Thomas Kues: “Belzec” di Rudolf Reder – Una lettura critica

“BELZEC” DI RUDOLF REDER – Una lettura critica

Di Thomas Kues, 2008

Nel 2000, lo storico polacco M. M. Rubel ha pubblicato una traduzione annotata del resoconto testimoniale di Rudolf Reder del periodo trascorso come prigioniero nel presunto campo di sterminio di Belzec, che è intitolato semplicemente Belzec. Era stato originariamente pubblicato come un opuscolo di 74 pagine a Cracovia, in Polonia, nel 1946. Questa traduzione, pubblicata nel volume 13 della rivista Polin: Studies in Polish Jewry, è attualmente la traduzione inglese più accessibile del resoconto di Reder. Nel seguente articolo, esaminerò questo testo e i suoi contenuti, confrontandoli con la storiografia ortodossa come pure con i resoconti di altri testimoni.

La nota introduttiva di Rubel

Nella sua nota introduttiva alla traduzione, Rubel inizia discutendo l’importanza del resoconto di Reder. Vi furono presuntivamente solo sette sopravvissuti del campo di Belzec, e di questi sette solo due – Rudolf Reder e Chaim Hirszman – hanno lasciato una testimonianza delle loro esperienze. Poiché Hirszman rilasciò solo una breve dichiarazione prima di venire ucciso – da polacchi antisemiti secondo la maggior parte degli storici, da polacchi che avevano preso di mira Hirszman a causa del suo ruolo di funzionario comunista, secondo almeno una fonte[1] – il resoconto di Reder è considerato come la testimonianza più importante sul campo di Belzec lasciata da un ex prigioniero ebreo. Oltre a Reder, Rubel menziona anche i rapporti lasciati da Kurt Gerstein, e la testimonianza postbellica lasciata dal professor Wilhelm Pfannenstiel[2].

Illustrazione 1: la copertina dell’edizione polacca originale di Belzec

Rubel ci fornisce anche alcune informazioni biografiche su Reder. Egli nacque il 4 aprile 1881, nella città polacca di Debica, il che significa che nel 1942 aveva non meno di 61 anni, l’anno in cui egli afferma di aver trascorso tre mesi e mezzo come prigioniero a Belzec. Secondo Rubel, Reder solo nel 1945 testimoniò su Belzec in tre diverse occasioni: “due volte per la Commissione Storica Ebraica, e la terza volta per Jan Sehn, un magistrato che raccoglieva prove per conto della commissione regionale inquirente sui crimini tedeschi in Polonia”. L’opuscolo Belzec non venne scritto dal solo Reder, ma in collaborazione con una certa Nella Rost (il cui cognome è mal compitato da Rubel come Post), che scrisse anche una prefazione (non inclusa nella traduzione di Rubel). Rubel scrive che il resoconto venne pubblicato “a suo nome ma venne scritto probabilmente da [Rost]”.

Il traduttore non sa molto sulla successiva vita di Reder e suoi luoghi in cui è vissuto. Ci viene detto che sposò la sua ex governante (che lo aveva nascosto dopo la sua fuga da Belzec) e che emigrò in Canada all’incirca all’inizio degli anni 1950. All’epoca, aveva cambiato il suo nome in Roman Robak, e sotto questo nuovo nome rese una deposizione nell’ufficio del procuratore di Monaco nel 1960 come preliminare del processo contro l’ex personale del campo di Belzec, che ebbe infine luogo in questa stessa città nel 1965. Rubel non sa in quale anno Reder morì, ma fornisce come stima la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70[3].

La deportazione e l’arrivo a Belzec

Nelle prime pagine del suo resoconto, Reder racconta come egli ed altri ebrei del ghetto di Lemberg (Lvov) vennero rastrellati il 16 agosto 1942 e inviati in un campo a Janowska. Deve essere osservato che Reder non fornisce nessuna informazione personale su di sé (come il fatto che all’epoca aveva superato i 60 anni di età) né qui né in seguito nel testo. Sappiamo tuttavia, grazie al traduttore, che Reder era stato un produttore di sapone a Lemberg. Poi, Reder menziona le dicerie che circolavano sul presunto campo della morte di Belzec:

Eravamo disperati, perché sapevamo già bene cosa la parola Aussiedlung significasse. Ci era stata raccontata la storia di un lavorante che a suo tempo aveva fatto parte di un commando della morte a Belzec, ma che poi riuscì infine a fuggire. Quando stava lì venne utilizzato nella costruzione di camere camuffate da bagni che in realtà avevano la funzione di gasare le persone. […] Sentimmo anche la storia di una guardia ucraina utilizzata lì nell’uccisione degli ebrei che raccontava le sue esperienze alla sua ragazza polacca. La donna fu così spaventata da ciò che aveva sentito che decise di diffondere la notizia per avvertire le potenziali vittime. Questo è il modo in cui venimmo a conoscenza di Belzec[4].

Dopo aver trascorso un giorno nel campo di Janowska, Reder venne deportato a Belzec insieme ad altri 5.000 ebrei. Di questi 5.000, presuntivamente solo 8 uomini rimasero vivi poche ore dopo l’arrivo. Questi 8, secondo Reder, furono i soli a farsi avanti quando le guardie tedesche chiesero se c’erano lavoratori specializzati. Come per miracolo, il testimone anziano venne accettato per il lavoro pesante.

La descrizione generale del campo da parte di Reder

Quella seguente è la descrizione di Reder di cosa egli osservò quando il treno in cui era deportato arrivò al campo di Belzec:

Era una piccola stazione circondata da piccole case occupate dalla Gestapo. Vicino alla stazione c’era un ufficio postale e gli alloggiamenti dei ferrovieri ucraini. Belzec è sulla linea tra Lublino e Tomaszow, a 15 chilometri da Rawa Ruska. A Belzec il nostro treno lasciò la linea principale e si spostò su un binario lungo circa un chilometro, che conduceva direttamente al campo. […] Il binario attraversò l’aperta campagna: nessun edificio abitato in vista[5].

Mentre l’ubicazione fornita per Belzec è corretta, la descrizione del paesaggio circostante al campo non è corretta, o almeno è fuorviante. Uno sguardo ad una mappa polacca del 1937 (Illustrazione 2)[6] mostra che il piccolo sperone laterale avrebbe condotto più o meno direttamente dal limite meridionale dello scalo ferroviario di Belzec al campo (il suo futuro perimetro è stato segnato in rosso dal sottoscritto), con lo sperone che misura 500 metri, secondo lo storico israeliano Yitzhak Arad[7]. Inoltre, c’erano almeno una manciata di strutture civili visibili dallo sperone ferroviario, come pure il binario principale e una più grande strada pavimentata accessibile ai civili.

Illustrazione 2: porzione di una mappa polacca dell’area Tomaszow-Lubelski, tracciata nel 1937. Il perimetro approssimativo del futuro campo è stato segnato in rosso dall’autore dell’articolo.

Quando si giunge alla sua descrizione del personale tedesco (e austriaco) di stanza al campo, Reder non sa decidersi se costoro fanno parte della Gestapo o delle SS. Rubel si sente obbligato a notare questo e spiega che “”nessun membro della Gestapo fu mai impiegato in nessuno dei campi della morte” e che perciò “dovunque Reder utilizza la parola Gestapo in riferimento alla guarnigione tedesca del campo della morte di Belzec” dobbiamo “leggere uomini delle SS”. Tuttavia il testimone sembra in grado di distinguere tra la Gestapo e le SS, poiché successivamente scrive sul comandante del campo (Christian Wirth):

Sebbene raramente venisse al campo, per gli altri uomini delle SS era un terrore[8].

Egli fa parimenti notare che:

Gli uomini delle SS vivevano senza donne sia a Belzec che all’interno del campo. […] Né il comandante né gli altri membri della Gestapo avevano un contatto personale quotidiano con il campo[9].

Quanto era grande il campo di Belzec? Reder scrive:

Il campo era sotto il totale controllo delle SS. A nessuno era permesso di avvicinarsi. Quelli che si ritrovavano per errore nell’area venivano uccisi sul posto. Il treno entrava in un cortile di un chilometro quadrato chiuso su tutti i lati da filo spinato e da una rete metallica ad un’altezza di 2 metri. Questa recinzione non era elettrificata. L’ingresso al cortile avveniva attraverso un grande portone di legno coperto con filo spinato. Vicino a questo portone c’era una guardina con un telefono. Nella guardina c’erano pochi uomini delle SS con cani[10].

