Un’intervista con Richard Falk

SOSTENERE I DIRITTI UMANI GLOBALI: INTERVISTA CON RICHARD FALK

Di Victor Kattan, The Electronic Intifada, 24 Dicembre 2008[1]

Qualche giorno fa, le autorità israeliane hanno espulso il professor Richard Falk, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati, che era entrato nel paese per indagare sulle violazioni dei diritti umani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, occupate da Israele. Il collaboratore di Electronic Intifada Victor Kattan ha intervistato Falk sui motivi che stanno dietro la sua espulsione, sul paragone che egli ha fatto tra il trattamento dei palestinesi da parte di Israele e i crimini nazisti compiuti durante la seconda guerra mondiale, sul suo duplice ruolo di accademico e di sostenitore dei diritti umani, e su come i difensori di Israele stornano l’attenzione da quello che sta succedendo nei territori, attaccando i critici della politica israeliana.

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton e membro del Foro di New York. Attualmente è professore ospite di Studi Internazionali all’Università Santa Barbara in California. Dal Marzo del 2008 è Relatore Speciale per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati alle Nazioni Unite. Falk è autore di oltre 20 libri di diritto internazionale e ha fatto parte della commissione d’inchiesta MacBride sulle atrocità commesse a Beirut nel 1982 nei campi profughi di Sabra e Shatila, come pure della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani commesse in seguito alla seconda intifada palestinese del Settembre del 2001. Il suo ultimo libro, Achieving Human Rights [Ottenere i diritti umani] è stato pubblicato da Routledge nell’Ottobre del 2008.

Victor Kattan: Lei è stato recentemente espulso dal governo israeliano quando è atterrato all’aeroporto Ben Gurion nella sua veste di Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, anche se ai due assistenti che viaggiavano con lei era stato concesso il visto per entrare nel paese, e nonostante il fatto che il ministero degli esteri israeliano avesse ricevuto in anticipo una copia del suo itinerario di viaggio, che includeva un incontro con il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Per quale motivo, secondo lei, è stato recluso per 20 ore e poi espulso?

Richard Falk: Naturalmente posso solo indovinare le motivazioni israeliane. La rappresentante del Ministero dell’Interno all’aeroporto ha insistito che stava semplicemente eseguendo un’ordine del ministero degli esteri di impedirmi l’ingresso. Ma questo non spiega perché non sono stati fatti sforzi per informare di ciò in anticipo l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani. A mio parere, Israele voleva darmi una lezione per le mie precedenti critiche, e soprattutto, mandare alle Nazioni Unite il messaggio che Israele non ha intenzione di collaborare con un loro rappresentante che sia sgradito al governo. Naturalmente, il vero significato della mia esperienza riguarda il presunto diritto di uno stato membro a stabilire chi può rappresentare le Nazioni Unite nel valutare i comportamenti contestati. Se Israele avrà successo, questo costituirà un malaugurato precedente, e per questa ragione resisterò alla tentazione di dimettermi e lavorerò duro per essere un efficace Relatore Speciale, nonostante l’incresciosa impossibilità di visitare i territori palestinesi sotto occupazione.

VK: Nel Giugno del 2007, lei ha scritto un articolo intitolato “Dondolando verso un Olocausto Palestinese”. Nell’articolo, ha posto la domanda seguente: “E’ un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi con il vituperato record nazista di atrocità collettiva?”. Lei ha risposto affermando: “Non penso. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo così vivido l’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre un’intera comunità umana a delle condizioni di crudeltà estrema, potenzialmente mortali. Il suggerimento che questo schema di comportamento è un olocausto in via di formazione rappresenta un appello disperato ai governi della comunità internazionale e all’opinione pubblica affinchè si agisca con urgenza per impedire che le tendenze genocide attualmente in corso si risolvano in una tragedia collettiva. Se l’etica di una “responsabilità di proteggere”, recentemente adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come base dell’”Intervento umanitario” dovesse mai venire applicata, allora è questo il momento di agire, per iniziare a proteggere il popolo di Gaza da ulteriori pene e sofferenze”.

Si rammarica di avere scritto queste parole? Se no, perché no?

