L’arte nazista. Sembra che non fosse spazzatura

L’arte nazista. Sembra che non fosse spazzatura

UNA PRIMAVERA PER HITLER

Di Roger Griffin (2008)[1]

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’esercito americano confiscò centinaia di opere d’arte naziste. Ritenute inadatte a essere esposte in pubblico, vennero portate negli Stati Uniti e tenute segrete. La ragione, secondo il ricercatore Gregory Maertz, era che questi dipinti erano di valore estetico tanto elevato che la loro esposizione avrebbe imbarazzato l’opinione ufficiale, che vede il nazismo come il male puro e semplice.

Sebbene molte di queste opere d’arte siano ritornate in Germania, la loro forza estetica e la loro umanità continuano a imbarazzare le autorità. Maertz riferisce che vi sono musei tedeschi che ancora oggi negano l’esistenza di opere che egli ha visto con i propri occhi nei loro depositi. Perché ogni nozione di pietas nazista, o di valida arte nazista, confonde i nostri sentimenti e le nostre certezze più profonde.

In un episodio dell’Ispettore Morse chiamato “Il crepuscolo degli dei” (1993), Morse rassicura fiduciosamente il sergente Lewis che “Quello che stiamo cercando qui è il genere di persona che squarcia quadri, prende a martellate le statue di Michelangelo e brucia i libri; qualcuno che odia l’arte e le idee così tanto da volerle distruggerle: un fascista”. Per l’ispettore amante dell’opera lirica, quindi, è assiomatico che il fascismo sia una forma di vandalismo, un assalto nichilista alla stessa civiltà, un assalto che prese la sua forma più infame nel regime di terrore capeggiato da Adolf Hitler.

Nel 1989 il produttore cinematografico Peter Adam riuscì almeno a prendere sul serio la cultura nazista al punto di produrre un documentario di due ore sull’Arte nel terzo Reich, per la prestigiosa serie culturale della BBC intitolata Omnibus. Tuttavia anch’egli confermò lo stereotipo che grava sull’arte nazista quando avvertì i suoi spettatori che i dipinti, le sculture e gli edifici che stavano per vedere erano l’espressione di un’”ideologia barbara”. “Si può guardare all’arte del terzo Reich solo con le lenti di Auschwitz”, concluse.

E così mentre il catalogo della mostra sul modernismo del 2006 del Victoria and Albert Museum, “Designing a New World”, designava la Volkswagen come un esempio spettacolare dell’ingegneria e dei principi estetici modernisti, esso manifestava ancora grande perplessità su come fosse stato possibile che un prodotto tecnologico così “avanzato” e razionalmente bello potesse essere uscito da un regime basato sulla barbarie e sulla fuga dalla modernità, attratto dalla vita pastorale e dalle elucubrazioni sulla supremazia ariana. La tendenza è sempre quella di evidenziare il cattivo gusto e gli aspetti più scopertamente regressivi dell’arte nazista – simboleggiati dalla squallida opera d’artista dello stesso Hitler, e di escludere e negare l’origine fascista dei capolavori che amiamo.

Considerati i crimini dei nazisti, una tale operazione è allettante. Allettante ma faziosa, da un punto di vista storico. I nazionalismi fascisti, come il nazismo e il fascismo italiano di Mussolini, non sono stati mai semplicemente un ritorno al passato, e il loro senso della cultura, dell’arte e del destino umano hanno in comune con altre forme di modernismo del ventesimo secolo – quel modernismo che è perpetuamente celebrato e alla moda – molto più di quanto vorremmo ammettere. Come ha scritto Gregory Maertz, “il modernismo ufficiale è stato blindato dalle contaminazioni ideologiche e estetiche con il terzo Reich”.

A differenza del termine “modernità”, che indica l’impatto delle nuove tecnologie e delle nuove relazioni sociali sulle società tradizionali, “modernismo” è un termine solitamente applicato alle arti che hanno rotto con le convenzioni formali del Rinascimento. Tuttavia, un certo numero di storici amplificano ulteriormente il suo significato. Essi vedono la corrente di innovazione estetica che ha inondato la società europea alla fine dell’ottocento e all’inizio del novecento, portando con sé un flusso di nuovi “ismi”, come espressione di un impulso più profondo: quello di formulare un nuovo ordine sociale capace di riscattare l’umanità dal caos e dalla crisi provocati dalla devastazione – operata dalla modernità – delle sicurezze tradizionali.