Tuttavia dalle foto aeree della Luftwaffe dell’allora già liquidato campo scattate nel 1944 possiamo accertare le dimensioni approssimative del campo: aveva la forma di un rettangolo irregolare misurante grosso modo metri 250×300, con una gran parte di esso a quanto pare ancora coperta da alberi durante il periodo operativo del campo. Il cortile descritto da Reder è quindi grande almeno quattro volte l’intera area del campo!

Secondo Reder, la forza lavoro dei prigionieri ebrei a Belzec, che egli chiama il “commando della morte”, consisteva di 500 individui divisi in due gruppi, “i lavoranti che eseguivano lavori vari” e “i cosiddetti professionisti”. I prigionieri erano alloggiati in due baracche che disponevano di 250 letti a castello ognuna.

Non lontano dalle baracche c’era una cucina, il magazzino del campo, un ufficio, una lavanderia, una sartoria, e, infine, degli edifici confortevoli per gli ascari[11].

Qui per la prima volta incontriamo un punto dove il resoconto di Reder si scontra con la storiografia ufficiale di Belzec. Secondo gli storici ortodossi, i tre campi Reinhardt – Belzec, Sobibor e Treblinka – vennero costruiti e gestiti in modo più o meno identico, con i lavoranti prigionieri ebrei divisi in due gruppi principali: il primo occupato principalmente allo smistamento dei vestiti e degli effetti personali, il secondo che assolveva i compiti direttamente collegati ai presunti stermini, come lo sgombero delle camere a gas ed il seppellimento dei morti. A Belzec non viene fatta una tale distinzione tra i prigionieri ebrei – né l’idea di un “campo della morte vero e proprio”, un’area recintata contenente installazioni di sterminio e fosse comuni, compare nel testo. Arad in effetti nota quest’anomalia:

La divisione assoluta dei prigionieri ebrei tra quelli del campo principale e quelli dell’area di sterminio esisteva a Sobibor e a Treblinka. Non vi è certezza se una tale divisione esistesse a Belzec. Uno dei due sopravvissuti di Belzec, Rudolf Reder, nel suo libro su questo campo, si riferì a tutti i prigionieri ebrei di questo campo come ad un solo gruppo. Tuttavia, nelle testimonianze rese dagli uomini delle SS che furono di stanza a Belzec, gli ebrei erano divisi in due gruppi separati[12].

Inoltre, sulla mappa di Belzec che accompagnò l’edizione originale dell’opuscolo di Reder (Illustrazione 3), una tale divisione del campo non appare. Rubel non si è preso il disturbo di riprodurre questa mappa insieme alla sua traduzione del resoconto.

Illustrazione 3: la mappa di Reder di Belzec, riprodotta da Kola.

Nel seguente passaggio descrittivo viene asserito che l’edificio di gasazione era direttamente accessibile dal cortile:

Il campo era circondato da una densa foresta di pini giovani. Sebbene l’imboschimento fosse spesso, i rami extra venivano tagliati intervallando quelli rimasti sopra la camera a gas in modo da far penetrare un minimo di luce. Vicino alle camere a gas c’era un viottolo sabbioso lungo il quale trascinavamo i cadaveri. Sopra i tedeschi avevano disposto una rete metallica intrecciata con più rami. Questa parte del campo era coperta dalla vegetazione ed era più scura delle altre zone. Suppongo che i tedeschi volessero precludere l’area alla ricognizione aerea. Il portone principale dava su un grande cortile, circondato da tutti i lati da uno steccato alto 3 metri. Era costituito da tavole di legno aderenti di colore grigio. Il cortile conduceva direttamente alla camera a gas. Così nessuno all’esterno avrebbe potuto vedere cosa succedeva dentro[13].

E allora come mai Reder non notò la presunta divisione del campo e la separazione della sua forza lavoro ebraica, oppure se ne dimenticò quando scrisse il suo libro, poco dopo la fine della guerra? Potrebbe essere che le ex SS nei processi degli anni ’60 nella Germania Ovest basarono le loro testimonianze – almeno quella parte concernente i presunti stermini – su una narrazione dell’Aktion Reinhardt generalmente composita (combinando elementi di Wiernik, Gerstein e altri) piuttosto che attenersi alla verità vera, oppure è Reder che inattendibile su questa questione?[14]

Reder usa la parola asker [ascaro] per denotare gli ausiliari ucraini (o “hiwi) impiegati come guardie de campo. Il termine è a quanto pare una corruzione di Askari, il nome di una tribù africana arruolata dall’esercito imperiale tedesco durante la prima guerra mondiale. Il termine venne presumibilmente applicato agli ucraini o “uomini Trawniki” a causa dell’uniforme nera che indossavano.

Nonostante la natura presuntivamente supersegreta del campo, i tedeschi non videro nessun rischio nel lasciare che i prigionieri ebrei come Reder lavorassero talvolta fuori del perimetro del campo:

Loro [i tedeschi] tenevano grandi branchi di anatre e di oche. La gente diceva che all’inizio dell’estate essi ricevevano interi canestri di ciliegie. Forniture di vino e di altri alcolici arrivavano quotidianamente. Una volta stavo riparando un forno lì e vidi due giovani donne ebree che spennavano delle oche. Mi gettarono una cipolla e qualche barbabietola. Vidi anche una ragazza del villaggio che lavorava lì. Non c’era nessun altro oltre a loro, eccetto attendenti. Ogni domenica prendevano un’orchestra dal campo e facevano un’orgia di bevute. Gli uomini della Gestapo bevevano e si rimpinzavano come maiali[15].

Curiosamente sembra che nessuno tra gli ebrei dell’orchestra o tra gli altri detenuti inviati negli alloggi delle SS abbia mai colto l’opportunità per cercare di fuggire durante una di queste bevute!

La gestione dei trasporti e del processo di sterminio

Non appena venne selezionato per la forza lavoro, Reder dovette partecipare ai compiti relativi alla gestione dei trasporti in arrivo. Ecco come i treni dei deportati venivano ricevuti secondo lui:

Quando il treno era arrivato nel cortile, uno degli uomini usciva dalla guardina, chiudeva il portone e poi tornava dentro. In quel momento iniziava il ricevimento del trasporto. Diverse dozzine di uomini delle SS aprivano i vagoni urlando “Los”, cacciando fuori le persone con i frustini e i calci dei fucili. Le porte stavano a circa un metro dal terreno, e le persone, sia i giovani che i vecchi, dovevano balzare giù, spesso rompendosi le braccia o le gambe[16].

Si potrebbe pensare che, se i tedeschi volevano ingannare i deportati per indurli a credere di aver raggiunto un normale campo di transito, allora avrebbero costruito almeno una primitiva piattaforma. Gli ebrei che cadevano e si rompevano le gambe di fronte ai vagoni ad ogni modo avrebbero costituito un ostacolo al processo di scaricamento.

Poi, il testimone descrive il trattamento dei deboli e degli infermi:

I malati, i vecchi e gli infanti – in altre parole, tutti coloro che non potevano camminare con le proprie gambe – venivano gettati sulle barelle e portati alle fosse. Lì venivano fatti sedere sulla soglia, mentre Irrman – uno della Gestapo – sparava su di loro e spingeva i loro corpi dentro la fossa con il calcio di un fucile[17].

Se dobbiamo credere a Reder, Irrman, o il SS-Oberscharführer Fritz Jirmann, come era il suo vero nome e rango, era un uomo occupato: non solo portava tutti i deportati infermi nella fossa e sparava contro di loro, ma faceva anche il discorso ingannevole sulle docce e sui campi di lavoro ad ogni arrivo[18]. Dopo questo inganno, le colonne delle vittime venivano portate alle camere a gas:

Ed in silenzio tutti loro andavano avanti, gli uomini diritto attraverso il cortile verso un edificio che recava l’iscrizione “Bade und Inhalationsräume” a lettere grandi, le donne circa 20 metri più avanti presso una grande baracche [sic], di metri 15×30. Venivano condotti lì senza sapere il perché. Per pochi minuti ancora c’era pace e tranquillità. Vidi che quando venivano consegnati loro degli sgabelli di legno e ordinato dapprima di stare in riga e poi di sedersi, e quando otto barbieri ebrei, silenziosi come morti, per tagliare i loro capelli fino al nudo cuoio, era in questo momento che essi venivano colpiti dalla terribile verità. Era allora che né le donne né gli uomini – che stavano già per essere gasati – potevano avere nessuna illusione sul loro destino. […] C’erano urla e strepiti. Alcune donne diventavano matte. Altre, tuttavia, andavano verso la morte in modo calmo, le ragazze in particolare[19].

