Elie Wiesel: “Il più autorevole testimone vivente della Shoah”?

Elie Wiesel: “Il più autorevole testimone vivente della Shoah”?

 
ELIE WIESEL: «IL PIÙ
AUTOREVOLE TESTIMONE VIVENTE» DELLA SHOAH»?

Di Carlo Mattogno,
2010
 
Elie Wiesel  a
Montecitorio

In occasione della decima “Giornata della Memoria” Elie
Wiesel è stato invitato nell’aula di Montecitorio, dove ha tenuto un breve
discorso infarcito di melensa retorica e condito di strambe scempiaggini, come
l’appello a Fini e Berlusconi di «introdurre
un disegno di legge che designi l’attentato suicida come crimine contro
l’umanità», o l’auspicio che Ahmadinejad «dovrebbe essere arrestato e tradotto di fronte alla Corte dell’Aia e
accusato di incitamento a crimini contro l’umanità»[1]. Considerato che le proposte vengono da uno
che spalleggia i massacratori israeliani…

Le sue
dichiarazioni più importanti, vedremo poi perché, sono queste:

«Io,
il numero A-7713
, sono qui a portarvi un messaggio su avvenimenti accaduti
duemila anni più tardi. […].

Proprio
in questi giorni, sessantacinque anni fa, mio padre Shlomo, figlio di
Nissel e Eliezer Wiesel, numero A-7712, moriva di inedia e malattia nel campo
di sterminio
di Buchenwald»(corsivo mio).

Fini ha introdotto
l’ospite così:

«Quello
odierno è un evento eccezionale, perché è la terza volta, nella centenaria
storia del Parlamento italiano, che un ospite parla solennemente all’Assemblea.
È un onore che Elie Wiesel merita ampiamente, perché è davvero un
personaggio eccezionale
. Egli, infatti, è il più autorevole testimone
vivente
, tra i sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti, degli
orrori della Shoah»(corsivo mio).

Indi ha proseguito:
«Da decenni Elie Wiesel ci incoraggia in questo
fondamentale impegno attraverso il suo magistero morale, l’energia del
suo carisma intellettuale e umano, la forza del suo impegno civile, per non
dimenticare e per far progredire la causa dei diritti umani e della pace nel
mondo. […].

Oltre
che testimone oculare della Shoah, Wiesel è una persona piena di fede e
di amore»(corsivo mio).

Elie Wiesel è un impostore?

Ciò ha richiamato
l’attenzione su un articolo scritto in ungherese il 3 marzo 2009[2],
tradotto in inglese il giorno dopo[3]
e in italiano nel mese di aprile[4].
In estrema sintesi,  Miklós Grüner, che fu deportato dall’Ungheria ad Auschwitz
nel maggio 1944, indi trasferito al campo di Monowitz e infine evacuato a Buchenwald
nel gennaio 1945, dichiarò che al campo strinse amicizia con due fratelli,
Lázár Wiesel, nato nel 1913, che aveva il numero di matricola A-7713, e Ábrahám
Wiesel, nato nel 1900, numero di matricola A-7712. In pratica, Elie Wiesel si
sarebbe appropriato dell’identità di Lázár Wiesel e avrebbe usurpato quella di Ábrahám
per il padre.
Miklós Grüner aggiunge che, in occasione di un incontro con Elie Wiesel, che
gli era stato presentato come il suo amico Lázár Wiesel, questi rifiutò di
mostrargli il numero di matricola tatuato sull’avambraccio. Egli allora
intraprese delle ricerche e scoprì che un Elie Wiesel non era mai stato
internato in un campo di concentramento e che non figurava in alcuna lista
ufficiale di deportati.

Le dichiarazioni di Miklós Grüner sono state ripetute da molti, ma
senza indagare oltre. Non resta dunque che sottoporle a verifica in base alla
sana metodologia critica revisionistica.

Premetto i dati anagrafici di Elie Wiesel:

nato a Sighet, Romania, il 30 settembre 1928, da Shlomo e
Sarah Frig, figlia di Dodye Feig, deportato a
Birkenau il 16 maggio 1944[5].

Anzitutto bisogna verificare l’attendibilità dell’accusatore. Ciò che
si può dire con certezza riguardo a Miklós Grüner, è che egli si trovava a
Buchenwald nel maggio 1945. In un 
“Questionario per detenuti dei campi di concentramento” del  Military Government of Germany appare infatti il suo nome, e anche la data di nascita – 6 aprile 1928
– corrisponde. Il numero di matricola è annotato a mano in alto a sinistra:
120762[6].