Da questo punto di vista, nel cuore del modernismo risiede un paradosso sostanziale: la sua sorgente emotiva non è moderna. Trae piuttosto origine dallo sforzo umano primordiale di edificare quello che il sociologo Peter Berger chiama il “sacro tetto”, per agire da riparo contro l’horror vacui del caos e della morte. La modernità, che lacera quel tetto, che minaccia la coesione della cultura tradizionale e la sua capacità di assorbire i cambiamenti, provoca un riflesso istintivo di autodifesa volto a riparare quelle lacerazioni, riaffermando quei valori “eterni” e quelle verità che trascendono la transitorietà dell’esperienza umana. Se il tetto è danneggiato in modo irrimediabile vi sono le condizioni per quello che i sociologi conoscono come il “movimento di rinascita”, che cerca di edificare un tetto interamente nuovo, un nuovo firmamento metafisico per rinnovare il mondo da capo.

Da questa prospettiva il modernismo è una reazione radicale contro la modernità. Al suo livello più programmatico e utopico, è un tentativo di arrestare il movimento della “decadenza” costruendo una modernità alternativa dal lato opposto rispetto a quello dell’autodistruzione strutturale e morale della società contemporanea. E’ contro questa prospettiva che emersero le varianti razziste del nazionalismo. Esse si proponevano di rivitalizzare una società in decadenza ricollegando i moderni cittadini alla propria storia, alla propria cultura, alle radici etniche e territoriali, non con uno spirito antimoderno ma per costruire un nuovo futuro.

Questa prospettiva, quindi, invita a capire in modo nuovo, da un punto di vista storico piuttosto che mitico, i tentativi intrapresi dai fascisti, dai nazisti, dai bolscevichi e dai comunisti cinesi per costruire una società moderna, post-tradizionale e post-liberale, una società abitata da un “Uomo Nuovo”. Come versioni moderne di una rinascita primordiale, esse aspiravano a creare un nuovo modello di stato totalitario, uno “stato modernista” la cui politica era elaborata all’interno di una visione globale della storia, che presentava un nuovo firmamento di valori trascendentali. Ognuna di esse cercò di creare una nuova epoca. Una delle ovvie differenze tra questi modelli, tuttavia, è che mentre il comunismo voleva tagliare i ponti con la decadenza del passato feudale e capitalista, l’Italia fascista e la Germania nazista cercarono di mobilitare le masse con narrazioni mitiche sulla superiorità culturale e razziale degli antichi romani e degli ariani.

Il fatto che nessuno dei due regimi si accinse alla distruzione del capitalismo, e che entrambi istituirono culti basati su valori eroici e mitici, ha rafforzato la convinzione diffusa che il fascismo sia una forza politica essenzialmente antimoderna, reazionaria, con lo sguardo rivolto al passato, la parodia di una “vera rivoluzione”. In realtà i miti germanici e greco-romani avevano per il terzo Reich e per la “nuova Roma” la stessa funzione esercitata dalla categoria del “primitivo” per artisti come Stravinsky, Picasso e Gauguin: quella di venire arruolati nella fondazione di un migliore – e moderno – futuro.

E così la tecnologia pionieristica dell’”automobile del popolo”, (originariamente concepita come l’”automobile della Forza attraverso la Gioia”) destinata a correre sulle “Strade Adolf Hitler” di un sistema autostradale nazionale concepito con uno slancio modernista mozzafiato, è assolutamente compatibile con il bizzarro progetto di Himmler del “Retaggio Ancestrale”, intrapreso per documentare le perdute meraviglie dell’antica civiltà ariana. Non dovrebbe quindi più sorprendere che lo stesso Goebbels, che sovrintendeva alla purga dell’arte degenerata, si assicurasse che a Edvard Munch – il pittore norvegese autore di un dipinto come “L’urlo”, che è la quintessenza del modernismo – venissero concessi i funerali di stato, con la bara scortata da bandiere con la svastica. Similmente, i progetti architettonici titanici di Albert Speer indicavano non una nostalgia antimoderna per le glorie della civiltà greca, bensì la rinascita della volontà ariana di costruire con uno stile che fosse senza tempo ma anche ultramoderno. In realtà, le linee “pulite” dello spoglio neoclassicismo degli edifici civili aveva connotazioni di igiene sociale, come i nudi dei quadri e delle statue che li adornavano celebravano implicitamente la salute fisica di una comunità nazionale concepita non solo in termini razziali ma anche eugenetici.