Poiché Reder arrivò a Belzec alla metà di agosto, l’edificio di gasazione che egli descrive sarebbe stato il nuovo, secondo edificio di gasazione, che, si ritiene, era stato costruito durante i mesi precedenti. Il secondo più importante testimone oculare di Belzec, Kurt Gerstein, visitò presuntivamente il campo il 18 agosto 1942, solo pochi giorni dopo l’arrivo di Reder. Secondo Reder, l’edificio di gasazione recava l’iscrizione “Bade und Inhalationsräume”. Secondo Gerstein d’altro canto, la grande iscrizione recitava “Stiftung Heckenholt” o “Heckenholt-Stiftung”[20]. È inoltre interessante il fatto che Reder localizzi lo stesso edificio “diritto attraverso il cortile”, invece di descrivere lo Schlauch o tubo che conduceva presuntivamente all’edificio di gasazione e alla sua entrata.

Rasare le donne richiedeva approssimativamente due ore. Due ore erano il tempo che ci voleva per approntare l’omicidio e per l’omicidio stesso.

Una dozzina circa di uomini delle SS conducevano le donne armati di frustini e baionette fino all’edificio e da lì tre passi verso una sala. Lì gli ascari contavano 750 persone per ogni camera a gas. Le donne che cercavano di resistere venivano colpite con le baionette fino a far scorrere il sangue. Alla fine tutte le donne venivano costrette a entrare nelle camere. Sentivo che le porte venivano chiuse; sentivo strilla e urla; sentivo disperate richieste di aiuto in polacco e in yiddish. Sentivo i lamenti agghiaccianti delle donne e le urla dei bambini, che dopo poco diventavano un unico orribile urlo…Questo continuava per quindici minuti. Il motore lavorava per venti minuti. Dopo di che c’era un silenzio totale. Allora gli ascari aprivano la porta che dava sull’esterno. Era allora che quelli di noi che erano stati selezionati da differenti trasporti, con vestiti non contrassegnati e senza tatuaggi, iniziavamo il nostro lavoro.

Tiravamo fuori i cadaveri delle persone che erano state vive fino a poco prima. Li trascinavamo alle fosse con l’aiuto di cinturini di pelle mentre un’orchestra suonava…dalla mattina fino a notte[21].  

Secondo Yitzhak Arad, il nuovo edificio di gasazione misurava metri 24×10 e conteneva sei camere che misuravano ognuna metri 4×8 o 4×5. Arad valuta la loro capacità di assorbimento totale come approssimativamente 2.000 persone, il che a sua volta significa da 10 a 17 vittime per metro quadro. Utilizzare le dimensioni fornite da Arad significherebbe che Reder ci vuole far credere che da 23 a 37.5 vittime erano stipate in ogni metro quadro della camera a gas. Chiaramente tutto ciò è assurdo – ma un’assurdità con un retroscena. La cifra delle 750 vittime per camera è identica a quella dichiarata da Kurt Gerstein nei suoi rapporti[22]. La cifra è ripetuta nel paragrafo successivo:

Ogni trasporto riceveva lo stesso trattamento. Alle persone veniva ordinato di svestirsi e di lasciare i loro effetti nel cortile. Ogni volta c’era lo stesso discorso ingannevole. […] Ma un minuto dopo, e con estrema brutalità, i bambini venivano strappati alle loro madri, i vecchi e i malati venivano gettati su barelle, mentre gli uomini e le ragazzine venivano spinti con i calci dei fucili verso un sentiero recintato che conduceva direttamente alle camere a gas. Nello stesso tempo, e con la stessa brutalità, le donne già nude venivano portate nelle baracche, dove venivano rasati loro i capelli. Sapevo esattamente il momento in cui tutti loro improvvisamente capivano cosa c’era in serbo per loro. Grida di paura e angoscia, terribili gemiti, mescolati con la musica suonata dall’orchestra. Incalzati e feriti dalle baionette, dapprima gli uomini venivano fatti correre verso le camere a gas. Gli ascari contavano 750 persone per ogni camera. Prima che tutte le sei camere venissero riempite, quelli che erano entrati all’inizio soffrivano da quasi due ore. Era solo quando tutte le sei camere erano state stipate di persone, quando le porte erano bloccate in posizione, che il motore veniva azionato[23].

Secondo il resoconto di Reder il motore di gasazione venne sempre azionato da due guardie ucraine, e sempre dagli stessi due individui. Reder inoltre afferma che i detenuti ebrei non avevano contatti con gli ucraini, che erano soliti sparare a quei lavoranti che cercavano di dare acqua o cibo alle vittime sopraggiunte[24].

Come mai sia Gerstein che Reder tirarono fuori lo stesso numero di vittime per camera a gas assurdamente alto? Come tentativo di razionalizzazione, Rubel scrive che esso derivò da Christian Wirth, che espresse questa cifra esagerata a Gerstein e a Pfannenstiel per gonfiare la capacità omicida delle camere. È un suggerimento di Rubel che questa cifra poi divenne quella “ufficiale” e che Reder poi la sentì dalle guardie o dai suoi compagni di prigionia. Tuttavia, se si guarda a quello che Reder scrive davvero, troviamo affermato due volte che “gli ascari contavano 750 persone per ogni camera a gas” (a askarzy odliczali po 750 osob do kazdej komory)[25].

È possibile che Reder o la sua ghostwriter Nella Rost abbiano avuto accesso ad uno dei rapporti Gerstein all’epoca della stesura di Belzec? Sappiamo che la prima edizione dell’opuscolo di Reder venne pubblicata dal Wojewódzka Zydowska Komisja Historyczna (Comitato Storico Ebraico Regionale) a Cracovia nel 1946. Sappiamo anche che il primo dei rapporti Gerstein venne scritto nella prigione di Rottweil il 26 aprile 1945, e che l’ultimo venne scritto il 6 maggio dello stesso anno[26]. Il testo in tedesco denominato T II da Roques venne scritto il 26 aprile 1945 e in seguito archiviato dagli inquirenti alleati come Document PS-1553. Nel gennaio 1946 lo stesso documento venne rifiutato dal Tribunale di Norimberga[27]. Sappiamo anche che una versione, o piuttosto una riscrittura, di uno dei rapporti Gerstein era stata pubblicata dal giornale francese France Soir il 4 luglio 1945. Tuttavia, poiché il testo (di origine spuria) citato in questo articolo fornisce “dalle 700 alle 800 persone” come il numero totale delle vittime per ogni gasazione, questo non può essere stato la fonte dell’eventuale plagio[28]. Henri Roques scrive che “fino al 1951, i testi scritti da Gerstein […] erano stati letti solo da un numero molto limitato di persone, essenzialmente dai funzionari dei servizi di intelligence alleati, da magistrati di varie nazionalità, e da qualche raro giornalista”[29]. Questo non esclude che un’istituzione ufficiale come il Comitato Storico Ebraico Polacco non possa aver ottenuto una copia di un rapporto nel 1946. Sappiamo da altri casi che l’intelligence alleata occidentale cooperò con le autorità polacche e le rifornì nel 1947 di prove documentarie per i tribunali competenti per i crimini di guerra[30]. Che Nella Rost non menzioni Gerstein nella sua prefazione all’edizione originale del libro di Reder non significa necessariamente che lui e i suoi scritti le fossero sconosciuti. La questione della possibilità che i magistrati, gli storici e i propagandisti polacchi abbiano avuto accesso agli scritti di Gerstein poco dopo la fine della guerra necessita di ulteriori ricerche.

Il seguente aneddoto raccontato da Reder è molto interessante per il predetto contesto:

Un giorno, la macchina della morte si guastò. Quando egli [il comandante] ne venne informato, arrivò a cavallo e ordinò una immediata riparazione. Egli non permise che le camere a gas venissero aperte per far uscire fuori le persone: le lasciò asfissiare lentamente e morire in agonia per qualche ora in più. Egli si accovacciò vicino al motore, urlando e minacciando con furia. Sebbene raramente venisse al campo, per gli altri uomini delle SS era un terrore[31].

Questo episodio potrebbe essere identificato con la gasazione malriuscita presuntivamente vista e descritta da Gerstein. Tuttavia, è evidente che se Rudolf Reder (o Nella Rost) ebbero accesso al testo di uno dei rapporti Gerstein e copiarono da esso le cifre sulla capacità delle camere a gas, allora è anche possibile che Reder abbia parimenti plagiato la testimonianza di Gerstein nel predetto passaggio.

