La manovra di Abelzi: la rivoluzionaria teoria neurologica dell’infarto miocardico

La manovra di Abelzi: la rivoluzionaria teoria neurologica dell’infarto miocardico

Il dr. Ugo Abelzi

 

La rivoluzionaria teoria neurologica
dell’infarto miocardico
che permette di averne facilmente
ragione.
La manovra di Abelzi

 

Come
fermare un infarto da soli, senza aiuto di alcuno, senza medicinali, ovunque si
è

 

L’infarto miocardico non è una malattia
metabolica oscura e minacciosa, bensì un semplice incidente neurologico dovuto
all’attivazione a sproposito del meccanismo salvavita che impedisce in buona
parte dei casi a un individuo ferito di morire dissanguato.

 

Tale meccanismo di soccorso del corpo,
il processo che riduce o blocca un’emorragia in caso di ferita, si innesca
automaticamente ogni qualvolta il cervello riceve un doppio segnale di forte
dolore dalla zona ferita e di crollo della pressione sanguigna. Qualsiasi
cacciatore sa che la volpe che mette una zampa in una tagliola è capace di
troncarsela a morsi per poi fuggire su tre zampe. Se non fosse in grado di
chiudere l’afflusso di sangue alla zampa bloccata morirebbe certamente
dissanguata. L’infarto miocardico è causato dall’attivazione di questo
meccanismo nel caso che il doppio segnale di forte dolore e crollo della
pressione sistemica risulti all’organismo in partenza dalla zona cardiaca. È
già grave che l’organismo interrompa l’afflusso di sangue perché, se questo
stato viene protratto a lungo il soggetto interessato muore.

 

La situazione è ancora più tragicamente
beffarda se il doppio segnale (dolore e crollo della pressione) non parte in
presenza di una grave ferita. Ciò può accadere per qualsiasi forte
sollecitazione o incidente lungo il percorso tra la periferia del corpo e il
cervello. Pensate a una linea telefonica che colleghi due apparecchi: se uno di
essi squilla il corrispondente è autorizzato a pensare che la chiamata gli
arrivi dall’altro capo della linea. Questo avviene quasi sempre, ma vi può
essere il caso in cui la chiamata provenga da un operaio che la invia dalla
cima di un palo lungo la linea.

 

Così avviene nel caso dell’infarto. Il
segnale di dolore e di agitazione, determinante per il crollo della pressione,
può essere dovuto allo schiacciamento del o dei nervi che partono dalla zona
cardiaca e vanno al cervello. In un altro caso, anche se la zona è indenne, il
cervello interpreta il segnale come se essa fosse gravemente ferita e reagisce
nell’unico modo che conosce, togliendo cioè sangue alla zona cardiaca. I punti
nei quali ciò avviene sono i forami intevertebrali a sinistra della colonna
all’altezza delle prime vertebre dorsali. I nervi interessati si infiammano per
un pinzamento anche momentaneo e, esattamente come in una sciatica, attivano i
processi di infiammazione con dolore, gonfiore, calore, rossore e difficoltà
della funzione.

 

Attualmente l’infarto talvolta guarisce
malgrado le cure e non grazie a esse. È invece semplicissimo iperdistanziare i
corpi delle prime vertebre dorsali con la «manovra di Abelzi» che curva il capo
in avanti come avviene nel «bloccaggio Elson» della lotta. Per fermare un
infarto è sufficiente.

 

Un attacco di sciatica nella vita può
capitare a chiunque – e così è per l’attacco di cuore -, ma una volta
sdrammatizzato l’infarto possiamo considerare l’ipotesi che l’ischemia sia un
caso unico. Di solito essa non si presenta più. Non vi è bisogno di particolari
accorgimenti per impedire un ripetersi di attacchi, a parte, come si può
immaginare, semplici manipolazioni vertebrali per mantenere in buona forma la
colonna. Potrebbe anche capitare un secondo attacco, che tuttavia non ci
spaventerà per due ragioni: primo, stavolta i segni premonitori li conosciamo;
secondo, con la manovra di Abelzi superarlo è facile. In caso di recidive, la
migliore soluzione, definitiva e sicura, è un intervento chirurgico per
togliere eventuali ernie discali e magari sostituirle con protesi adeguate.

 

Il meccanismo salvavita che può
provocare l’infarto venne chiamato da William B. Cannon «fight or fly»
(combatti o fuggi). È grazie a esso se la fiera che combatte e viene ferita può
sopravvivere. Se il meccanismo è semplice, è anche semplice il modo di opporsi
con successo all’infarto. Inoltre la manovra di Abelzi è alla portata di
chiunque.

 

Tutto ciò che si sostiene sulla
malattia infarto è falso. È falsa l’etiologia. È falsa la patogenesi. È
aleatoria la diagnosi. È inutile e sbagliata la terapia.

 

L’infarto come malattia non esiste: è
solo un tentativo dell’organismo di salvarsi da un grave pericolo anch’esso
inesistente. Muoiono tuttavia le cellule di
una parte del cuore per un’assenza prolungata di flusso sanguigno.

 

La teoria etiopatogenetica che spiega
la malattia «infarto» non è minimamente cambiata da quando, nel 1799, Giovanni
Battista Morgagni la formulò. La triade angina-infarto-morte improvvisa è
universalmente riconosciuta da allora come provocata da una riduzione del
flusso nutritivo al muscolo cardiaco a causa di ostruzioni delle arterie
coronarie (ischemia asssoluta) o da uno squilibrio tra disponibilità di flusso
nutritivo e necessità metaboliche (ischemia relativa). In questi duecento anni,
la cardiologia non ha annoverato grandi progressi.