RF: Questa per me è una domanda complicata. Ho scritto queste parole prima di essere nominato Relatore Speciale, come un cittadino impegnato che era profondamente preoccupato dal fatto che la situazione disperata del milione e mezzo di palestinesi di Gaza è ignorata dalle elite internazionali. Sentivo all’epoca che si trattava di una catastrofe umanitaria tuttora in corso, e che poteva trasformarsi in qualunque momento in una tragedia di proporzioni massime, a causa della fame e delle malattie. Retrospettivamente, penso adesso che sia stato innopportuno associare esplicitamente queste preoccupazioni, che rimangono forti come prima, all’esperienza storica degli ebrei nell’Olocausto. Di fatto, [tale associazione] è finita in mano agli apologeti delle tattiche israeliane di occupazione per spostare il dibattito dal dramma palestinese alle implicazioni incendiarie del collegamento con gli eventi dell’era nazista. Questo rientra nello schema più ampio, da parte di Israele, di spostare il dibattito dalla realtà dell’occupazione alla presunta colpa di quelli che parlano di tale realtà. Io insisto che la misurazione della colpa si dovrebbe basare sulla verità o la falsità di quello che viene riferito, e questo è il dibattito che auspico. In via di principio, mi rammarico anche che il mio collegamento tra la situazione di Gaza e le memorie naziste sia stata dannoso per molte persone, e abbia facilitato una diversione dal mio obbiettivo di richiamare l’attenzione sulla situazione di Gaza. Ho cercato di evitare di usare questo tipo di retorica nelle mie osservazioni successive sulla realtà palestinese, ma sottolinerei che la condizione di fondo di massiccia punizione collettiva dell’intera popolazione civile palestinese è una realtà ancora in corso, ed è nello stesso tempo immorale e illegale.

VK: Alcuni esperti di diritto internazionale considerano l’erudizione accademica e il sostegno ai diritti umani reciprocamente incompatibili: dicono che non si può essere seri studiosi e nello stesso tempo degli attivisti. Lei ritiene, come eminente esperto americano di diritto internazionale, con un lungo e rinomato curriculum accademico, e di militanza per i diritti umani per quasi mezzo secolo – che include, tra le altre cose, l’opposizione alla guerra in Vietnam, all’apartheid in Sudafrica, all’industria delle armi nucleari, all’invasione da parte di Israele del Libano e alla sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza, come pure all’intervento della Nato in Kosovo, e all’invasione dell’Iraq del 2003 – che gli esperti di diritto internazionale dovrebbero parlare più spesso? E’ possibile essere un serio studioso di diritto internazionale e un attivista dei diritti umani?

RF: Questa è una domanda importante, che ho ponderato nel corso della mia carriera. Come ho detto in precedenza, la vera misura sia dell’erudizione che dell’impegno civile è la veridicità e l’esattezza, ed io ho sempre cercato di essere obbiettivo in questo senso basilare. Credo che tutti abbiamo identità multiple e che sia perfettamente coerente essere uno studioso che scrive e parla per un pubblico accademico e un cittadino impegnato che agisce allo stesso modo per il pubblico normale. In un certo senso, si tratta di tradurre una forma di comunicazione nell’altra. Credo che sia un contributo importante alla vitalità della società democratica avere il beneficio delle opinioni di un accademico specialista. Nello stesso tempo credo che in una classe sia essenziale, per il professore, essere ricettivo verso i punti di vista che lo contraddicono, e io ho sempre cercato di comportarmi così. Ho scherzosamente sottolineato che tra i miei studenti di Princeton vi sono stati Richard Perle e David Petraeus, il che prova che non indottrino i miei studenti, ma fortunatamente neppure loro riescono a convertirmi ai loro punti di vista. Quello che conta, alla fine, è la convinzione dell’importanza della discussione informata sulle questioni politiche importanti del giorno, sia che riguardi gli studenti, che gli studiosi, che i cittadini.