Il numero delle vittime e le loro nazionalità

Sul numero delle vittime deportate a Belzec, Reder ci informa:

Sono stato nel campo della morte di Belzec da agosto fino alla fine di novembre. Questo fu un periodo che vide la gasazione degli ebrei su vasta scala. Mi è stato detto da alcuni dei detenuti che erano riusciti a sopravvivere dai trasporti precedenti che la grande maggioranza dei convogli della morte giunsero durante questo preciso periodo. Arrivavano ogni giorno senza tregua. Di solito arrivavano tre volte al giorno. Ogni convoglio era composto da cinquanta vagoni, ogni vagone conteneva 100 persone. Se un trasporto arrivava durante la notte, le vittime venivano tenute in vagoni piombati fino alle 6 della mattina. Il tasso di mortalità era di 10.000 persone al giorno. Alcuni giorni i trasporti erano non solo più grandi, ma anche più frequenti. Gli ebrei venivano portati da ogni dove: nessun altro, solo ebrei[32].

Con una media di 10.000 arrivi al giorno, sarebbero stati gasati a Belzec solo durante la permanenza di Reder al campo non meno di 1 milione di ebrei. Yitzhak Arad afferma che 93.000 ebrei erano stati deportati a Belzec e uccisi lì fino alla metà del giugno 1942, quando la costruzione delle nuove camere a gas presuntivamente ebbe inizio[33]. Egli afferma anche che ulteriori 414.000 ebrei vennero deportati a Belzec da territori polacchi fino al dicembre 1942, insieme a 100.000 ebrei dall’esterno della Polonia[34]. Il cosiddetto telegramma Höfle d’altro canto mostra che in tutto vennero deportati a Belzec 434.508 ebrei. È perciò evidente che al massimo siano potuti arrivare a Belzec durante la (presunta) permanenza di Reder tra i 300.000 e i 350.000 ebrei. Ad ogni modo, rimane un mistero come i prigionieri lavoranti abbiano potuto scavare tutte le fosse necessarie ad ospitare le migliaia di vittime uccise quotidianamente!

Riguardo alla nazionalità delle vittime Reder scrive:

A parte gli ebrei polacchi c’erano anche trasporti di ebrei dagli altri paesi. La maggioranza dei trasporti stranieri proveniva dalla Francia. C’erano anche ebrei dall’Olanda, dalla Grecia, e anche dalla Norvegia. Non ricordo di aver visto ebrei tedeschi. D’altro canto, ricordo ebrei dalla Cecoslovacchia[35].  

È più o meno una certezza che nessun ebreo norvegese venne inviato a Belzec. Dalla Norvegia vennero deportati solo 767 ebrei. Il primo trasporto di ebrei (solo 21 individui) partì da Oslo il 19 novembre 1942, e a quell’epoca Reder era già presuntivamente fuggito da Belzec, che era pronta per la liquidazione. Egli non può perciò aver incontrato nessun ebreo norvegese.

Reder non ricorda di “aver visto ebrei tedeschi”. Arad d’altro canto sostiene che migliaia di ebrei tedeschi come pure austriaci vennero gasati a Belzec durante l’autunno del 1942[36]. Inoltre, tutte le fonti ortodosse sembrano concordare sul punto che la maggior parte dei 76.000 ebrei deportati dalla Francia (la grande maggioranza di essi non erano francesi) vennero inviati ad Auschwitz-Birkenau, e perciò il numero dei trasporti dalla Francia che eventualmente raggiunsero i campi Reinhardt in generale e Belzec in particolare deve essere stato basso, ammesso che vi siano stati. Una fonte afferma che solo quattro convogli francesi vennero inviati nei campi Reinhardt – tutti con destinazione Sobibor[37]. L’affermazione di Reder, secondo cui “la maggioranza dei trasporti stranieri proveniva dalla Francia” appare così assai spuria. Persino Rubel prende nota di questo, ma a quanto pare non gli sembra così strano che il testimone abbia asserito che la maggioranza dei deportati stranieri era costituita da ebrei francesi, come pure che abbia menzionato tre nazionalità che non misero mai piede a Belzec e che abbia disconosciuto la presenza di un’altra nazionalità che invece vi arrivò (gli ebrei tedeschi).

Per quanto riguarda Belzec, Reder asserì che il numero totale delle vittime era di 2.5 milioni (vedi sotto, “Il ritorno di Reder a Belzec”). In una precedente dichiarazione resa davanti alla Commissione Storica Ebraica di Cracovia nel 1945, aveva asserito che la cifra in questione era di 3 milioni. Così Reder credeva che il numero degli ebrei uccisi a Belzec fosse cinque o addirittura sei volte più alto di quello degli ebrei realmente deportati in quel campo. L’assurdità di questa convinzione diventerà anche più evidente quando discuteremo la concezione di Reder delle fosse comuni di Belzec.

Le camere a gas e l’agente mortale

Rispetto a molti altri testimoni oculari delle presunte camere a gas, e specialmente al personale dell’ex campo interrogato negli anni ’60, Reder fornisce ai suoi interlocutori una descrizione delle camere a gas che è piuttosto dettagliata:

L’edificio che conteneva le camere a gas non era alto, ma lungo e largo. Era fatto di blocchi di cemento grigio ed era coperto da un tetto piatto fatto di lamiere di amianto. Immediatamente sopra si estendeva una rete metallica coperta con rami. La porta dell’edificio era approcciata da tre gradini larghi un metro e senza ringhiere. Di fronte stava una grande fioriera piena di piante. C’era un’iscrizione sul davanti formata da grandi lettere: “Bade und Inhalationsräume”. I gradini conducevano ad un corridoio completamente vuoto e privo di luce; solo quattro muri di cemento. Era molto lungo, sebbene largo solo un metro e mezzo. Su entrambi i lati di esso c’erano le porte delle camere a gas. Queste erano porte scorrevoli fatte di legno, con manici di legno. Le camere a gas non avevano finestre. Erano buie e vuote. In ogni camera a gas c’era un foro delle dimensioni di una presa di corrente. Tutti i muri e i pavimenti erano fatti di cemento. Sia il corridoio che le camere a gas non erano più alti di 2 metri. Sul muro opposto all’ingresso di ogni camera a gas c’erano altre porte scorrevoli larghe 2 metri. Attraverso queste i cadaveri dei gasati venivano gettati fuori. Su un lato dell’edificio c’era annessa una tettoia non più grande di 2 metri quadri. Questa ospitava il motore, che era a benzina. Le camere a gas erano alte circa un metro e mezzo sopra il livello del terreno. Le porte davano sulla rampa, su cui i corpi delle vittime venivano gettati, al livello delle camere a gas[38].   

Reder qui afferma che il motore era collocato in una piccola “tettoia annessa”. Tuttavia a giudicare dalla descrizione di Kurt Gerstein, il motore era collocato alla fine del corridoio, visibile a Gerstein mentre egli ispezionava gli interni delle camere a gas attraverso gli spioncini delle loro porte interne[39].

Reder descrive l’effettivo agente mortale, vale a dire il presunto gas di scarico, nel modo seguente:

Il motore era grande, circa un metro per un metro e mezzo. Consisteva di un motore e di ruote. Il motore ronzava ad intervalli e lavorava così velocemente che non si potevano vedere i raggi girare. Lavorava per venti minuti. Dopo di che veniva spento. Le porte che dalle camere a gas davano accesso alla rampa venivano aperte. I corpi venivano gettati sul terreno in un mucchio enorme alto pochi metri. Gli ascari che aprivano le porte non prendevano misure precauzionali. Non sentivamo nessun odore particolare; non vidi nuvolette piene di gas o polvere gettata dentro. Quello che vidi erano taniche di benzina. […] Ma una volta, quando il motore andava male, venni chiamato per aggiustarlo. Nel campo mi chiamavano un Ofenkünstler [il setter della stufa]. Ecco perché mi selezionarono. Lo ispezionai e vidi tubi di vetro connessi con tubi di metallo, che conducevano ad ogni camera a gas. Pensammo che il motore lavorava producendo alta pressione, o succhiando via l’aria, o che la benzina producesse gas di scarico, che soffocava le persone. Le richieste di aiuto, le urla, e i gemiti terribili delle persone chiuse dentro e asfissiate lentamente duravano tra i dieci e i quindici minuti[40].

Dato che sappiamo che Reder aveva una formazione non come meccanico, ma come produttore di sapone a Lvov (Lemberg), sembra strano che gli fosse stato richiesto di riparare il motore di gasazione. Ci si sarebbe piuttosto aspettato che i due ucraini, che secondo il testimone gestivano sempre il motore, fossero capaci di risolvere tali problemi, o le SS guidatori di camion come Werner Dubois e Erich Fuchs, o che in alternativa sarebbe stato ordinato di riparare il motore ad ogni detenuto ebreo con una formazione da meccanico. Un lettore scettico potrebbe sospettare che Reder metta in risalto l’idea di sé stesso come una sorta di factotum del campo per dare un fondamento razionale alle sue affermazioni secondo cui aveva osservato la maggior parte del campo se non tutto, inclusi gli interni delle installazioni di sterminio e lo stesso agente mortale.