 

Rispetto alle enormi scoperte che la
medicina fa continuamente, essa è rimasta indietro. Non è adeguata ai progressi
del resto della medicina né per quanto riguarda la diagnostica né per quanto
riguarda la terapia. Per curare l’infarto si raccomanda di
fluidificare il sangue, e poco di più. Da ciò che leggerete potrete rendervi
conto che nulla – e sottolineo nulla – di ciò che si fa correntemente può avere
alcun effetto benefico su un infarto.

 

La malattia coronarica – angina,
infarto, morte improvvisa – non dispone in effetti, malgrado quanto si creda, nemmeno
di una terapia preventiva. Tutto ciò che si fa per prevenire l’infarto si basa
solo su superstizioni: si sostiene che per prevenire l’infarto si debba
combattere il colesterolo, il fumo, l’aumento di peso. Ma l’infarto ha origine
altrove.

 

Secongo l’ Organizzazione Mondiale
della Sanità l’infarto miocardico dipenderebbe da una o più delle seguenti
cause: aterosclerosi coronarica, trombosi coronarica, aggregati piastrinici e
malattia dei piccoli vasi intramurali, spasmo coronarico.

 

Ciò è vero? No. Non si tratta infatti
di motivi dell’infarto, ma di modi in cui esso avviene. La causa è un’altra.

 

Giorgio Baroldi, dell’Istituto di
Fisiologia clinica del CNR dell’Università di Pisa, pubblicò nel lontano 1982
un eccellente saggio in cui smontava, una per una, tutte le affezioni
riconosciute universalmente come possibili cause della malattia coronarica.
Riassumiamo di seguito il pensiero di Baroldi:

 

La causa dell’infarto non è
l’aterosclerosi coronarica, che
è una forma di arteriosclerosi caratterizzata da un
ispessimento localizzato delle arterie (ateroma), capace di ridurre o impedire
del tutto il flusso ematico. L’aterosclerosi coronarica viene universalmente
considerata come causa dell’ infarto miocardico. Nelle coronarie si
produrrebbero stenosi, anche non gravi, che rimarrebbero a lungo silenti. La
formazione di altre stenosi, o l’aggravamento delle preesistenti, o il semplice
aumento della richiesta metabolica, produrrebbe un’ischemia sintomatica
ingravescente, fino a che un’ulteriore occlusione darebbe luogo all’ infarto
e/o alla morte improvvisa. Baroldi esaminò
duecentodiciassette casi e riscontrò che il 60% dei soggetti con gravi stenosi
a uno o più rami coronarici non mostrava infarto. Confrontando poi due gruppi,
il primo formato da soggetti sani deceduti per accidente e pazienti
aterosclerotici non cardiopatici deceduti per altra malattia e il secondo
costituito da pazienti morti per infarto cardiaco acuto o morte improvvisa,
arrivò alla conclusione che non esistevano differenze significative in termini
di grado e numero di lesioni tra aterosclerotici non cardiopatici e pazienti
deceduti per cardiopatia ischemica.

 

Inoltre anche i soggetti normali
presentavano con frequenza significativamente alta stenosi gravi. Dall’esame
del grado e del numero delle stenosi in cardiopatici ischemici deceduti al
primo episodio, egli osservò che la malattia poteva insorgere indipendentemente
dal grado e dall’estensione del danno aterosclerotico coronarico.

 

Che cosa significava ciò?

 

Angina o infarto, o morte improvvisa,
possono avvenire sia in presenza di stenosi non gravi, oppure in
presenza di una, due o tre stenosi gravi. Non esiste quindi una soglia oltre la
quale inizi la malattia.

 

In modo simile, l’autore scalzò tutte
le indicazioni date dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma allora…

 

Ma allora – se l’infarto non origina da
alcuna delle cause che abbiamo esaminato – perché avviene?

 

*
* *

 

La cardiologia non ha nemmeno mezzi
diagnostici predittivi. Essa è solamente in grado di riconoscere un infarto se
è avvenuto o se è in atto, ma non può dire a una persona se un infarto le verrà
nel giro di dieci minuti. Infiniti sono gli aneddoti che si raccontano su
pazienti che, usciti dallo studio del cardiologo con un rassicurante
elettrocardiogramma, dopo dieci minuti si sono accasciati a terra per un
infarto.

 

Il problema discende direttamente dal
tipo di esami che si svolgono per scoprire un infarto. Essi sono per loro
natura capaci di scoprire una lesione del tessuto cardiaco già avvenuta. Un
elettrocardiogramma fatto a pazienti con l’angina pectoris sarà del tutto
normale se il muscolo cardiaco non è già leso. Mostrerà un sopraslivellamento o
un sottoslivellamento del cosiddetto «tratto ST» solo se vi è già una lesione.
Ricordate che una lesione può essere presente anche nella semplice angina
pectoris. È qui che la diagnosi differenziale fra la triade – angina, infarto,
morte improvvisa – si avvicina a un vero e proprio imbroglio semantico.
Infatti, tutte le lesioni di tessuto cardiaco inferiori a un pollice (due centrimetri
e mezzo) non devono dirsi ancora «infarto». Così è anche per quanto riguarda
gli altri esami in uso: anche gli enzimi che si ricercano nel sangue, quelli
che derivano dalla distruzione di tessuto muscolare – quello cardiaco – possono
risultare positivi solo quando la distruzione è già avvenuta. Se è una grossa
distruzione, è infarto. Se è minore, è angina. L’argomentazione è piuttosto
rozza, in verità.

 

Ma il problema pratico più grave è,
proprio per quanto appena detto, che nessun esame è predittivo, nemmeno a breve
termine.