VK: John Dugard, il suo predecessore come Relatore Speciale delle Nazioni Unite, ha paragonato la situazione nei Territori Palestinesi Occupati con l’apartheid. Lei ha fatto parte della squadra di giuristi per i casi dell’Africa del Sud-Ovest (Namibia), a nome dell’Etiopia, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, negli anni ’60. Sebbene tale corte, in una controversa decisione, decise che l’Etiopia e la Liberia non avevano “nessun diritto o interesse legale di loro pertinenza “ concernente l’illegalità dell’occupazione della Namibia da parte del Sudafrica, lei non vede nessuna somiglianza tra la politica di Pretoria del Grande Apartheid nell’Africa meridionale e quello che sta succedendo oggi nei territori palestinesi? In caso affermativo, quali lezioni possono trarre i palestinesi dal movimento anti-apartheid nel mettere in luce le ingiustizie dell’occupazione da parte di Israele – che dura da quattro decenni – di Gerusalemme Est, della Cisgiordania e di Gaza? C’è un ruolo per il diritto internazionale?

RF: Sì, il mio background comprende una serie decisamente profonda di incontri con la realtà dell’apartheid in Sudafrica. Non molto tempo dopo il mio incarico nel caso davanti alla Corte Internazionale andai in Sudafrica, nel 1968, come osservatore ufficiale a nome della Commissione Internazionale di Giuristi per un importante processo politico tenuto a Pretoria. Mentre stavo in quel paese ebbi per diverse settimane l’opportunità di visitare (illegalmente) le misere città africane, per combinazione in compagnia di John Dugard. Questo mi aiutò ad apprezzare alcuni aspetti delle condizioni politiche estreme che sono importanti per capire la lotta palestinese. All’epoca venni colpito dalla sincera incapacità, da parte dei sudafricani bianchi “civili”, di capire la miseria e l’umiliazione del sistema dell’apartheid, sebbene facesse parte delle loro immediate vicinanze. La politica della negazione faceva sì che un outsider come me poteva “vedere” questa realtà più chiaramente di molti “insider”. Questo mi ricorda una frase di un pacifista israeliano: “La Cisgiordania è più lontana da Israele della Tailandia”. Per la mia esperienza, Gaza è addirittura più lontana. Ho esitato a trarre un’analogia tra il Sudafrica dell’apartheid e l’occupazione israeliana dei territori palestinesi: non volevo una seconda controversia a causa del mio linguaggio provocatorio. Allo stesso tempo vi sono alcuni aspetti istruttivi della vittoriosa lotta sudafricana che potrebbero essere importanti per i palestinesi.

Prima di tutto, un campo cruciale della battaglia è quello di stabilire la natura illegale, e persino criminale, dell’ordine dominante, e di iniziare perciò una battaglia per far leva sui cuori e sulle menti dei popoli del mondo. Gli Stati Uniti e l’Europa sono teatri particolarmente importanti per questa battaglia. La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) all’Aja può essere d’aiuto nello stabilire la legittimità delle richieste di cambiamento. E’ utile ricordare che in quattro occasioni, l’ICJ è stata chiamata a pronunciarsi sull’apartheid del Sudafrica, e sebbene questi verdetti giudiziari non abbiano ottenuto risultati immediati, hanno contribuito a screditare il regime dell’apartheid. In secondo luogo, il luogo della battaglia è sia esterno che interno, e la possibilità di diventare padroni della situazione rispetto alla legittimità delle richieste si deciderà probabilmente fuori della Cisgiordania e di Gaza, e i campi di battaglia più importanti saranno Israele e gli Stati Uniti. In terzo luogo, non bisogna giudicare le prospettive di successo della parte oppressa dall’attuale equilibrio apparente delle forze. Una forza oppressiva apparirà probabilmente onnipotente fino a quando non sarà sull’orlo del crollo. E’ importante continuare la battaglia, nonostante le frustrazioni e le delusioni, basandoci sulla fede ultima nel trionfo della giustizia.