Documento 1

Questionario
relativo a Miklós Grüner. Buchenwald, 6 maggio 1945
 

 Ma il personaggio
chiave della vicenda è Lázár Wiesel. Fortunatamente esiste la sua
scheda personale relativa al suo internamento nel campo di Buchenwald che
permette di verificare le affermazioni di Miklós Grüner. In questa scheda[7], in alto, a
sinistra, appare l’annotazione manoscritta “Ung. Jude”, “Ebreo ungherese”, al
centro, “Ausch. A 7713”, “Auschwitz A-7713”, il vecchio numero di matricola di
Auschwitz, a destra “Gef.-Nr.: 123565”, “Numero di detenuto 123565”, il nuovo
numero di matricola di Buchenwald. Il detenuto era nato il 4 settembre 1913
(l’anno di nascita di Lázár Wiesel dichiarato da Miklós Grüner) a
Maromarossziget ed era figlio di Szalamo Wiesel, che si trovava a Buchenwald, e
di Serena Wiesel nata Feig, internata al KL Auschwitz. Il timbro “26.1.45 KL.
Auschwitz” significa che Lázár Wiesel era stato registrato a  Buchenwald il 26 gennaio 1945 in provenienza
da Auschwitz. 

Documento 2

Scheda personale di Lázár Wiesel (KL
Buchenwald)
 

Va precisato che Maromarossziget
[Máramarossziget in ungherese], l’attuale Sighetu Marmaţiei (in rumeno) è la
medesima località che Elie Wiesel chiama Sighet[8].
Il nome “Szalamo” è
identico a “Shlomo”, mentre “Serena” richiama foneticamente “Sarah”.
Riassumo nella tavola che segue i risultati della  verifica esposta sopra:
















 



Lázár Wiesel
Elie Wiesel
Numero di matricola



A-7713



A-7713

Data di nascita
4 settembre 1913
30 settembre
1928
Luogo di nascita



Máramarossziget
= Sighet


Sighet
Nome del padre
Szalamo = Shlomo
Shlomo
Nome della madre
Serena Feig
Sarah Feig
Domicilio del padre inizio 1945


Buchenwald
Buchenwald

Miklós Grüner ha pienamente ragione: Elie Wiesel si è appropriato
dell’identità di Lázár Wiesel. Un’altra accusa formulata da Miklós Grüner
riguarda l’origine del libro di Eli Wiesel “La Nuit” (in italiano “La
notte
”). Nella versione ungherese dell’articolo indicato nella nota 2 si dice
che esso fu pubblicato in ungherese a Parigi nel 1955 dal suo amico Lázár col
nome di Eliezer e col titolo “A világ hallgat” (E
il mondo tace
).  Nella traduzione
inglese dell’articolo indicata nella nota 3 invece il titolo suona “Un
di Velt hot Gesvigen
”, che è in jiddisch. Una ricerca sul titolo in
ungherese non ha portato ad alcun risultato. Il libro in jiddisch invece
è documentabile. Esso è infatti registrato nella Bibliography of Yiddish
Books on the Catastrophe and Heroism
[9],
n. 549 a p. 81. L’annotazione, in jiddisch, dice: Eliezer Wiesel, Un
di Welt hot geschwign
(E il mondo ha taciuto). Buenos Aires, 1956. Unione
Centrale degli Ebrei polacchi in Argentina. Collana L’ebraismo polacco,
vol. 117, 252 pagine. Di questo libro esiste una
traduzione in inglese che corrisponde al capitolo VII di “La Nuit”. Ne
parlerò alla fine dell’articolo.

Michael Wiesberg espone
al riguardo informazioni degne di nota:

Wiesel
stesso ha fatto vari accenni alla storia della nascita del suo libro. Naomi
Seidman ha rilevato che proprio Wiesel, in Alle Flüsse fließen ins Meer
(Tutti i fiumi portano al mare) ha richiamato l’attenzione sul fatto di aver
consegnato all’editore argentino Mark Turkow il manoscritto originale di “La
Nuit
”, redatto in jiddisch, nel 1954. A suo dire non l’aveva più
rivisto, cosa che Turk nega recisamente. Questo manoscritto fu pubblicato nel
1955 a Buenos Aires col titolo Und di Velt hat Geshveyn (E il
mondo ha taciuto). Wiesel pretende di averlo scritto durante una crociera in
Brasile nel 1954. Però in una intervista dichiarò che solo nel maggio 1955,
dopo un incontro con Mauriac[10], decise di rompere il suo
silenzio. “E quell’anno [il 1955], nel decimo anno, cominciai la mia storia.
Poi fu tradotta dallo jiddish in francese e io gliela mandai. Fummo
molto, molto amici fino alla sua morte”.

Naomi
Seidman, nelle sue ricerche su “La Nuit”, mise in chiaro che tra la
versione in jiddisch e quella in francese di “La Nuit” ci sono
notevoli differenze, precisamente riguardo a lunghezza, tono, intenzione e temi
trattati nel libro. Ella attribuisce queste differenze all’influenza di
Mauriac, che può essere descritto come una personalità molto particolare»[11].