 

Occorrerebbe trovare il modo di
identificare la triade all’inizio, quando la malattia è ancora reversibile.
Oggi in quella fase non esiste una diagnosi strumentale differenziale che la
distingua da un’infinità di altri disturbi e malattie. Così moltissime volte i
sintomi vengono attribuiti a indigestione o malattie respiratorie e toraciche.
È solo dopo qualche tempo che ci si accorge dell’esistenza di un infarto. Ma è
ora che questo sistema medievale di lasciare che il paziente subisca un danno
irreversibile al cuore prima di diagnosticargli la malattia venga abbandonato.

 

Non è tutto. Della cardiologia
fa parte anche il più rozzo e anacronistico degli esami strumentali utilizzati
in medicina.

 

Abbiamo detto che un elettrocardiogramma
vale per il passato. Scopre un infarto avvenuto oppure in atto, ma non si
accorge dell’infarto che avverrà nel giro di cinque minuti. Non ha alcun valore
preventivo. Solamente la clinica può scoprire l’infarto che sta per sorgere:
quando il forte dolore di cui parleremo, a livello delle ultime vertebre
cervicali e delle prime vertebre dorsali, è avvertibile dal paziente, vi è
pericolo di angina o di infarto.

 

La cardiologia esistente è empirica e
primitiva. Uno dei più grandi cardiologi del
mondo, Demetrio Sodi Pallares, intervenendo a un congresso, affermò: «Cari
colleghi, ricordate che lo strumento più potente in vostro possesso è quello
che si può trovare fra i due auricolari del vostro fonendoscopio». Se in
cardiologia – come in tutto il resto della medicina – si vorrà ignorare la
clinica, e si cercheranno invece riscontri strumentali, i risultati saranno
imprecisi e praticamente inaffidabili. Ripeto: qualche minuto prima che un
paziente sia colpito da infarto l’elettrocardiogramma può risultare negativo.

 

Anche la prova più complessa, quella
dell’elettrocardiogramma sotto sforzo, è un’assurda barbarie. È come dire: non
siamo sicuri se sei a rischio d’infarto, per cui ti facciamo pedalare o correre
fino a quando non crolli; ma niente paura: se inizia un infarto smettiamo e ti
curiamo. Non è follia? Nel migliore dei casi è una prova inutile. Nel peggiore
dannosa, anzi equivale a un «giudizio di Dio» medievale. Infatti, se dà esito
negativo era inutile; se dà segno positivo è stata dannosa: significa che ha
scatenato il meccanismo della triade e può addirittura provocare un infarto al
povero paziente.

 

Sì, d’accordo, è un infarto che
avviene in ambito ospedaliero, ma dal punto di vista legale gli si provoca
egualmente un danno ingiusto e notevole. Mettere a rischio di infarto
una persona non è una pratica da medicina moderna, soprattutto se si pensa che
non tutti gli infarti oggi si possono fermare, anche con cure ospedaliere
immediate. La più antica regola della medicina recita: «Primum non nocere», per
prima cosa non nuocere. La pratica dell’elettrocardiogramma sotto sforzo,
invece, può nuocere gravemente. Ricorda infatti l’epoca in cui si buttava una
donna sospettata di essere una strega giù da un dirupo e si confidava in Dio.
Se sopravviveva, voleva dire che si trattava veramente di una strega. Se invece
la donna che si buttava giù non era una strega, moriva. Però in grazia di Dio.

 

Ritroviamo lo stesso principio più o
meno nella pratica dell’elettrocardiogramma sotto sforzo: esso si dimostra
utile solo se risulta positivo, ma se è positivo non lo si doveva eseguire.
Sarebbe ora di bandirlo dalle pratiche mediche, ma ciò è quasi impossibile,
perché la medicina, quando non riesce a trovare metodi di indagine e terapie
efficaci, tende ad adagiarsi sull’esistente.

 

* * *

 

Al giorno d’oggi, dovremmo forse
accettare di non saper diagnosticare una malattia e di non avere a disposizione
alcun metodo predittivo per riconoscerne l’imminenza? No. Esiste infatti un
metodo clinico, non strumentale, veloce e preciso, in grado di indicare che un
paziente è in pericolo. Qual è? È il cosiddetto «pincé-roulé» che
spiegherò più oltre.

 

L’infarto miocardico è dovuto ad una
inappropriata, errata attivazione del meccanismo di fight or fly che abbiamo
già nominato, il quale dovrebbe intervenire in caso di gravi ferite, con shock
emorragico, e che a volte si attiva a sproposito, anche in assenza di esse.

 

Shock è un termine inglese che significa urto,
scossa violenta. Vi sono vari tipi di shock. Quello emorragico si ha quando un
individuo è ferito e perde copiosamente sangue. Dal luogo della ferita parte,
verso il cervello, un segnale di dolore, che , se accompagnato anche da un calo
di pressione sanguigna, causa un grande allarme: l’organismo «sa» che sta
perdendo sangue ed attua immediatamente gli interventi del caso. Come prima
cosa blocca l’afflusso di sangue alla zona ferita. Cannon chiamò questo
meccanismo di emergenza fight or fly perché l’ arresto dell’emorragia può
appunto consentire all’individuo, uomo o animale che sia, di «combattere o
fuggire». Questo meccanismo è potente, e può essere provvidenziale. Esso
funziona in tutte le condizioni, anche le più disperate, ma per farlo non può
che essere grossolano e rudimentale. Funziona anche quando vi sono lesioni
importanti al sistema nervoso periferico, addirittura quando i nervi non
esistono più (come nel caso di un arto strappato), ma paga la sua potenza a
caro prezzo: non è in grado di tener conto delle conseguenze. Organi che
rimangano privi di sangue per più di due ore o due ore e mezzo sono condannati:
moriranno. Così, se un meccanismo di emergenza funziona più di qualche ora, non
è diverso da una condanna a morte.