VK: Molti esperti di diritto internazionale hanno paura di criticare apertamente il governo israeliano per le sue violazioni dei diritti umani perché ritengono di poter essere colpiti nelle loro future prospettive di lavoro, per paura di essere definiti antisemiti o ebrei “che odiano sé stessi”. Come ebreo americano, cosa le ha dato la forza di esprimere le sue convinzioni per così tanti anni nonostante gli attacchi alla sua persona? Ha dei rimpianti? E se potesse tornare indietro, farebbe tutto di nuovo? Che consiglio darebbe ad altre persone sottoposte ad attacchi simili?

RF: Un aspetto increscioso di questo dibattito sulla politica di Israele verso i palestinesi è che sono state usate tattiche diffamatorie. Sono diventato sempre più il bersaglio di questi attacchi, e mi consolo a pensare che sia un segno di una certa influenza e di una certa efficacia. Alan Dershowitz, il famigerato professore di legge di Harvard, ha scritto sui miei viaggi recenti un articolo diffamatorio che inizia paragonandomi a David Duke, la cui fama è legata al Ku Klux Klan, e a Ahmadinejad, e suggerendo che sono un analogo venditore di odio. Questa ostilità irresponsabile è la parte spiacevole del mio ruolo controverso e delle opinioni da me espresse, e sfortunatamente riceve un peso sproporzionato da parte di una cultura mediatica che spesso considera l’odio e gli attacchi personali velenosi più convincenti, e di certo più meritevoli di attenzione, delle prove e del ragionamento. Ma non ho rimpianti. La mia integrità e la mia autostima sono profondamente legate alla mia identificazione, che dura da una vita, con gli oppressi, e alla mia convinzione che se l’umanità vorrà rifiorire in futuro, è essenziale che i forti rispettino la legge, a livello globale, come i deboli. Attualmente, abbiamo un diritto globale che non tratta gli eguali in modo eguale; i deboli vengono ritenuti responsabili, mentre i forti godono dell’impunità. Questo equivale ad una legge senza giustizia, suscitando accuse di ipocrisia e di doppio metro di giudizio. Il mio lavoro, come studioso e come cittadino impegnato, è stato dedicato a promuovere la causa di una giustizia globale basata su un ordine di legalità che impari a trattare gli eguali in modo eguale, sia che si tratti di stati che di individui.

Per quanto concerne il mio essere ebreo, questa è la mia identità. Credo che questa dedizione alla giustizia sia espressa al meglio dai profeti del Vecchio Testamento, ed è il contributo più duraturo della tradizione ebraica alla conoscenza umana e all’esercizio dell’etica. Ho avuto il privilegio, come studente universitario, di studiare Martin Buber, il grande filosofo ebreo, e di ascoltarlo mentre teneva una serie di conferenze all’Haverford College. Il suo messaggio è rimasto con me e mi risuona dentro ancora oggi. Con questo background riesco difficilmente a capire le accuse di “ebreo che odia sé stesso”, o di essere considerato in qualche modo “antisemita”. Rispondo a questi attacchi contro la mia credibilità sottolineando che non mi sento mai antiamericano quando critico la politica estera del governo americano. E’ una tattica incresciosa utilizzata da molti sionisti, quella di equiparare ogni critica allo stato di Israele o alla sua politica all’antisemitismo. Secondo me, questo atteggiamento è profondamente antidemocratico, e minaccia di trasformare il “cittadino” in un “suddito”. Credo che la misura di un buon senso della cittadinanza sia la coscienza, non l’obbedienza. Per tutte queste ragioni, non ho rimpianti, e sebbene non sia stato prudente, dal punto di vista del carrierismo, rifarei tutto di nuovo senza la minima esitazione. In sostanza, non potrei fare altro!

Victor Kattan è un tutor del Centre for International Studies and Diplomacy alla School of Oriental and African Studies di Londra, dove insegna diritto internazionale agli studenti universitari. Il suo libro, From Coexistence to Conquest: International Law and the Origins of the Arab-Israeli Conflict 1891-1949, verrà pubblicato da Pluto Books nel Giugno del 2009. Victor è il curatore di The Palestine Question in International Law, che è stato pubblicato dal British Institute of International and Comparative Law nel Maggio del 2008 e che ospita una serie di articoli di eminenti studiosi di diritto internazionale sul conflitto israelopalestinese.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://electronicintifada.net/v2/article10051.shtml

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