Reder identifica il motore, sebbene piuttosto grande quanto a dimensioni, come un motore a benzina, mentre l’ingegnere minerario Kurt Gerstein coerentemente lo descrive come un motore diesel[41].

Durante il suo interrogatorio condotto dal giudice polacco Jan Sehn il 29 dicembre 1945, Reder fornì il seguente resoconto dell’installazione di gasazione e dei suoi effetti sulle vittime:

Non sono nella posizione di dire in modo preciso quale processo chimico venne utilizzato per uccidere le persone nelle camere a Belzec. So solo che dalla stanza del motore un tubo, del diametro di un pollice[42], andava in ognuna delle camere a gas. Questi tubi avevano il loro sbocco nelle singole camere. Non posso dire se qualche gas veniva convogliato attraverso questi tubi nelle camere, se essi comprimevano l’aria nelle camere, o se l’aria veniva pompata fuori dalle camere. Ero spesso sulla rampa nel momento in cui le porte venivano aperte, ma non sentii mai nessun odore, e entrando in una camera subito dopo che le porte erano state aperte non provai mai nessun effetto malsano sulla mia salute. I corpi nella camera non mostravano uno scolorimento innaturale. Sembravano come persone vive, la maggior parte aveva gli occhi aperti. Solo in pochi casi i corpi erano insanguinati. L’aria nelle camere, quando venivano aperte, era pura, trasparente e inodore. In particolare, non c’era nessun fumo dal gas di scarico del motore. Il gas veniva evacuato dal motore direttamente nell’aria aperta, e non nelle camere[43].

Prima di tutto notiamo l’assenza dell’odore dello scarico del motore, che avrebbe permeato le camere anche se supponessimo un motore a benzina come l’agente mortale. Secondo il resoconto di Reder, i lavoranti sulla rampa entravano nelle camere a gas più o meno immediatamente dopo che una gasazione era ultimata, senza permettere che le camere venissero ventilate dalla corrente d’aria (nessun testimone di Belzec menziona nulla riguardo ad una ventilazione meccanica e non c’è nulla nella descrizione di Reder dell’interno delle camere che possa essere interpretato come parte di un congegno di ventilazione). L’idea che non c’era nessun odore è presente sia in Belzec che nel protocollo dell’interrogatorio del dicembre 1945.

Reder affermò nel protocollo dell’interrogatorio che le vittime non mostravano nessuno “scolorimento innaturale” e che sembravano “come persone vive”. Nessuna affermazione riguardante l’aspetto delle vittime si trova in Belzec. Come è stato vigorosamente fatto notare dal revisionista F. P. Berg, lo scolorimento della pelle delle vittime è un segno eloquente dell’avvelenamento da monossido di carbonio. Le fotografie nella letteratura specialistica sulla medicina forense rivelano che grandi scolorimenti rosa-ciliegia o rosso-violacei sono prevalenti e facilmente visibili sui corpi delle vittime[44]. È perciò altamente sospetto che Reder neghi di aver visto un tale scolorimento tra le vittime delle presunte gasazioni. Se egli avesse davvero, come ha affermato, trascorso dei mesi a trascinare i cadaveri dalle camere a gas alle fosse comuni, avrebbe certamente visto numerosi casi di scolorimento.

Nel resoconto fornito in Belzec, Reder descrive di aver visto “tubi di vetro connessi con tubi di metallo”, a loro volta a quanto pare uniti al motore. Il testimone dichiara di non sapere come esattamente le vittime nelle camere venivano uccise ed elenca l’alta pressione (presumibilmente ottenuta mediante l’immissione di aria), il vuoto (ottenuto mediante l’estrazione dell’aria) e “fumi di scarico” come tre possibilità. Nella precedente testimonianza del 1945 d’altro canto Reder menziona di nuovo il vuoto e l’alta pressione come possibili metodi di uccisione. Egli poi afferma di non sapere se “qualche gas” era stato convogliato attraverso i tubi. È opportuno notare che i gas non vengono precisati. Reder infine ci informa che le esalazioni del motore “venivano evacuate dal motore direttamente nell’aria aperta, e non nella camera”, contraddicendo così in modo manifesto il resoconto successivo fornito in Belzec, che stabilisce il gas di scarico del motore come un possibile metodo di uccisione. Considerate nella loro interezza, le affermazioni di Reder sulle camere a gas e sul metodo di uccisione sembrano in effetti assai curiose[45].

Le fosse comuni

Rudolf Reder sostiene di aver trascorso una parte significativa della sua lunga permanenza a Belzec durata quasi quattro mesi a trascinare i cadaveri nelle fosse comuni in prossimità dell’edificio di gasazione – uno strano caso di assegnazione di compiti quando si rammenta l’età avanzata di Reder all’epoca: 61 anni. In ogni caso, Reder asserisce la propria familiarità con le fosse comuni, la loro ubicazione e il loro aspetto:

C’erano fosse comuni su entrambi i lati dell’edificio che ospitava le camere a gas. Alcune erano già piene; altre erano ancora vuote. Vidi molte fosse riempite fino al limite della loro capienza e ricoperte di sabbia. Ci voleva molto tempo per livellarle. Vi doveva sempre essere una fossa vuota, per sicurezza…[46]  

Scavavamo fosse, fosse enormi, e trascinavamo i corpi. […] Scavavamo con vanghe, ma c’era anche una macchina che caricava sabbia, la portava in superficie e la scaricava accanto alle fosse. C’era una montagna di sabbia che usavamo per coprire le fosse quando erano stracolme. In media 450 persone lavoravano attorno alle fosse quotidianamente. Quello che trovavo più orribile era che ci era stato ordinato di ammucchiare i cadaveri ad un’altezza di circa un metro sopra la superficie del terreno, e solo allora dovevamo coprirli con la sabbia. Un sangue spesso e nero scorreva dai tumuli e copriva l’intera area come un mare. Per arrivare alla fossa vuota successiva dovevamo attraversare da un lato all’altro di una fossa già vuota. Guadavamo fino alle caviglie attraverso il sangue dei nostri fratelli. Camminavamo sopra cumuli di cadaveri. E questa era la cosa più spaventosa, più orribile…[47]

Nel resoconto pubblicato Belzec non ci viene mai detto il numero delle fosse. Sembra che Reder abbia riservato questa parte di informazione per i comitati ebraici e polacchi e per i magistrati davanti ai quali testimoniò. Nel 1945, di fronte alla Commissione Storica Ebraica, egli aveva affermato di averne contate 30, ognuna con una superficie che misurava metri 100×25, e contenente 100.000 cadaveri, permettendo così di arrivare al numero totale già menzionato di 3 milioni di uccisi. Nel suo interrogatorio davanti a Jan Sehn del dicembre 1945, Reder aggiunse che le fosse venivano scavate fino ad una profondità di 15 metri[48]. Come è stato fatto notare da Carlo Mattogno, nessuna delle fosse rintracciate nel sito dell’ex campo di Belzec da Andrzej Kola era più profonda di 5 metri, che la fossa con la maggiore area di superficie misurava 540 metri quadri (rispetto ai 2.500 metri quadri di Reder), e che la fossa più spaziosa misurava solamente 2.100 metri cubi (rispetto ai 37.500 affermati da Reder). Se ci dobbiamo fidare di Reder le fosse comuni a Belzec avevano un volume totale di 1.125.000 metri cubi. Secondo Andrzej Kola (la cui cifra è probabile sia di molto esagerata a causa dell’espansione delle fosse dovuta alle scavazioni selvagge postbelliche) la stessa cifra dovrebbe essere di 21.310 metri cubi[49]. Anche più schiacciante è il fatto che l’area totale delle fosse presunta da Reder – (2.500×30=) 75.000 metri quadri o 7.5 ettari – è più grande di quella dell’intero campo di Belzec (approssimativamente 7 ettari). Non dovrebbe perciò sorprendere che Reder all’inizio del suo opuscolo affermi che l’area del campo sia grande quattro volte le sue reali dimensioni!

Il trascinamento dei cadaveri alle fosse comuni veniva presuntivamente effettuato nel modo seguente:

…Il commando era impiegato anche a svuotare le camere a gas, ad ammucchiare i corpi su una rampa, e a trascinarli fino alle fosse. Il terreno era sabbioso. Due lavoranti trascinavano un corpo. Avevamo cinturini di pelle con borchie di metallo, che mettevamo attorno alle mani di un cadavere. Poi tiravamo, mentre la testa del morto spesso affondava nella sabbia…Riguardo ai bambini piccoli, ci era stato ordinato di portarli a coppie sulle nostre schiene. […] Questo “lavoro” veniva fatto solo in pieno giorno[50].