 

L’infarto miocardico è dovuto proprio al
provvedimento di emergenza che l’organismo attua per arrestare una grossa
perdita di sangue – in effetti inesistente – nella regione cardiaca, come
accadrebbe se si fosse feriti al cuore.

 

L’organismo sbaglia, scambiando un segnale di
dolore e di ipotensione per una ferita al cuore. Se l’organismo sbaglia, noi
facciamo di peggio: rispondiamo opponendoci – come se fosse una malattia – a
quello che invece è un disperato automatisno attivato per allontanare la morte,
che invece provocherà una ischemia al muscolo cardiaco, fermabile in pochi
istanti, con due dita, se solo capissimo che cosa sta succedendo.

 

E da questa tragedia dell’incomprensione traggono
origine le difficoltà che si incontrano quando si cerca di curare un
infartuato. È solo per caso, arriverei a dire, che le terapie che mettiamo in
atto possono avere effetto positivo. Infatti, tutto ciò che possiamo tentare
passerà al vaglio dell’organismo del paziente e, attraverso tale crivello,
emergerà solo ciò che secondo l’organismo segnalerà una tendenza alla
normalizzazione del circolo e ad una cessazione della (falsa) emorragia.

 

È difficilisssimo contrastare l’ischemia che il
corpo provoca, perché è un fenomeno con modalità ancestrali non modificabili.
Proprio a causa delle sue caratteristiche di salva-vita, esso si sostituisce a
qualsiasi normale meccanismo di regolazione, anteponendosi ai principi generali
dell’omeostasi che governano la vita. Non è possibile agire sugli effetti di
questo meccanismo. L’unica via per interromperne il funzionamento è quella di
intervenire a monte e interrompere i segnali di allarme. L’organismo reagisce
al dolore e all’ipotensione? Occorre agire su questi segni. Prima sul dolore,
se non è possibile contrastare lì per lì anche l’ipotensione. Appena questi
segni si ridurranno, cesserà lo stato di pericolo e la ragione dell’attivazione
del relativo intervento di emergenza.

 

Non giungono più segnali di grave ferita al cuore?
Bene, cessato pericolo: si può ripristinare il normale afflusso di sangue. Se
l’ischemia, protratta troppo a lungo, non avrà già provocato l’infarto, la
necrosi del cuore. Se il cuore funziona ancora.

 

Il meccanismo di estrema emergenza del
fight or fly, il quale permette all’individuo di arrestare l’afflusso di sangue
alla zona del corpo in cui si è aperta una ferita, è semplice, grosolano ma
efficace in tutte le situazioni che si possono presentare, a seguito, per
esempio, di un incidente o di un combattimento. Perché si attivi è sufficiente,
come abbiamo detto, che dalla zona ferita parta un segnale di forte dolore e
che cali la pressione arteriosa.

 

Dolore = ferita; calo di pressione =
perdita di sangue.

 

Il dolore è in grado di attivare un
riflesso di emergenza nelle condizioni più critiche: viene trasmesso da
neuroni, ma agisce anche quando i nervi sono lesi (come a seguito di un
combattimento) o addirittura troncati, cioè quando la comunicazione con il
sistema nervoso centrale non esiste più.

 

Insomma: tutte le forti emorragie
provocano segnali di forte dolore dalla zona ferita e calo della pressione
sanguigna sistemica.

 

Inversamente, ogni segnale di forte dolore
accompagnato da un brusco calo di pressione viene interpretato dall’organismo
come prodotto da una forte emorragia.

 

Le malattie sopravvengono in tre casi:
1) se qualcosa che dovrebbe essere nel corpo non c’è; 2) se c’è qualcosa che
non vi dovrebbe essere; 3) se vi è un errore dell’organismo il quale crede che
si stia verificando uno dei due casi precedenti.

 

Gli errori nella patogenesi delle
malattie sono frequenti. Errori, per esempio, sono alla base di tutte le
malattie autoimmuni. Un semplice errore è alla base, per esempio, della
sclerosi multipla (ma di questo parleremo un’altra volta, come direbbe Rudyard
Kipling).

 

Un errore di valutazione
dell’organismo è alla base dell’infarto miocardico acuto.

 

L’organismo crede di essere in
grave pericolo, ma non è così.

 

A questo punto, dobbiamo ammettere che
due importanti entità nosologiche hanno segni e sintomi simili. Prendiamo i
sintomi principali dell’angina, anticamera dell’infarto. Se i sintomi dolore,
sudorazione, agitazione, ansia, ipotensione permangono per non più di un quarto
d’ora, qualsiasi medico diagnosticherà un’angina pectoris. Se gli stessi
sintomi durano più a lungo, avremo l’infarto.

 

Ma anche uno shock emorragico presenta
gli stessi sintomi: dolore, sudorazione, agitazione, senso d’ansia,
ipotensione.

 

Ora, angina pectoris e shock
emorragico differiscono in qualche cosa? Sì. L’angina è una malattia, mentre lo
shock emorragico è un meccanismo di emergenza prodotto dall’organismo per
fronteggiare il pericolo di una malattia mortale, l’anemia acuta dovuta a un’emorragia.

 

Un riflesso nervoso è un’azione
involontaria causata dalla stimolazione di una terminazione nervosa periferica
(recettore) di una fibra nervosa (assone) afferente (sensitiva).

 

I riflessi costituiscono la base
dell’attività di tutto il sistema nervoso centrale. Essi si producono a tutti i
livelli dell’encefalo e del midollo spinale.

 

Come il neurone è l’ unità anatomica o
strutturale del sistema nervoso, così l’atto riflesso è l’unità fisiologica o
funzionale attraverso la quale in definitiva si realizza tutta l’ attività
nervosa. La base strutturale dell’atto riflesso è l’«arco riflesso». Questo,
nella sua forma più semplice, è costituito da: recettore, fibra nervosa
afferente, centro del riflesso, sinapsi, fibra nervosa efferente, effettore.