A questo riguardo, dunque, il meno che si possa
dire è che l’origine del libro resta incerta e confusa. 

Elie Wiesel è un falso testimone?

Accertato ciò,
resta da stabilire se Elie Wiesel sia anche un falso testimone di Auschwitz.
Esamineremo perciò la sua  “testimonianza
oculare”, come è esposta in «quello
che è considerato il suo capolavoro»(Fini),
La notte[12]. Già
nel 1986 Robert Faurisson scrisse un articolo intitolato Un grand faux
témoin: Élie Wiesel
[13].
Di recente Thomas Kues ne ha redatto un altro dal titolo Una donnola
travestita da agnello
[14].
Entrambi affrontano la questione in termini generali. È giunto il momento di
un’analisi tematica più approndita. Bisogna premettere che la caratteristica
principale della testimonianza in questione è che racconta senza descrivere;
Elie Wiesel pone grande attenzione ad evitare qualunque dettaglio verificabile
e ciò che dice di Birkenau, di Auschwitz, di Monowitz e di Buchenwald è
talmente indefinito che la sua narrazione si potrebbe tranquillamente riferire
ad un luogo della Siberia o del Canada. 

a) La deportazione

Elie Wiesel non
indica il giorno della sua deportazione ad Auschwitz. La sua narrazione parte
comunque da un riferimento cronologico preciso: «il sabato precedente Shavuòth,
la Festa delle Settimane»(p. 19). Nel 1944 questa festa cadde il 28 maggio 1944[15], che
era una domenica. Il giorno in questione era perciò il 27 maggio. Il primo
trasporto di Ebrei partì da Sighet il giorno dopo, 28 maggio: «Infine, all’una
venne dato il segnale di partenza»(p. 23). Elie Wiesel menziona poi «la
giornata di lunedì»(p. 25), l’alba del giorno dopo (p. 25) e la successiva
notte (p. 27) e alla fine precisa: «Sabato, il giorno del riposo, era il giorno
scelto per la nostra cacciata»(p. 28) e quello fu appunto il giorno della sua
deportazione (p. 29): il 3 giugno 1944.

La durata del
viaggio non è indicata, ma i trasporti dall’Ungheria impiegarono da tre a
quattro giorni per arrivare ad Auschwitz-Birkenau. Elie Wiesel trascorse la
notte a Birkenau e l’indomani  fu
trasferito ad Auschwitz dove gli fu tatuato il numero A-7713 (p. 47). Tuttavia,
a suo dire,  «era una bella giornata
d’aprile» (p. 45).

Questa cronologia
è completamente inventata. Se egli partì da Sighet il  3 giugno 1944 non poté arrivare ad Auschwitz
in aprile. Per di più, il numero  A-7713
fu assegnato il 24 maggio, giorno in cui furono immatricolati 2.000 Ebrei
ungheresi con i numeri A-5729–A-7728[16].
Secondo Randolph L. Braham, un trasporto ebraico per Auschwitz partì da Máramarossziget il
20 maggio 1944[17].  Considerati quattro giorni di viaggio, questo
è il trasporto di Lázár Wiesel, cui fu assegnato il numero A-7713 appunto il 24 maggio. Ma tutte queste cose,
evidentemente, Eli Wiesel non le sapeva.             

b) L’arrivo a Birkenau    

Elie Wiesel racconta:

«Ma si arrivò
in una stazione. Chi si trovava vicino alle finestre ce ne disse il nome: –
Auschwitz. Nessuno l’aveva mai sentito dire. […]. 

Verso le undici
il treno si rimise in movimento. Ci si affollava alle finestre. Il convoglio
rotolava lentamente. Un quarto d’ora dopo rallentò ancora. Dalle finestre
scorgemmo dei reticolati: capimmo che doveva trattarsi del campo. […].

E mentre il
treno si era fermato noi vedemmo questa volta delle vere fiamme salire da un
alto camino
, nel cielo nero.  […].

Noi guardavamo
le fiamme nella notte. Un odore abominevole aleggiava nell’aria.
Improvvisamente le porte si aprirono. […].

Davanti a noi,
quelle fiamme. Nell’aria, quell’odore di carne bruciata. Doveva essere
mezzanotte. Eravamo arrivati. A Birkenau»(p. 34).

Questa narrazione è insensata già dal punto di vista topografico. La
stazione da cui partiva il binario di diramazione verso Birkenau (la cosiddetta “vecchia rampa”) correva
obliquamente a est della recinzione del campo ad una distanza – in linea d’aria
–  minima di circa 500 metri . Il binario
di raccordo era lungo circa 700 metri.