Persino la campagna di eutanasia e i genocidi multipli [quali?] attuati dal terzo Reich devono essere compresi non come delle mere orge di sadismo gratuito e di nichilismo ispirato dall’odio, ma come il danno collaterale della lotta per portare avanti una rivoluzione antropologica per il bene supremo di tutta l’umanità. I più ferventi convertiti di Hitler pendevano dalle sue labbra quando annunciava che “la nuova era del presente è all’opera su un nuovo tipo di uomo. Uomini e donne devono essere più sani, più forti: c’è un nuovo senso della vita, una nuova gioia di vivere”.

Lo scopo supremo dei nazisti non era solo eccellere in tutte le sfere della vita sociale ma generare un tipo superiore di essere umano. L’attivista nazista Franz Pfeffer von Salomon formulò con inquietante lucidità le implicazioni logiche di questa concezione meritocratica per le forme di vita “inferiori”: “gli alberi che non portano frutti devono essere recisi e gettati nel fuoco”.

Quello che la visione del mondo nazista aveva in comune con l’umanesimo era la fede nella perfettibilità del genere umano, per quanto la sua utopia di purezza razziale e di omogeneità culturale implicasse l’eliminazione di tutti gli elementi deficitari e decadenti. Era un umanesimo selettivo, il tentativo definitivamente modernista di applicare i principi biopolitici in modo da classificare gli individui in base al loro livello di umanità innata. Così, per quanto sia spiacevole, non dobbiamo sorprenderci nello scoprire che i nazisti e i fascisti italiani potevano continuare a mostrare tenerezza o compassione all’interno del loro gruppo di appartenenza, non più di quanto troviamo scioccante che gli antichi romani, i proprietari di schiavi nel sud degli Stati Uniti, o i sudafricani bianchi all’epoca dell’apartheid coltivassero la propria forma di empatia umana.

Non è incoerente che sotto il regime nazista venisse prodotta un’arte potente ma anche compassionevole. L’umana infelicità connessa ai bombardamenti terroristici delle più importanti città tedesche, ad esempio, venne resa con grande espressività da Adolf Wegener, un artista che era anche ufficiale della Wehrmacht, nonché leale nazista. Qualcuno, come Hans Rossmanit – un altro artista combattente – estese la propria empatia umanista, almeno sulla tela, fino ad abbracciare le vittime slave dell’operazione Barbarossa, nonostante il loro status ufficialmente subumano.

Mentre è evidente che i nazisti distrussero volentieri opere d’arte e vite umane ad un livello senza precedenti, non si trattò di una semplice orgia nichilista. Fu invece un atto calcolato di “distruzione creativa”, volta a distruggere per costruire. I quadri non venivano “squarciati” ma pubblicamente ridicolizzati e in un caso – si trattava di quadri moderni – vennero bruciati. Più spesso venivano svenduti o collocati nelle collezioni private dei leader nazisti – se il loro soggetto o le loro qualità formali venivano considerati come “degenerati”. Il nazismo perciò attaccò il “bolscevismo culturale” nel quadro della stessa crociata che lo portò a “sradicare” quello che considerava come il prodotto di un’umanità inferiore, per aprire la strada ad una nuova, salutare, rigenerata cultura tedesca che avrebbe salvato l’Occidente dall’autodistruzione.

Il fascismo aveva il senso della cultura, aveva molto in comune con il modernismo e, per quanto possa sembrare assurdo, produsse opere dotate di umanità e di dignità.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://newhumanist.org.uk/1415

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Recent Posts
Sponsor