Come abbiamo già visto Reder sostiene che “in media 450” (su un totale di 500) detenuti “lavoravano intorno alle fosse quotidianamente”. Dato che il resto del lavoro giornaliero nel campo difficilmente avrebbe potuto essere effettuato dai rimanenti 50 detenuti (come abbiamo già visto Reder sostiene che metà dei detenuti erano “cosiddetti professionisti”), sembra probabile dal contesto che molti dei 450 erano impiegati in tale compito solo temporaneamente. Potremmo perciò presumere che il commando dei trascinatori di cadaveri avrebbe potuto, in un dato momento, ammontare al massimo a poche centinaia. Tuttavia 10.000 corpi dovevano essere trasportati quotidianamente dalle camere a gas alle fosse comuni, se dobbiamo credere alle predette dichiarazioni di Reder. Se supponiamo che 200 detenuti fossero stati assegnati al trascinamento dei cadaveri in un dato giorno per la durata di 12 ore diurne (senza interruzioni), e seguendo la descrizione di Reder del modo in cui il lavoro veniva effettuato, allora ogni lavorante avrebbe dovuto compiere quel giorno un totale di approssimativamente 100 giri, ovvero uno ogni 7 minuti. Ogni giro sarebbe consistito nell’attaccare i cinturini, trascinare il cadavere in una fossa non ancora piena, rimuovere i cinturini, collocare il cadavere nella fossa, e ritornare all’edificio di gasazione. Anche se raddoppiamo il numero dei lavoratori assegnati, il compito sarebbe stato estenuante. Sembra difficilmente credibile che un uomo relativamente anziano come Reder avrebbe potuto sopportare un lavoro così duro per più di pochi giorni al massimo.

Miscellanea di storie atroci

Naturalmente Reder fornisce ai suoi lettori anche le descrizioni di atti di sadismo perpetrati a caso dal personale tedesco e ucraino del campo. Tra le altre cose leggiamo:

Poco dopo il mio arrivo a Belzec i tedeschi selezionarono da un trasporto […] diversi giovani uomini, incluso un ragazzino. Egli era l’immagine della giovinezza, della salute e della forza. Ci sorprendeva anche con il suo buon umore. Si guardava intorno e chiedeva scherzosamente, “Nessuno è mai fuggito da qui?”. E questo era quanto. Egli venne sentito da qualche tedesco. Di conseguenza questo ragazzino, praticamente un bambino, venne torturato a morte. Lo spogliarono nudo e lo appesero a testa in giù sulla forca. Rimase lì per tre ore – ed era ancora vivo. Così lo misero giù, lo gettarono a terra, e gli ficcarono sabbia in gola con dei bastoni. Morì[51].

Da quanto appena detto possiamo apprendere che le SS erano a tal punto diaboliche da dedicare delle ore a torturare a morte un ragazzino colto a commettere un’infrazione minore contro le regole draconiane del campo. Costoro impiegarono addirittura un metodo di uccisione piuttosto strano e apparentemente inefficace: morte mediante sabbia conficcata nella gola della vittima con dei bastoni!

Che le bestie capaci di atti così ignobili passassero la maggior parte del loro tempo schioccando i frustini e guardando vogliosamente le sofferenze dei prigionieri non dovrebbe sorprenderci in alcun modo:

Agile, sottile e veloce – con le sembianze di un vero tagliagole e costantemente ubriaco – Schmidt correva di qua e di là per il campo dalle quattro della mattina fino a notte. Picchiava con evidente piacere chiunque poteva trovare. […] Schmidt si trovava sempre dove c’era il peggiore tormento. Non mancava mai l’opportunità di vedere le vittime condotte alle camere a gas. Stava lì ascoltando le terribili urla penetranti delle donne gasate. Egli era la vera anima del campo, sanguinario, mostruoso e degenerato. Gli dava un vero piacere osservare i lineamenti privi di espressione del commando della morte che tornava esausto di notte alle baracche. Sulla via del ritorno ognuno di noi riceveva un colpo in testa dal suo frustino. Se qualcuno cercava di schivarlo Schmidt gli correva dietro[52].

Nel passaggio seguente, Reder dimostra che egli (o Nella Rost?) padroneggia pienamente l’arte della scrittura propagandistica. Se c’è qualcosa che convince, quando le vostre affermazioni non reggono ad una verifica, è la presunta sofferenza dei bambini piccoli:

Le parole sono inadeguate a descrivere il nostro stato d’animo e quello che provavamo quando sentivamo i gemiti terribili di quelle persone e le grida dei bambini uccisi. Tre volte al giorno vedevamo le persone diventare quasi matte. Né eravamo noi lontani dalla pazzia. Come sopravvivevamo da un giorno all’altro non posso dirlo, perché non avevamo illusioni. A poco a poco anche noi stavamo morendo, insieme a quelle migliaia di persone che, per un breve momento, entravano in un’agonia di speranza. Apatici e rassegnati al nostro destino, non sentivamo né fame né freddo. Noi tutti aspettavamo il nostro turno di morire una morte inumana. Solo quando sentivamo le grida strazianti dei bambini piccoli – “Mammina, mammina, ma io sono stato un bravo bambino” e “Buio, buio” – provavamo qualcosa. E poi di nuovo nulla[53].

Le miracolose sopravvivenza e fuga di Reder

Il testimone descrive le condizioni di vita dei prigionieri nel campo e la loro aspettativa di vita in modo dettagliato:

Non meno di trenta o quaranta lavoranti venivano fucilati ogni giorno. Usualmente era un dottore del campo che preparava una lista di quelli che erano troppo deboli per lavorare, ma qualche volta era un kapò con la funzione di Oberzugsführer che presentava i nomi dei cosiddetti criminali. Almeno trenta o quaranta uomini del commando della morte venivano fucilati quotidianamente. Venivano portati alle fosse durante la pausa pranzo e fucilati. Il commando della morte veniva implementato quotidianamente da altri uomini provenienti dai trasporti in arrivo. Uno dei lavori dell’amministrazione del campo era di tenere i registri di tutti i lavoranti del commando della morte, sia passati che presenti, per essere sicuri che la cifra dei 500 era sempre mantenuta. Ma non c’erano registri concernenti il numero dei trasporti o delle vittime. Noi sapevamo, ad esempio, che gli ebrei avevano costruito questo campo e che avevano messo in azione la macchina della morte. Nessuno di quelli che avevano lavorato alle installazioni originali sopravvisse fino al mio arrivo lì. Fu un miracolo se qualcuno sopravvisse più a lungo di cinque o sei mesi al massimo[54].

Con cinquecento membri costanti del “commando della morte”, trenta o quaranta dei quali uccisi al giorno avrebbe significato che ogni membro veniva sostituito in media due volte al mese. All’età di 61 anni, è una meraviglia che Reder sia riuscito a sopravvivere nel campo per quasi quattro mesi. Ma, come molti altri sopravvissuti dell’Olocausto, egli sembra per qualche oscura ragione essere stato “insostituibile” agli occhi dei suoi sadici padroni.

La fuga di Reder dal “campo della morte” è essa stessa una sorta di miracolo:

Ero stato in questo incubo per quasi quattro mesi quando, verso la fine di novembre, Irrmann mi disse che il campo aveva bisogno di lamiere, e molte. Ero gonfio e blu dappertutto. Il pus usciva dalle ferite aperte. Schmidt mi prese a randellate sulla faccia con un manganello. Con un sorriso ironico Irrmann mi disse che sarei dovuto andare a Lemberg sotto scorta per andare a prendere le lamiere, e aggiunse: “Sollst nicht durchgehen” [“Non cercare di fuggire”]. Avviatomi entrai in un camion con una guardia e quattro Gestapo. Dopo aver caricato per tutto il giorno, stavo nel camion guardato da uno dei delinquenti, mentre gli altri erano andati via in cerca di divertimento. Stetti lì per qualche ora senza muovermi o pensare. Poi, per caso, notai che la mia guardia dormiva e russava. Istintivamente e senza pensare, sgusciai via dal camion e stetti sul marciapiede fingendo di sistemare il carico. Poi lentamente indietreggiai. La strada Legionowa era piena di gente. C’era un blackout. Mi calzai il berretto più basso e nessuno mi notò. Ricordavo l’indirizzo della mia governante polacca e andai diretto al suo appartamento. Ella mi nascose. Ci vollero venti mesi per guarire dalle ferite fisiche. Ma che dire delle ferite mentali? Ero ossessionato dalle immagini dell’orrore passato, sentivo i gemiti degli uccisi e le grida dei bambini, e la vibrazione di un motore in azione. Né potevo cancellare dalla memoria le facce di quei criminali tedeschi. E in un tale stato di incubo continuo sopravvissi fino alla liberazione[55].