A Birkenau c’erano quattro crematori, denominati II, III, IV e V. I
camini dei crematori più vicini (II e III) distavano in linea d’aria circa
1.400 metri, quelli più lontani (IV e V) circa 1.800 metri. Il binario di
raccordo, per gli ultimi 400 metri, procedeva perpendicolarmente alla
recinzione del campo, sicché dalle finestrelle del treno non si potevano vedere
i crematori II e III, che si trovavano più avanti nella stessa direzione,
mentre i crematori IV e V erano coperti da almeno 12 file di baracche, inoltre
ciascuno era dotato di 2 camini.

Non per nulla, a mia conoscenza, nessun testimone ha mai preteso di
aver visto i camini dei crematori dal treno di deportazione. 
 
Documento 3

Fotografia aerea del campo di Birkenau del 31
maggio 1944

(NA, 60 PRS/462, D 1508,
Exp. 3056)

I cerchi racchiudono i crematori; da sinistra:
II, III, IV e V. L’edificio a forma di “T” contrassegnato con le lettere “ZS” è
la Zentralsauna. “EG” è l’edificio di entrata (Eingangsgebäude), la
freccia indica la diramazione ferroviaria dalla stazione
 

 L’arrivo al campo è narrato da Eli Wiesel in modo straordinariamente
indefinito, con grande cura nell’evitare qualunque particolare verificabile:
oltre al «camino», di cui mi occupo al punto c), egli menziona soltanto «dei
reticolati», indi, all’interno del campo, un «incrocio»(p. 37), «una fossa» e
«un’altra fossa»(pp. 37-38), una «baracca»(p. 40) e «una nuova baracca»(p. 41).

Nessun accenno a tutto ciò che attrasse l’attenzione di tutti i veri
deportati, come è documentato dalle fotografie del cosiddetto Album di
Auschwitz
[18] (che
furono scattate qualche giorno dopo l’arrivo del convoglio di Lázár Wiesel): l’edificio di entrata (Eingangsgebäude)
col suo arco, sotto il quale passavano i treni per entrare al campo, la
banchina (la cosiddetta “rampa ebraica”, Judenrampe) con tre binari
all’interno del campo, le recinzioni e le innumerevoli file di baracche a
destra e a sinistra, le lunghe strade che tagliavano il campo in lungo e in
largo, i fossati di drenaggio, le altane, i bacini antincendio, i crematori II
e III alla fine della banchina. 

Documento 4

L’edificio di ingresso (Eingangsgebäude)
del campo di Birkenau © Carlo Mattogno

 

Poi  il racconto diventa un po’
meno vago:

«Un barile di
petrolio sulla porta. Disinfezione. Ci si bagna tutti. Poi una doccia calda. In
gran fretta. Usciti dall’acqua, si è cacciati fuori. Correre ancora. Ancora una
baracca: il magazzino. Lunghissime tavole. Montagne di casacche per detenuti.
Noi corriamo. Quando passiamo ci lanciano pantaloni, giacca, camicia,
calzini»(pp. 41-42).

Scena completamente inventata. All’epoca a Birkenau esistevano quattro
impianti di disinfestazione e disinfezione (Entwesungs- und
Desinfektionsanlagen
). Quello principale era la cosiddetta Zentralsauna
(Entwesungsanlage, BW 32), a forma di T davanti alla recinzione ovest
del campo, con tre camere di disinfestazione ad aria calda (Heissluftentwesungskammern),
tre autoclavi a vapore (Dampf-Desinfektionsapparate), sala doccia dotata
di spogliatoio e vestitoio, sala barbieri; i due impianti BW 5a e 5b,  situati nei settori BIb e BIa, parimenti
forniti di sala doccia dotata di spogliatoio e vestitoio, ma l’uno con camera a
gas di disinfestazione a Zyklon B, l’altro con due camere di disinfestazione ad
aria calda; infine l’impianto del campo zingari BIIa, con 8 apparati  di disinfestazione elettrici (elektrische
Entlausungsapparate
)[19].
Nei primi tre impianti, equipaggiati con spogliatoio (Auskleiraum) e
vestitoio (Ankleideraum) tutte le operazioni si svolgevano all’interno
degli edifici. La procedura di disinfestazione non prevedeva l’impiego di
petrolio. Ma di tutto ciò Elie Wiesel non aveva alcun sentore.