 

Nell’attivazione del meccanismo di
emergenza che porta all’infarto, si può riconoscere il classico arco riflesso,
che parte da recettori locali del dolore, sale attraverso un neurone
afferente (sensitivo) fino a un centro del riflesso ed ha sinapsi con almeno un
altro neurone, poi ridiscende attraverso una via efferente ad un effettore che
spasmizza le arterie che portano sangue alla zona ferita, riducendo il
passaggio di sangue fino, in molti casi, a bloccarlo completamente. Quasi
sempre, oltre ai neuroni afferente ed efferente, viene attivato anche il
sistema nervoso autonomo, a causa dell’entrata nel circolo sanguigno di
adrenalina, ormone del combattimento e dello stesso dolore. Il ramo afferente,
quello del nervo sensitivo schiacciato tra le vertebre, non farà giungere
l’impulso fino al Talamo, ma, nel punto più vicino alla sorgente del dolore che
comunichi con il sistema simpatico, entro il midollo spinale e il bulbo,
formerà con esso l’arco riflesso che spasmizzerà le arterie interessate. Per
questo motivo nell’infarto si troveranno sia punti dolenti alla palpazione
all’emergere delle radici nervose fra la seconda vertebra dorsale e la quinta,
sia altri punti sulle paravertebrali fra la terza vertebra cervicale e la
seconda dorsale. A tale livello si trova il centro del riflesso. Alla
manipolazione tra la seconda e la quinta dorsali sarà bene far precedere una
compressione di tipo shiatsu appunto sulla paravertebrale fra la terza
cervicale e la terza dorsale. In tal modo si interromperà l’arco riflesso più prontamente,
agendo su tutte e tre le sue componenti.

 

Questo meccanismo non è a prova di
errore. La situazione si fa tragica quando esso si attiva per una ferita al
cuore: non fa che ritardare di poco la morte. Ma la situazione è ancora più
beffardamente tragica quando questo meccanismo si attiva per sbaglio, solo
perché un dolore in regione cardiaca si presenta assieme a una improvvisa
ipotensione. Ciò succede infinite volte. Lo stesso forte dolore, o l’angoscia
che ne deriva, può causare un brusco calo di pressione.

 

E che origini può avere il forte
dolore in regione cardiaca?

 

Se il cuore è sano, può tuttavia
capitare che il nervo sensitivo che parte dal cuore segnali dolore se è
compresso in un punto qualsiasi tra la sua origine e il cervello, o tra la sua
origine e il più vicino centro del riflesso. Il punto più vulnerabile si trova
all’emergere della radice nervosa quando passa entro il forame intervertebrale,
prima di arrivare al midollo spinale.

 

Noi nasciamo con la colonna
vertebrale, composta di strutture ossee dure – le vertebre – inframmezzate da dischi
intervertebrali cartilaginei più teneri, con compiti di ammortizzazione e
anti-usura. All’interno dei forami intervertebrali vi è spazio più che
sufficiente per il passaggio dei nervi.

 

C’è però un problema: noi non siamo
stati creati per la stazione eretta. Da quadrupedi siamo diventati bipedi, ma
con una riduzione delle prestazioni del nostro corpo. Il peso del corpo che
grava sul bacino e i traumi continui derivanti dalla stazione eretta, dal
trasporto di pesi mediante gli arti superiori, logora le strutture della
colonna molto più del sostenibile. Queste strutture divengono relativamente
inadeguate e si deteriorano già in età giovanile. A cedere per primi sono i più
teneri dischi intervertebrali e le vertebre si avvicinano tra loro. Il
risultato più dannoso è che si riducono gli spazi che formano i forami
intervertabrali e i nervi che li occupano cominciano ad avere difficoltà in uno
spazio che con il passare degli anni diventa sempre più ridotto. Finché
cominciano i dolori di schiena. Tutti ne soffrono. È il grido di dolore dei
nervi compressi, che prima si infiammano solamente, poi cominciano a dare
problemi funzionali, come il blocco lombare, il famoso «colpo della strega».
Esso compare quando vi è una compressione delle quattro radici del nervo ischiatico.
Anche nel colpo della strega abbiamo l’attivazione di un arco riflesso, con
centro del riflesso a livello della VII-VIII vertebra dorsale.

 

Il problema è molto più grave se i
nervi schiacciati ed infiammati sono all’altezza delle prime vertebre dorsali.
In quel tratto si trovano i nervi che comandano le funzioni del cuore: la
contrattilità, la frequenza e, ahimè, l’apertura e la chiusura delle arterie
coronariche. Tutte le arterie pulsano, aprendosi e chiudendosi al ritmo
cardiaco. E tutte, per azione degli stessi nervi che le fanno pulsare, possono
chiudersi nel meccanismo antishock che blocca le emorragie.

 

Così un cuore sano sembra
all’organismo in grave pericolo. L’organismo chiude l’afflusso di sangue per
una emorragia inesistente e l’individuo muore. Per sbaglio.

 

Ma in che cosa consiste il punto
debole del meccanismo?

 

In qualsiasi individuo la periferia e
il cervello non sono a contatto diretto. Tra loro vi è un sistema di
trasmissione, che sul versante sensitivo in parte è formato dai nervi che dalla
periferia vanno al midollo spinale, poi si uniscono e vanno al cervello. In
ogni punto di tale percorso i nervi possono subire danni, che provocano errori
nei segnali veicolati.