Così nonostante che fosse “gonfio e blu dappertutto”, con il pus che usciva dalle ferite aperte, avendo subito ferite che impiegarono “venti mesi” a guarire, il sessantunenne Reder venne scelto dai tedeschi per il lavoro del carico di lamiere! Si potrebbe sospettare che un vecchio nelle condizioni di Reder sarebbe stato scelto per la quota dei 30-40 prigionieri lavoranti presuntivamente uccisi ogni giorno, piuttosto che per il lavoro duro, ma la leggenda deve affermare altrimenti. Che le SS abbiano portato un prigioniero ebreo da un campo di sterminio ad una città solo per compiere un lavoro che avrebbe ben potuto essere effettuato, per esempio, da una guardia ucraina, è naturalmente dubbio di per sé. Considerando i dettagli della fuga, può essere sufficiente dire che essi suonano come qualcosa tratto da The Boy’s Own Paper o da un vecchio episodio de Gli eroi di Hogan.

Il ritorno di Reder a Belzec

Ultima nella nostra lettura di Belzec veniamo alla descrizione della presunta visita dell’autore al sito dell’ex campo qualche tempo dopo la fine della guerra, probabilmente nell’estate del 1945:

Quando l’Armata Rossa espulse i tedeschi da Lemberg e potei finalmente uscire dal nascondiglio senza paura, per respirare aria fresca e per iniziare a sentire e a pensare di nuovo, venni preso da un desiderio di tornare in questo luogo dove due milioni e mezzo del nostro popolo avevano incontrato la loro terribile morte. Andai lì presto e parlai a lungo con la gente del posto. Essi mi dissero che nel 1943 erano giunti al campo un numero molto minore di trasporti. Il centro dello sterminio per gli ebrei si era spostato a ovest, alle camere a gas di Auschwitz. Nel 1944 i tedeschi avevano aperto le fosse e bruciato i corpi con la benzina. Un fumo scuro e spesso si alzava dalle enormi pire all’aperto abbracciando un’area di diverse dozzine di miglia quadrate. Il vento portava ancora più in là il puzzo, per molti lunghi giorni, notti e settimane.

E in seguito, mi disse la gente del posto, i tedeschi pestarono le ossa rimanenti in polvere, che il vento portava via per i campi e le foreste. La macchina del pestare le ossa era stata messa insieme da un certo Spilke, un prigioniero proveniente dal campo di Janowska portato a Belzec per questo scopo. Egli mi disse che nel campo non aveva trovato nulla eccetto cumuli di ossa. Tutti gli edifici erano già stati smantellati. (Spilke riuscì a fuggire, e sopravvisse alla guerra. Egli ora vive in Ungheria. Mi disse tutto ciò a Lemberg, dove ci incontrammo dopo la liberazione). Quando la produzione di “fertilizzante artificiale” dalle ossa umane giunse al termine, le fosse all’aperto vennero riempite di terra e il terreno intriso di sangue scrupolosamente livellato. Gli assassini tedeschi coprirono questo cimitero di milioni di ebrei assassinati con nuova vegetazione.

Dissi addio ai miei informatori e procedetti lungo il binario familiare. La linea ferroviaria era stata smantellata. Attraverso un campo raggiunsi una foresta di pini giovane e dal dolce profumo. Nel mezzo di essa c’era una grande radura assolata…[56]

È notevole che Reder affermi che vi furono trasporti a Belzec nel 1943 e che le fosse di sepoltura vennero aperte e i corpi bruciati nel 1944, anche se questo viene attribuito alle dicerie. Come abbiamo visto, il testimone fornisce la “fine di novembre” come la data approssimativa della sua fuga. Secondo l’ex SS-Oberscharführer Heinrich Gley le gasazioni vennero fermate “alla fine del 1942”[57]. Yitzhak Arad parimenti sostiene l’idea che i trasporti vennero fermati nel novembre 1942. Dai registri tedeschi, sappiamo che l’ultimo trasporto ebbe luogo al più tardi alla metà di dicembre del 1942[58].

Procediamo brevemente a discutere “Spilke” (o “Szpilke”). A conoscenza del sottoscritto, non esiste nessuna prova che corrobori l’esistenza di questo individuo. Robin O’Neil nel suo studio in rete su Belzec ripete la storia di Szpilke ma non fornisce nessun’altra fonte oltre al libro di Reder[59]. Arad non lo menziona affatto. Se “Szpilke” fosse realmente sopravvissuto alla guerra, come mai non si fece mai avanti a testimoniare, o non venne mai rintracciato dai magistrati, o in seguito, dagli storici? Sembra anche che nessuno si sia preso la briga di indagare se l’esistenza di un tale prigioniero e un trasferimento nel 1943 potessero essere verificati utilizzando i registri (forse sopravvissuti) del campo di concentramento di Janowska.

Come appariva il sito dell’ex campo di Belzec nel 1945 e nel 1946? Su questa questione, Arad cita la testimonianza di un abitante polacco di Belzec, Edward Luczynski:

Dopo aver livellato e ripulito l’area del campo di sterminio, i tedeschi piantarono dei piccoli pini e se ne andarono. A quel punto, l’intera zona venne fatta a pezzi dalla popolazione vicina, che cercava oro e preziosi. Ecco perché l’intera superficie del campo venne coperta di ossa umane, di capelli, di cenere dai cadaveri cremati, di denti, di pentole e altri oggetti[60].

Lo storico revisionista Carlo Mattogno cita il pubblico ministero di Zamosz che guidò l’inchiesta polacca nel “campo della morte” di Belzec poco dopo la guerra:

Al momento [=11 aprile 1946], il sito del campo è stato completamente dissodato dalla popolazione locale, in cerca di preziosi. Questo ha portato alla superficie cenere dai cadaveri e dalla legna, ossa carbonizzate come pure ossa che erano carbonizzate solo parzialmente[61].

È difficile stabilire se gli effetti degli scavi selvaggi effettuati per cercare tesori nascosti siano visibili su una foto del terreno (o piuttosto su un panorama creato unendo due foto) del sito dell’ex campo che venne scattata dal suo angolo nord-occidentale dopo la liquidazione del campo, probabilmente nel 1945 o nel 1946 (Illustrazione 4). Sembra curioso alla luce dei resoconti testimoniali polacchi summenzionati che Reder, se avesse davvero visitato il sito nel 1945, avrebbe descritto lo scenario osservabile lì come semplicemente “una grande radura assolata”. Inoltre, la foto del terreno mostra che non erano stati lasciati alberi tra la ferrovia e l’area dell’ex campo, così, tecnicamente parlando, non c’era nessuna “radura”, vale a dire, un’area aperta circondata da boschi, da vedere sul sito. La foto chiarisce parimenti che se i tedeschi avessero davvero piantato pini nel sito dell’ex campo, allora questi alberi giovani erano stati tutti sradicati all’epoca in cui venne scattata.

Illustrazione 4: il sito dell’ex campo di Belzec dopo lo smantellamento, visto dall’angolo nord-occidentale del perimetro del campo

Conclusione

Rudolf Reder è il solo ex detenuto di Belzec ad aver lasciato dei resoconti sostanziosi delle sue presunte esperienze in questo campo. Il suo testo Belzec, originariamente pubblicato in polacco nel 1946, dovrebbe ragionevolmente essere il resoconto più importante e attendibile del presunto sterminio degli ebrei al campo, considerando che il testimone trascorse quasi quattro mesi in stretta vicinanza alle presunte camere a gas e alle fosse comuni, e che lo stesso resoconto venne messo per iscritto solo quattro anni dopo gli eventi. Invece troviamo un racconto pieno di elementi palesemente assurdi, come pure numerose affermazioni che ad un esame più attento contraddicono in modo lampante le testimonianze di altri testimoni come pure la storiografia ortodossa e quello che noi in realtà sappiamo sul campo di Belzec. Così Reder ci presenta una Belzec molto più grande del vero sito del campo; trenta fosse comuni, ognuna delle quali grande come quasi tutte le 33 fosse rilevate da Andrzej Kola messe assieme; una grande iscrizione sul davanti dell’edificio di gasazione completamente diversa da quella riferita da Kurt Gerstein; ebrei francesi, greci e norvegesi che non misero mai piede al campo; una descrizione stranamente confusa dell’agente mortale; gasazioni con fumi di scarico che non lasciavano odore; vittime delle dette gasazioni che non mostravano sintomi di avvelenamento da monossido di carbonio; e infine, un’assurda storia della fuga meritevole della penna di uno studente delle elementari.