Degna di menzione è anche la storiella in voga negli anni Cinquanta del
buon detenuto che suggerisce ai nuovi arrivati di dichiarare un’età superiore o
inferiore a quella reale per sfuggire alle “camere a gas”. A Elie Wiesel, che
non aveva ancora 15 anni, il buon detenuto disse di dichiararne 18, a suo
padre, che ne aveva 50, consigliò di dire 40 (p. 36). Si tratta di un racconto
sciocco, perché ogni trasporto era accompagnato da liste dei deportati in cui
era indicato, tra l’altro, cognome, nome e data di nascita di ciascuno, sicché
all’atto della registrazione la pia menzogna sarebbe stata scoperta
inevitabilmente; inoltre olocausticamente falso, perché, secondo una
pubblicazione del Museo di Auschwitz, si gasavano bambini e ragazzi al di sotto
di 14 anni[20], mentre
per gli adulti non esisteva un limite fisso. Nei registri dei decessi (Sterbebücher)
di Auschwitz, per il 1943 (per il 1944 non è rimasto alcun registro) sono
attestati 4.166 casi di persone tra i 51 e i 90 anni[21]

c) “Il” camino fiammeggiante

Elie Wiesel non aveva alcuna idea di quanti crematori esistessero a
Birkenau, come fossero fatti e dove si trovassero. Sebbene in un punto si lasci
sfuggire un accenno alquanto fantasioso a «sei crematori»(p. 69), egli menziona
sempre “il” camino, non si sa di quale crematorio, come se ce ne fosse uno
solo. Di fatto i camini di Birkenau erano 6: quale sputava fiamme?

Egli insiste pure su questo singolare fenomeno: «–Vedete, laggiù, il
camino? Lo vedete? Le fiamme le vedete? (Sì, le vedevamo, le fiamme)»(p.
36).  Così sappiamo anche dove si trovava
il camino: «Laggiù»!(Corsivo mio).

La storiella dei camini fiammeggianti andava in gran voga negli anni
Cinquanta, quando Elie Wiesel scrisse La Notte (1958). Ormai non la prende
più sul serio neppure un Robert Jan van Pelt, che si è industriato per
dimostrare che i camini dei crematori di Birkenau fumavano… e basta[22]. In
effetti questa storiella non ha alcun fondamento tecnico, come ho spiegato in
un articolo specifico[23].
 
Documento 5
Un convoglio di Ebrei ungheresi nel campo di
Birkenau – Fine maggio 1944. Le frecce indicano i camini dei crematori II e
III, senza “fiamme” né fumo (da: L’Album d’Auschwitz, p.51)

 
d) Le “fosse di cremazione”

Questo è l’aspetto più orrorifico della sua “testimonianza oculare”:
«Non lontano da noi delle fiamme salivano da
una fossa, delle fiamme gigantesche. Vi si bruciava qualche cosa. Un autocarro
si avvicinò e scaricò il suo carico: erano dei bambini. Dei neonati! Sì,
l’avevo visto. L’avevo visto con i miei occhi
… Dei bambini nelle fiamme.
[…]. Ecco dunque dove andavamo. Un po’ più avanti avremmo trovato un’altra
fossa, più grande, per adulti. […]. Continuammo a marciare. Ci avvicinammo a
poco a poco alla fossa da cui proveniva un calore infernale. Ancora venti
passi. Se volevo darmi la morte, questo era il momento. La nostra colonna non
aveva da fare più che una quindicina di passi. Io mi mordevo le labbra perché mio
padre non sentisse il tremito delle mie mascelle. Ancora dieci passi. Otto.
Sette. Marciavamo lentamente, come dietro un carro funebre, seguendo il nostro
funerale. Solo quattro passi. Tre. Ora era là, vicinissima a noi, la fossa e le
sue fiamme. Io raccoglievo tutte le mie forze residue per poter saltare fuori
dalla fila e gettarmi sui reticolati. In fondo al mio cuore davo l’addio a mio
padre, all’universo intero e, mio malgrado, delle parole si formavano e si
presentavano in un mormorio alle mie labbra: Yitgaddàl veyitkaddàsh shemé
rabbà
…Che il Suo Nome sia elevato e santificato…Il mio cuore stava per
scoppiare. Ecco: mi trovavo di fronte all’Angelo della morte… No. A due passi
dalla fossa, ci ordinarono di girare a sinistra, e ci fecero entrare in una baracca»(pp.
37-38).
Dove si svolge la scena? Come al solito, Elie Wiesel si guarda bene dal
fornire il minimo punto di riferimento topografico. Secondo la storiografia
olocaustica, le “fosse di cremazione” si trovavano in due siti: all’esterno del
campo, di fronte alla Zentralsauna, nell’area del presunto “Bunker 2[24] e nel
cortile nord del crematorio V. La prima possibilità deve essere esclusa perché,
in tal caso, Elie Wiesel avrebbe dovuto menzionare l’uscita dal campo e un
percorso di varie centinaia di metri in aperta campagna. Resta la seconda.
Nello studio Auschwitz: Open Air Incinerations[25] ho
dimostrato, grazie all’analisi di tutte fotografie aeree di Birkenau
disponibili, che la storia delle “fosse di cremazione”, per numero, superficie
e finalità, non trova alcun riscontro nella realtà. L’unico sito
di cremazione documentariamente attestato che esistette a Birkenau era
dislocato dietro il crematorio V e aveva una superficie di circa 50 metri
quadrati (mentre, secondo la propaganda olocaustica, il presunto sterminio
degli Ebrei ungheresi avrebbe richiesto “fosse di cremazione” con una
superficie totale di circa 5.900 metri quadrati), come si vede in questa
fotografia: 
Documento 6
Fotografia  aerea di Birkenau del 23 agosto 1944 – Cortile
nord del crematorio V
Il sito fumante è molto esiguo, come risulta
dal confronto con il Krematorio V (a sinistra), che era largo circa 13 metri