 

Il punto più suscettibile di essere
danneggiato è quello in cui il nervo entra nella colonna vertebrale. La colonna
vertebrale è una struttura dalle possibilità incredibili. Nessun ingegnere
avrebbe potuto risolvere meglio il problema di progettare una struttura rigida
ma tanto flessibile da permettere movimenti complessi, capace di sostenere il
peso degli organi interni di un individuo, di proteggere durante tutta la sua
vita le linee di comunicazione tra periferia e centro dell’organismo. La
soluzione formata da piccoli segmenti ossei inframmezzati da dischi
ammortizzatori più morbidi, che al loro interno presentano un canale che
protegge le linee di comunicazione per gran parte del loro percorso, è una
soluzione superba.

 

Ma ha dei limiti. Il maggiore è dato
dai dischi di cartilagine inframmezzanti le più dure vertebre. Un quadrupede ha
meno problemi di un uomo: il peso del corpo grava sulle zampe, che sono rigide
e robuste. La colonna vertebrale di un animale non subisce gravi usure. Al
massimo, se il corpo dell’animale è lungo – come nel caso dei cani bassotti -,
la colonna si comporta come una catenaria – come i fili dei tralicci dell’alta
tensione, per intenderci – e l’animale tenderà a consumare i dischi
intervertebrali, composti dalla meno resistente cartilagine, nella parte
posteriore, cioè, per un quadrupede, quella superiore.

 

Per gli esseri umani, invece, la
colonna vertebrale è fonte di molti guai. La ragione di ciò sta nel fatto che
la costringiamo a svolgere un lavoro per il quale non è adatta: sostenere il
tronco, la testa e le braccia; con le braccia, poi, facciamo lavori faticosi,
portiamo pesi. La strapazziamo in un’infinità di modi. Risultato? È inevitabile
che essa abbia una vita più breve di quella del resto dell’organismo. Con il
passare degli anni cede. E cede, ovviamente, nella parte più debole: i dischi di
cartilagine, teneri, interposti fra le vertebre più dure, nati come semplici
ammortizzatori.

 

A mano a mano che le vertebre si avvicinano l’una
all’altra, i nervi che ne fuoriescono ad ogni livello hanno meno spazio a
disposizione. Verso i venti-venticinque anni cominciano i primi fastidi dovuti
allo schiacciamento dei nervi nei punti in cui emergono dalla colonna. Il colpo
della strega è una limitazione funzionale dovuta alla compressione, appunto, di
almeno tre nervi nella zona lombo-sacrale, con il risultato di forti dolori
alla schiena e alla gamba. I sintomi sono: forte dolore all’uscita dei nervi
dalla colonna, ma anche nel territorio innervato. Oltre al dolore vi è
agitazione, ansia e riduzione dell’afflusso di sangue (i piedi sono freddi).

 

Ora, immaginate che questa
compressione di nervi tra due vertebre si verifichi più su, in particolare nel
tratto fra la settima cervicale e la quarta dorsale.

 

Il risultato deve essere lo stesso. Al
sistema nervoso centrale (cervello o midollo spinale) giunge un segnale di
dolore, come per una ferita, misto ad ansia, agitazione e con ipotensione.
Risultato? Attivazione del fight or fly: subito, si ferma l’afflsso di sangue
al territorio di quel nervo che trasmette dolore, perché l’organismo appare in
grave pericolo. Ma non è così.

 

E se è il cuore a lanciare il segnale
dolore-ipotensione? Anche i nervi sensitivi in partenza dal cuore non si
sottraggono alla regola generale. Un segnale di forte dolore può giungere al
midollo spinale provenendo dalla zona del cuore. Che cosa può succedere? Nulla
cambia. Se il dolore è accompagnato – mimando lo shock emorragico – da
improvvisa ipotensione, anche qui l’organismo interpreta l’insieme dei due
sintomi come segno di uno shock emorragico in atto: l’individuo sembra ferito
al cuore e sembra che perda molto sangue, tanto da far cadere improvvisamente
la pressione. Provvedimenti? Ce ne è solo uno, il solito: chiusura immediata
dell’afflusso di sangue all’organo che sembra «ferito».

 

Ma se manca a lungo il sangue al
cuore, l’individuo muore sicuramente. Giusto, ma questa considerazione esula
dalle possibilità del meccanismo primitivo che governa l’organismo in quel
momento.

 

A questo punto, l’organismo è in
difficoltà. Se registra i sintomi che abbiamo visto, non può fare altro che la scelta
sbagliata. Il sistema nervoso conosce quei sintomi, ed essi significano
pericolo.

 

Il difetto di base di cui il sistema
nervoso soffre è che esso non è in grado di riconoscere gli errori di
trasmissione. A causa della sua natura, riceve i dati proprio come sono stati
trasmessi dalla periferia. Non è capace di riconoscere gli errori attribuibili
alle modalità di trasmissione. Ma gli errori esistono e sono comuni. Abbiamo
già fatto l’esempio della cattiva interpretazione di una chiamata sulla linea
telefonica. Qualche cosa di simile accade nella vita di tutti i giorni del
nostro corpo.

 

Se si ha la sciatica, il problema non
sta nel punto della gamba che fa male. In quel punto non vi è nulla di malato.
Il problema è più su, dove il nervo sciatico emerge dalla colonna vertebrale,
all’altezza delle ultime vertebre lombari. Eppure il dolore si avverte
indiscutibilmente lungo la gamba. Il guasto si trova lungo il tragitto del
nervo e invece il cervello lo crede originato al termine del tragitto stesso.
Il cervello, cioè, è costruito in modo da considerare sempre se stesso
collegato alla periferia in modo perfetto, al punto che non riconosce
l’esistenza degli errori di trasmissione. Ma, parafrasando gli slogan
pubblicitari di una grande casa automobilistica, se una cosa esiste, prima o
poi si guasterà.

