiosi (da ultimo, Luciano Canfora) dimostra che il Testimonium è autentico e probabilmente non interpolato.

In conclusione, chi era Gesù per Giuseppe? Forse, era il Messia (e guarda caso l’espressione “Forse era il Messia” ricorre nella versione del Testimonium scoperta dal prof. Shlomo Pinès in un codice arabo del X secolo: la Storia universale di Agapio vescovo di Hierapolis)[8]. Ma all’epoca in cui scrisse le Antichità giudaiche Flavio Giuseppe aveva da tempo fatto un’altra scelta: il suo “messia”, a cui si era votato, era il generale romano Vespasiano, proclamato imperatore romano in Giudea nell’anno 68 d.C. Era un messia politico, proprio quello che non aveva voluto essere Gesù. Evidentemente, per Flavio Giuseppe, diventare cristiano avrebbe comportato degli oneri e dei pesi che non era disposto a sostenere.   

Tito Flavio Vespasiano

 

[1] Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, UTET, Torino 1998, Volume secondo, pp. 1116-1117.

[2] Ivi, pp. 1125-1126.

[3] La Sacra Bibbia, a cura e sotto la direzione di mons. Salvatore Garofalo, Marietti, Casale Monferrato 1966, pp. 48-49.

[4] Giuseppe Flavio, op. cit., Volume secondo, p. 1247.

[5] Francesco Spadafora, Gesù e la fine di Gerusalemme e l’escatologia in San Paolo, Istituto Padano Arti Grafiche, Rovigo 1971, p. 287.

[6] Ivi, pp. 287-288.

[7] Ennio Innocenti e Ilaria Ramelli, Gesù a Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 2006, p. 466.

[8] Antonio Socci, La guerra contro Gesù, Rizzoli, Milano 2011, pp. 218-219.

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