 
Va inoltre rilevato che, per raggiungere questo, sito bisognava passare
necessariamente accanto ai crematori IV e V, che non sarebbero certo sfuggiti
ad un acuto osservatore di camini come Elie Wiesel, dato che ne avevano ben
quattro; per di più, in prossimità di esso non c’era nessuna baracca, ma solo
il crematorio V. Infine il reticolato più vicino (quello nord), sul quale si
sarebbe voluto gettare il nostro testimone, si trovava al di là del fossato di
drenaggio che correva lungo la recinzione.

Oltre che storicamente infondata, la storia è anche assurda, perché, se
Elie Wiesel si fosse realmente avvicinato fino a due passi da una vera “fossa
di cremazione”, che, per assolvere la sua funzione, avrebbe dovuto avere una
temperatura minima di 600°C, si sarebbe ustionato mortalmente.

La scena dell’autocarro che scarica bambini in una “fossa di
cremazione” fa parte anch’essa dell’armamentario propagandistico del
dopoguerra. Essa fu illustrata da David Olère in un quadro del 1947 che poi è
servito di ispirazione per i “testimoni oculari” successivi[26].
Il racconto di Eli Wiesel è dunque falso e assurdo; ma  è anche chiaramente pretestuoso: se egli e
suo padre erano stati “selezionati” per il lavoro, perché furono portati in
prossimità della “fossa di cremazione”? Per scoprire il preteso “terribile
segreto” di Auschwitz e propalarlo tra altri detenuti in altri campi?
Si tratta evidentemente di un banale artificio per poter giustificare una
“testimonianza oculare” orrida puramente fittizia. 
e)      Il trasferimento ad
Auschwitz
Dopo una notte trascorsa in una baracca del campo zingari, Elie Wiesel
fu trasferito al campo principale di Auschwitz. Anche in questo caso la
descrizione del tragitto è oltremodo vaga:
 «La
marcia era durata una mezz’ora. Guardandomi intorno mi accorsi che i reticolati
erano dietro di noi: eravamo usciti dal campo. Era una bella giornata d’aprile.
Profumi di primavera aleggiavano nell’aria. Il sole calava verso occidente.  Ma appena dopo pochi passi vedemmo i
reticolati di un altro campo. Un cancello di ferro, con su in alto scritto: “Il
lavoro rende liberi”. Auschwitz»(p. 45).                                    

Così egli non si
accorse neppure all’uscita dal campo di essere passato sotto l’arco
dell’edificio di ingresso di Birkenau. Lungo il tragitto non notò nulla, né il
ponte sopra la ferrovia, né il lungo viale che portava al campo di Auschwitz.
La scritta “Arbeit macht frei” invece la notò subito (ma non in tedesco!),
come la può notare chiunque abbia sentito parlare di Auschwitz.

Non c’è bisogno di
dire che egli si guarda bene dal descrivere, sia pure sommariamente, il nuovo
campo. Ivi giunto, fu accolto nel Block 17, di cui ovviamente non dice
nulla.
 
«Nel
pomeriggio ci misero in fila. Tre prigionieri portarono un tavolo e degli
strumenti chirurgici. Con la manica del braccio sinistro tirata su ognuno
doveva passare davanti alla tavola. I tre “anziani”, ago alla mano, ci
incidevano un numero sul braccio sinistro. Io diventai A-7713»(p. 47).
 
Anche questa
descrizione è fasulla. Ho già esposto l’impostura del numero di matricola.
Aggiungo che, come riferisce Tadeusz Iwaszko,

             «i
nuovi arrivati (Zugang) venivano portati negli edifici dei bagni, che ad
Auschwitz I si trovavano nel blocco nr. 26»[27].