 

E dov’è che la trasmissione di
sensazioni dalla periferia al sistema nervoso centrale può più facilmente
avvenire in modo sbagliato? All’emergere dalla colonna vertebrale, dove il
nervo esce dal midollo spinale e passa attraverso il forame formato dall’incavo
inferiore della vertebra sovrastante e l’incavo superiore della vertebra
sottostante. Normalmente i due mezzi fornici, distanziati fra loro dal disco
cartilagineo intervertebrale, sono sufficienti a permettere al nervo di uscire
indenne dalla struttura della colonna, ma con il procedere dell’età le cose
cambiano. I dischi intervertebrali, di consistenza più tenera, si usurano prima
delle vertebre. Ma quando essi si asssottigliano, gli spazi fra le vertebre si riducono.
E i nervi, che prima avevano lo spazio necessario, possono trovarsi compressi
nel forame divenuto insufficiente.

 

In qualsiasi momento, per le cause più
disparate (un movimento, una sottostante infiammazione del nervo), la
situazione puo` precipitare. Non c’è nemmeno bisogno, in verità, di traumi
diretti sul nervo. La semplice infiammaziove provoca «rubor, dolor, calor,
tumor, laesa functio», cioè rossore, dolore, aumento di temperatura, gonfiore e
alterazione delle funzioni. E il pericolo è proprio nel tumor, nel gonfiore. Il
nervo si gonfia, per infiammazione o per pinzatura tra due vertebre. Può essere
sufficiente un attimo perché si faccia troppo grosso per passare indenne nel
forame divenuto relativamente troppo stretto. Anche se un attimo dopo la
pinzatura cessa, ormai il nervo è diventato più grosso, non passa più indenne e
le pareti ossee del forame continuano a schiacciarlo impedendogli di
disinfiammarsi e di rimpicciolirsi. Bisognerebbe che il forame diventasse più
ampio del normale, per far sì che quel nervo, diventato più grosso del normale,
non ne toccasse più le pareti. Dolore, dolore che il cervello legge soprattutto
come proveniente dal territorio innervato, e solo secondariamente dal punto in
cui il nervo è compresso. È la stessa cosa che si presenta con la sindrome
dell’arto fantasma: la persona a cui è stato amputato un braccio continua ad
accusare dolore a un dito che non possiede più, cioè il nervo tranciato
continua a localizzare e trasmettere sensazioni – evidentemente provenienti da
altri punti del tracciato nervoso – come se provenissero ancora dal territorio
originariamente innervato.

 

È così che un cuore sano sembra
all’organismo in grave pericolo e un individuo muore. Per sbaglio.

 

La prima e più importante conseguenza
del fatto che la cardiologia non conosca la vera etiopatogenesi della malattia
infarto, è che le terapie che si intraprendono di solito in caso di infarto
miocardico acuto sono inadeguate e inefficaci. Se a volte un infarto si risolve
bene, ciò non è dovuto alle terapie, ma alla fortuna. Si può dire che l’infarto
si blocchi non grazie alle terapie correnti, ma malgrado esse.

 

* * *

 

Come abbiamo visto, non esistono
conoscenze etiopatogenetiche, non si sa come né perché avvenga l’infarto, non
si sa riconoscere l’infarto altro che quando ha già distrutto una parte del
cuore. Non lo si sa prevedere. Non lo si sa fermare, perché le terapie sono
quasi tutte inadeguate.

 

Possibile che ci si debba rassegnare
di fronte a questa palude di ignoranza? No. Se siete arrivati fin qui nella
lettura, avete già imparato molte cose sull’infarto: che cosa è veramente e
come si sviluppa. Avrete anche capito che non si deve averne paura: basta
conoscerlo.

 

Adesso vi dirò ancora alcune cose
semplici, le più importanti.

 

Abbiamo visto che la triade si innesca
per compressioni delle radici nervose all’uscita fra le vertebre C7-D3-D4,
sulla linea paravertebrale a sinistra. Bene: se vi è compressione dei nervi vi
deve essere infiammazione. Se vi è infiammazione, quei nervi – e la cute
sovrastante – devono presentare i segni classici di tutte le infiammazioni:
rossore, gonfiore, dolore, aumento di temperatura e danno alla funzione. Di
questi segni, il più facile da valutare è il dolore. Se toccate la cute del
dorso del paziente sulla linea paravertebrale, subito a sinistra della colonna,
nel tratto compreso fra quelle vertebre, potrete apprezzare la dolorabilità.
Prendete la cute fra le dita e arrotolatela nel «pincé-roulé», come fareste per
preparare una sigaretta. Tale manovra sarà dolorosa per il paziente. In più
potrete apprezzare il gonfiore del tessuto, l’edema del muscolo soprastante il
nervo infiammato. Se dolore ed edema sono forti, il meccanismo della triade è
in corso. A questo stadio un ecocardiogramma può essere ancora silente o rivelare
già un sopra o sottoslivellamento del tratto ST, ma non è il caso di attendere
riscontri strumentali più precisi: intervenite subito con la manovra di Abelzi.

 

Con la manovra si provoca una lieve
diastasi, cioè si distanziano lievemente tra loro, più del normale, tutte le
vertebre cervicali e le prime dorsali. La manovra è senza pericolo e ha lo
scopo di lasciare il tempo ai nervi infiammati e gonfi di disinfiammarsi e
rimpicciolire. Ciò avviene in meno di un minuto. Poi si può lasciare la presa,
con la sicurezza che il nervo così rimpicciolito non toccherà più le pareti del
forame intervertebrale.

