Da Israele nessuna pietà

NESSUNA PIETA’

Najwa Sheikh scrive dalla Striscia di Gaza occupata, Live from Palestine, 1 Maggio 2008[1]

Nella sua modesta casa fatta di lamine di metallo, Myassar Abu Me’teq stava seduta vicino a tre dei suoi figli, che stavano facendo colazione, tenendo in braccio il figlioletto di un anno. Stava ascoltando le loro proteste quotidiane e i loro amorevoli battibecchi cercando di confortarli e di tenerli lontani dal suono dei bombardamenti israeliani vicino alla loro casa di Beit Hanoun, nella zona Nord della Striscia di Gaza.

Questa mamma non sapeva che il loro orologio si sarebbe presto fermato, e non a causa del loro creatore ma del loro nemico. Non sapeva che quella era l’ultima colazione che avrebbe preparato per i propri figli. Non sapeva che era l’ultima volta che avrebbe tenuto con sé il proprio bambino. Non sapeva che non avrebbe più visto i propri figli, come essi pure non avrebbero mai visto la propria madre invecchiare. Come ogni mamma, si era rifiutata di abbandonare i propri figli al loro destino. Non voleva lasciare andare il suo bambino e aveva insistito per seguire il loro destino come una cosa sola, nella vita e nella morte.

Ma come molti altri prima di lei uccisi da Israele, non sapeva che sarebbe stata l’eroina di un film dell’orrore, e che avrebbe lasciato questo mondo con i suoi quattro figli, lasciando dietro di sé altre due bambine con il senso amaro della perdita e con l’immagine della loro mamma e delle loro sorelline macchiate di sangue in mezzo ai frammenti dei loro corpi. Una bomba – “accidentalmente”, come ha detto ufficialmente Israele – ha colpito la casa di questa famiglia e ha distrutto i sogni dei suoi bambini durante la loro tranquilla colazione, poco prima di un festoso pomeriggio. La bomba li ha uccisi brutalmente, senza nessuna pietà per i loro corpi minuti o per i loro occhi disorientati.

Parlando così tanto di quello che i palestinesi devono fronteggiare a Gaza, le loro sofferenze e l’uccisione deliberata delle loro famiglie sono diventate una banalità che non commuove nessuno, specialmente di fronte al silenzio dilagante dei compatrioti palestinesi, del mondo arabo e della più vasta comunità internazionale nei confronti di eventi tanto devastanti. Il fatto che ogni operazione israeliana procuri una nuova devastazione di cui si parlerà, porti la sua pena, ed esprima l’odio profondo e l’inumanità che il nostro nemico ha nei nostri confronti, mi costringe a scrivere su queste famiglie e sulla loro tragedia, con la speranza che le mie parole serviranno a qualcosa e contribuiranno a impedire tali eventi in futuro.

Noi, i palestinesi, dobbiamo iniziare a capire che le regole del gioco omicida d’Israele sono cambiate. Non c’è rispetto per le vite dei palestinesi, che essi non considerano alla stregua di esseri umani, e non ci si pensa due volte a uccidere bambini, madri, padri, fratelli e sorelle innocenti, e a distruggere intere famiglie.

Mentre ho già scritto della famiglia al-Athamna di Beit Hanoun, della famiglia Abu Ghalya di Jabaliya, e della famiglia Abu Me’teq, anch’essa di Beit Hanoun, c’è una domanda che rimane senza risposta, non su quelli che sono stati uccisi e che giacciono per sempre, ma su quelli rimasti in vita e che devono vivere con il ricordo della loro esperienza per il resto della loro vita. Giorno e notte, anche quando il tempo trascorre così velocemente che gli eventi sembrano propizi, nel profondo del loro subconscio conserveranno sempre questi cattivi ricordi e costringeranno sé stessi a credere, come accade a tutti noi in esperienze del genere, che le cose andranno per il meglio e che la vita proseguirà. Ma, la verità che dobbiamo accettare è che queste persone non saranno più le stesse e non potranno mai vivere una vita normale. Dobbiamo prepararci per quando verrà il momento in cui il mostro che gli israeliani hanno creato, e che vive nei recessi di ognuna di queste storie, sarà sciolto: noi, i palestinesi, dovremo affrontarne le conseguenze.

Najwa Sheikh è una profuga palestinese. Ha vissuto tutta la propria vita nei campi profughi di Gaza. E’ sposata con tre figli.

[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://electronicintifada.net/v2/article9502.shtml

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