Eli Wiesel tace
anche tutte le importanti operazioni preliminari, che evidentemente non
conosceva affatto:

«La
registrazione avveniva subito dopo il bagno e la consegna dei vestiti e
consisteva nella compilazione di un modulo con i dati personali (Häftlings-Personalbogen)
e l’indirizzo dei familiari più prossimi. […]. Il detenuto riceveva quindi un
numero progressivo che per tutta la durata del suo soggiorno al KL avrebbe
sostituito il suo nome. La procedura di immatricolazione si concludeva con il
tatuaggio del numero sull’avambraccio sinistro»[28].

Egli parla poi dell’appello serale:
«Decine
di migliaia
di detenuti stavano in fila mentre le S.S. verificavano il loro
numero»(p. 47)(corsivo mio).

Ma la forza del
campo di Auschwitz era di gran lunga più esigua. Il 12 luglio 1944 contava
circa 14.400 detenuti[29]

f)      
Il trasferimento a Monowitz
Dopo tre settimane
di permanenza ad Auschwitz (p. 48), Elie Wiesel fu trasferito al campo di Buna
(p. 50), cioè Auschwitz III o Monowitz. Anche qui nessuna descrizione del
campo, nessun particolare verificabile[30]. Le
poche informazioni da lui fornite sono tutte fantasiose. Egli comincia subito
con una contraddizione:

«Nel
nostro convoglio c’erano dei bambini di dieci, dodici anni»(p. 51).

Forse anche questi, per scampare alle “camere a gas”, avevano
dichiarato 18 anni?
Indi furono
«sistemati in due tende»(p. 51), come se non ci fosse posto nelle 60 baracche
del campo, così descritto da Primo Levi:
 
«questo
nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due
reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad
alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano Blocks,
di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle
cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un
distaccamento di Häftlinge privilegiati; le baracche delle docce e delle
latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più,
alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo
di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio;
v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli
scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftling è mai
entrato, riservato alla “Prominenz”, cioè all’aristocrazia, agli
internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche
(gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos;
il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos,
funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida,
e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria
centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le
finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo,
servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche»[31].

Confrontata con questa, la non-descrizione di Elie Wiesel è tristemente
patetica.
Parlando a Montecitorio, egli non ha saputo resistere alla tentazione
di ostentare la conoscenza di Primo Levi:
«Ad
un certo punto siamo stati assegnati alla stessa baracca, ma non era
presente nella marcia della morte verso i vagoni che ci hanno portato a
Buchenwald; è rimasto in ospedale»[32](corsivo
mio).
Tuttavia Primo Levi fu assegnato al Block 30[33], poi al
Block 45[34] e
infine al Block 48[35].
In
quale Block alloggiò Elie Wiesel? La risposta non è semplice. Egli menziona dapprima «il blocco
dell’orchestra»[36], che si
trovava effettivamente «vicino alla porta del campo»(p. 53), poi menziona un
paio di volte il Block 36 («… mi misi a correre verso il blocco 36…Corsi
verso il blocco 36…» (p. 74 e 77), senza precisare se vi alloggiasse; infine
dichiara esplicitamente che si trovava nel Block 57 (p. 84).  In pratica Elie Wiesel e Primo Levi non si
trovarono mai nella stessa baracca. Una pia menzogna nel bel mezzo di
Montecitorio, al cospetto di cotanti illustri uditori!
La storiella dell’estrazione di denti d’oro a detenuti vivi con
conseguente chiusura del «gabinetto del dentista»(p. 55) non ha alcun
fondamento. I denti d’oro venivano estratti ai cadaveri e il gabinetto dentistico
(Zahnstation), che si trovava nel Block 15 ed operava sotto la
supervisione delle SS, non fu chiuso.
Elie Wiesel espone poi questa narrazione riguardo a un detenuto
“selezionato” per le “camere a gas”:

«Quando
arrivò la selezione era già condannato e non fece altro che offrire il suo
collo al boia. Ci chiese soltanto: “Fra tre giorni non ci sarò più… Dite il
Kaddish per me”. Noi glielo promettemmo: fra tre giorni, vedendo alzarsi il
fumo dal camino
, avremmo pensato a lui, avremmo raccolto dieci uomini e
avremmo fatto una funzione speciale. […]. Allora se ne andò, nella direzione
dell’ospedale con un passo quasi sicuro, senza guardarsi indietro. Un’ambulanza
lo aspettava per portarlo a Birkenau
»(p. 78)[Corsivo mio].

Il nostro “testimone oculare” o aveva dimenticato che doveva trovarsi
al campo di Monowitz, dove non esisteva alcun crematorio, oppure aveva una
vista tanto acuta da riuscire a vedere il fumo “del camino” (uno dei sei, a
scelta) di Birkenau, cosa un po’ improbabile, perché i due campi distavano in
linea d’aria circa 5 chilometri e in mezzo c’era la città di Auschwitz.
D’altra parte,
scomodare un’ambulanza per trasportare un detenuto alla “gasazione”, questo sì
che era una vera “Sonderbehandlung”, un “trattamento speciale”!