Alla luce delle anzidette contraddizioni e assurdità non dovrebbe sorprendere che, come riportato da Carlo Mattogno, alcuni studiosi sterminazionisti abbiano deciso di buttare a mare la testimonianza di Reder (come pure quella di Gerstein), o almeno di astenersi dal citarla, in favore di testimoni minori, dei quali la maggioranza testimoniarono sulla “camera a gas” di Belzec negli anni ’60 o addirittura dopo[62]. Il problema con questo comportamento è naturalmente, che i testimoni successivi, o in alternativa i loro avvocati o interroganti, possono aver avuto accesso agli scritti di Reder e di Gerstein e avervi basato almeno in parte i loro “ricordi”. Le prime testimonianze, dettagliate e assurde, possono perciò aver dato direttamente origine ai vaghi e più misurati resoconti successivi attraverso un processo di selezione e coordinamento. Che i primi e più dettagliati resoconti delle presunte camere a gas di Belzec siano pieni di assurdità e di contraddizioni dovrebbe in ogni caso dare origine al sospetto riguardo alle origini della storiografia su Belzec ufficialmente sanzionata.

Traducendo e presentando Belzec M. M. Rubel ha fatto a noi tutti un favore. Che esso sia stato pubblicato su una rivista erudita piuttosto oscura con pochi lettori all’infuori dell’accademia non dovrebbe essergliene fatta una colpa. È tuttavia significativo che al pubblico vengano propinati innumerevoli resoconti di testimoni minori dei “campi della morte”, testimoni che al massimo descrivono qualche camino fiammeggiante, fumo scuro e il dr. Mengele. Le vere parole dei testimoni più cruciali dell’”Olocausto”, come Reder, Gerstein, Wiernik, Tauber e altri sono a quanto pare, per qualche ragione inspiegabile, non adatte alle menti del pubblico generale. Non sarebbe il culmine dell’istruzione sull’”Olocausto” se le parole di Reder e di Gerstein venissero stampate e distribuite a tutti i bambini delle scuole e agli studenti dei college nel mondo occidentale?

 

Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo:  https://codoh.com/library/document/651/?lang=en

         

 

 

 

 

 

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

[1] Secondo Henryk Pajak, Konspiracja mlodziezy szkolnej 1945-1955 (Lublin: Retro, 1994), pp. 130-131, Hirszman fu ucciso perché era un “funzionario attivo e pericoloso dell’UB [la polizia segreta polacca] provinciale a Lublino”; cf. Tadeusz Piotrowski, Poland’s Holocaust: Ethnic Strife, Collaboration with Occupying Forces and Genocide in the Second Republic, 1918-1947, p. 341.

[2] Cf. Henri Roques, The “Confessions” of Kurt Gerstein, Institute for Historical Review, Costa Mesa 1989; Carlo Mattogno, Belzec in Propaganda, Testimonies, Archeological Research, and History, Theses & Dissertations Press, Chicago 2004, pp. 52-62; come pure Thomas Kues, “Some Remarks on the Gerstein Reports”, online http://www.codoh.com/newrevoices/nrtkgerstein.html.

[3] La vita di Reder è avvolta nell’oscurità. È indicativo che nemmeno una sola fotografia di quest’uomo sembri essere disponibile. Ulteriori ricerche sulla vita di Reder potrebbero in realtà dimostrarsi feconde. Lasciò dietro di sé, ad esempio, degli ulteriori scritti o dichiarazioni riguardanti Belzec? Ebbe dei rapporti con i movimenti clandestini polacchi o con i servizi segreti sovietici?

[4] Rudolf Reder, “Belzec”, with an introduction by M.M. Rubel, Polin: Studies in Polish Jewry, volume 13, 2000, p. 270.

[5] Ivi, p. 272.

[6] “Mapa Taktyczna Polski 1:100 000”, Wojskowy Instytut Geograficzny 1937. In rete: https://web.archive.org/web/20150523003054/http://www.mapywig.org/m/wig100k/P47_S37_TOMASZOW_LUBELSKI.jpg

[7] Yitzhak Arad, Belzec, Sobibor, Treblinka. The Operation Reinhard Death Camps, University of Indiana Press, Bloomington 1987, p. 27.

[8] Polin, p. 285.

[9] Ivi, p. 282.

[10] Ivi, p. 273.

[11] Ivi, p .276.

[12] Arad, p. 112.

[13] Polin, p. 274.

[14] Deve essere notato che anche il testimone di Treblinka Jankiel Wiernik descrive una mimetizzazione con il fogliame per l’edificio di gasazione a Treblinka. Poiché il libro di Wiernik Un anno a Treblinka venne pubblicato originariamente in polacco nel 1944, è pienamente plausibile che Reder abbia plagiato Wiernik su questo punto. In effetti sarebbe molto interessante sapere se l’aviazione sovietica effettuò nel 1942 e nel 1943 voli di ricognizione sull’area della Polonia orientale che conteneva i campi Reinhardt. È possibile che le foto aeree sovietiche dei campi operativi esistano ma non siano state ancora scoperte (o diffuse)?

[15] Polin, p. 287.

[16] Ivi, p. 273.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 274.

[19] Ivi, p. 274.

[20] Cf. Roques, p. 22, 31, 40, 60, 76.

[21] Polin, pp. 274-5.

[22] Cf. Roques, p. 23, 31, 42, 62, 79.

[23] Polin, pp. 276-7.

[24] Ivi, p. 281.

[25] Rudolf Reder, Belzec, Ksiazki Wojewodzkiej Zydowskiej Komisji Historycznej w Krakowie, Krakow 1946, p. 41.

[26] Roques, p. 19, 73.

[27] Ivi, p. 123.

[28] Ivi, p. 110.

[29] Ivi, p. 157.

[30] Carlo Mattogno, The Bunkers of Auschwitz. Black Propaganda versus History, Theses & Dissertations Press, Chicago 2004, p. 136.

[31] Polin, p. 284.

[32] Ivi, p. 276.

[33] Arad, p. 73, 383-389.

[34] Ivi, p. 127.

[35] Polin, p. 277.

[36] Arad, p. 187.

[37] Ivi, pp. 147-148.

[38] Polin, p. 275.

[39] Roques, p. 23, 31, 42, 62, 79.

[40] Polin, p. 277.

[41] Roques, p. 23, 31, 42, 62, 79.

[42] Nota del traduttore: un pollice equivale a cm. 2.54.

[43] AGK, OKBZN Kraków, 111, pp. 4-4a; citato in Mattogno, Belzec, pp. 37-38.

[44] Berg ha postato un certo numero di immagini di vittime di avvelenamento da CO all’indirizzo: http://www.nazigassings.com/TheEyewitnessesLied.html.

[45] Il lettore scettico potrebbe sospettare che Reder, o forse più probabilmente Nella Rost, abbia rivisto le precedenti dichiarazioni per armonizzare il resoconto pubblicato con quelli che all’epoca erano i resoconti ufficiali più o meno ultimati (o stabilizzati) sui campi Reinhardt, che sostenevano che le gasazioni con i fumi di scarico dei motori erano state il metodo di uccisione.

[46] Polin, p. 276.

[47] Ivi, p. 280.

[48] Come riassunto in Mattogno, Belzec, p. 74.

[49] Cf. ivi, p. 73.

[50] Polin, p. 281.

[51] Ivi, p. 284.

[52] Ivi, pp. 286-287.

[53] Ivi, p. 287.

[54] Ivi, pp. 280-281.

[55] Ivi, pp. 287-288.

[56] Ivi, pp. 288-289.

[57] ZStL, 208 AR-Z 252/59, vol. 9, pp. 1697-8 (Testimonianza di Heinrich Gley).

[58] Il cosiddetto telegramma Höfle fornisce il numero degli ebrei deportati nei rispettivi campi Reinhardt fino al 31 dicembre 1942, come pure il numero degli ebrei deportati nei predetti campi durante la seconda metà di dicembre. Per Belzec, il secondo numero è dato come “0”; cf. Mattogno, Belzec, p. 127.

[59] https://www.jewishgen.org/yizkor/belzec1/bel100.html

[60] Arad, p. 371.

[61] Mattogno, Belzec, p. 89.

[62] Mattogno, Belzec, pp.41-42, 51-52, 93.

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