 

Eseguite questa manovra per pochi
minuti, poi ricontrollate la cute sulle paravertebrali. Gli effetti si vedranno
immediatamente. Se i nervi vengono decompressi, basta mezzo minuto perché si
sgonfino e si disinfiammino. A quel punto, anche se le vertebre non rimangono
più lievemente sovradistanziate – come avviene durante la manovra -, non
impegneranno egualmente più i nervi perché nel frattempo questi, sgonfiatisi,
passeranno indenni atttraverso i forami che prima li comprimevano. Il dolore,
segno dell’infiammazione, cesserà immediatamente.

 

Riprovate il pincé-roulé: un lieve
indolenzimento residuo non ha importanza; se invece la cute si rivela ancora
dolorabile, continuate la manovra di Abelzi fino a quando il paziente non
accusa più dolore.

 

Ovviamente un controllo cardiologico
sarà necessario, ma aspettatevi risultati sbalorditivi: ci sarà esito negativo,
se siete intervenuti tempestivamente, quando la triade era ancora angina
iniziale; se invece l’intervento è stato più tardivo, si troveranno segni
d’infarto, la gravità dei quali dipenderà dal ritardo dell’intervento. In
quest’ultimo caso, vi sarà anche chi metterà in dubbio che vi sia stato un vero
rischio d’infarto. Molti probabilmente non si ricrederebbero nemmeno se il
numero degli infarti miocardici crollasse drasticamente in tutto il mondo.

 

In ogni caso, si deve evitare di
lasciare il paziente immobile a letto e si deve intraprendere una terapia
manipolativa alla colonna vertebrale affinché non si ripresentino più le
compressioni delle radici dei nervi.

 

Se provate i classici sintomi
dell’infarto, ossia dolore retrosternale, dolore alla spalla e al braccio
sinistri e dolore fra le scapole, non perdete tempo. Non sottovalutate questi
sintomi. Meglio agire per un falso allarme, che non agire e scoprire che era un
allarme vero. In ogni caso, sappiate che il pincé-roulé non sbaglia. Se è
positivo, si è attivata la triade. E se, d’altro canto, è attiva la triade – se
cioè la triade è in corso, si avrà dolorabilità sulla cute tra C6 e D4 a
sinistra, sempre.

 

Ormai sapete che cosa sta accadendo e
che cosa occorre fare. Dei nervi, all’emergenza dalla colonna vertebrale,
subito sotto il vostro collo, sono rimasti intrappolati fra le vertebre che li
comprimono. Con la compressione i nervi si sono gonfiati. Per riportare le cose
alla normalità non basta più ripristinare i normali rapporti anatomici, ma
occorre distanziare fra loro quelle vertebre un po’ più del normale, fino al
punto che non comprimano, che non tocchino più i nervi che ormai da tempo sono
più gonfi del dovuto. Sarà sufficiente tenere le vertebre così distanziate per
qualche minuto: i nervi si disinfiammeranno, si sgonfieranno e ricominceranno a
funzionare correttamente. Se potete valervi dell’opera di un fisioterapista che
intervenga nel giro di poche ore, allertatelo. Altrimenti, chiamate il medico
e, nel frattempo, agite così: procuratevi un oggetto tondeggiante non cedevole,
come una palla da tennis o una bottiglia o un sasso; sdraiatevi a pancia in
alto su una superficie dura (non il letto), sul pavimento, sul marciapiedi,
ovunque voi siate, e ponetevi l’oggetto in mezzo alle scapole, subito a
sinistra della colonna vertebrale, quattro dita sotto la vertebra prominente
che indica l’inizio del tratto dorsale della colonna, proprio contro il punto
che vi fa male. Rimanete in tale posizione fino a quando il dolore cessa
completamente (ci vorranno almeno dieci minuti). Se non potete farlo, non
preoccupatevi: vi e`ancora un mezzo potente, sempre a vostra disposizione, che
è in grado di salvarvi: è la manovra di Abelzi.

 

Imparatela oggi… Vi può salvare.
Essa si può eseguire stando in piedi o da seduti.

 

Intrecciate le mani sulla nuca.
Piegate la testa verso il basso. State tranquilli, non potete farvi male in
nessun caso, con qualsiasi forza pieghiate la testa. Rimanete così fino a
quando non siano spariti tutti i dolori, e ancora per qualche minuto.

 

La manovra puà essere eseguita anche
da un soccorritore, che, in piedi, seduto o inginocchiato dietro al paziente –
anch’egli seduto per terra -, gli passa le braccia sotto le ascelle e intreccia
le proprie dita sulla sua nuca, mimando la presa che nella lotta libera si
chiama «Elson».

 

Tutto qui. Subito dopo, sottoponetevi
ai controlli di routine, che però indicheranno, nella peggiore delle ipotesi,
un infarto pregresso e ormai risolto. Se la manovra è stata tempestiva, non
sarà addirittura segnalato alcun danno.

 

Se un residuo di dolori dovesse
ripresentarsi, ripetete la manovra senza minimamente preoccuparvi. D’altra
parte, anche nel caso in cui abbiate avuto una sciatica può essere necessario
ripetere la manovra per avere i risultati migliori.

 

Il dr. Abelzi mentre visita un paziente
Ugo Abelzi

Medico Chirurgo
Specialista in Neurofisiopatologia
Tel. +39 3494504509
e-mail: [email protected]

Le foto sono tratte dal sito http://casettadelbosco.wordpress.com
One Comment
    • Anonimo
    • 5 Novembre 2012

    Sono stupito, ma devo dire che non ho trovato nulla di non plausibile.
    Una cosa che mi è parsa ben pensata è il ricorso frequente a spiegazioni evoluzionistiche e paleoantropologiche che ho trovato coerenti con la teoria.
    Mi lascia perplesso la grande semplicità della soluzione.
    Ci sono risposte dalla comunità scientifica?
    Lucio.

    Rispondi

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Recent Posts
Sponsor