In fatto di “selezioni”,
Elie Wiesel afferma che ad una di esse era presente «il famoso dottor
Mengele»(p. 73), che, essendo Lagerarzt del campo zingari (BIIe) di
Birkenau, aveva ben altro da fare che andare a Monowitz a effettuare
“selezioni”. Questo è l’unico medico menzionato da Eli Wiesel, che lo avrebbe
anche accolto a Birkenau (p. 37), appunto perché era «famoso», anche tra coloro
che non avevano mai messo piede ad Auschwitz.

Il nostro
“testimone oculare” si concede persino un particolare verificabile: un attacco
aereo alleato.

Esso avvenne «una
domenica»; il giorno lo ricordava bene, perché ne approfittò «per dormire fino
a tardi»(p. 61). «Il bombardamento durò più di un’ora»(p. 63). Il commento di
Elie Wiesel: «Vedere la fabbrica consumarsi nell’incendio, che vendetta!
»(p. 62)[corsivo mio].

Il bombardamento
avvenne il 13 settembre 1944, che era un mercoledì, durò 13 minuti, dalle 11.17
alle 11.30 e distrusse solo una parte degli impianti. A Monowitz non c’era
infatti «la fabbrica», ma decine e decine di impianti.

Sorvoliamo su
altre scempiaggini minori, come la pena di morte comminata «in nome di
Himmler»!(p. 64) e passiamo al suo ricovero all’ospedale del campo
(probabilmente ispirato da quello di Primo Levi). Ciò avvenne «verso la metà di
gennaio», quando gli si gonfiò il piede destro a causa del freddo e fu
necessario un intervento chirurgico. Egli fu dunque ricoverato all’ospedale e
non gli sfuggì che «era molto piccolo»(p. 79). Infatti era costituito da appena
9 blochi, 2 di convalescenza (13 e 22), 2 di chirurgia (14 e 16), 1 di medicina
interna con gabinetto dentistico (15), 2 di medicina interna (17 e 19), 1 con
ambulatorio e ufficio degli scrivani (18) e 1 per malattie infettive. 

g)     
Il trasferimento a Buchenwald

Alla decisione di Elie Wiesel di partire con i Tedeschi e di non
aspettare i Sovietici non bisogna attribuire un qualche significato
particolare, perché, nel suo contesto letterario, è psicologicamente
giustificata dal timore (ingiustificato) che tutti coloro che fossero rimasti
al campo sarebbero stati fucilati.
Tralascio tutte le
peripezie della marcia di evacuazione e del trasporto in treno e passo subito
all’arrivo a Buchenwald. Da tener presente solo la durata del viaggio: 3 giorni
di sosta a Gleiwitz (p. 94), più un giorno per arrivarvi a piedi da Monowitz,
«dieci giorni e dieci notti di viaggio»(p. 97) in treno, in totale 14 giorni.
Riguardo a Buchenwald identica non-descrizione: impossibile identificare una
qualunque parte del campo. Egli parla di docce (p. 105) ma evita accuratamente
di menzionare la procedura di immatricolazione. Abbiamo visto sopra che Miklós Grüner e
Lázár Wiesel, i quali a Buchenwald ci andarono davvero, ricevettero
rispettivamente il numero di matricola 120762 e 123565.

Se Elie Wiesel avesse menzionato questo fatto ovvio,
l’immatricolazione, avrebbe dovuto render conto di due numeri di
matricola. Cosa ancora più gravosa per lui, perché nello schedario dei detenuti
di Buchenwald un Eli (o Eliezer) Wiesel non compare affatto.

Esaminiamo infine
se il suo racconto dell’arrivo a Buchenwald è conforme ai documenti.

Egli afferma che
andò alla doccia «il terzo giorno dopo il nostro arrivo a Buchenwald»(p. 105),
che era «il 28 gennaio 1945»(p. 108), sicché partì da Monowitz l’11 gennaio e
arrivò a Buchenwald il 25. Nel gennaio 1945 dal complesso Auschwitz-Birkenau
arrivarono a Buchenwald tre convogli di deportati[37]:
 

Data di partenza
Data di arrivo
Numeri di matricola
Numero detenuti
18 gennaio
22 gennaio
117195-119418
2.224
18 gennaio
23 gennaio
119419-120337
919
18 gennaio
26 gennaio
120348-124274
3.927

Nessun trasporto
partì l’11 gennaio, nessuno impiegò più di 8 giorni. Quello arrivato il 26
gennaio portò sia  Lázár Wiesel, sia
Miklós Grüner, come risulta dai loro rispettivi numeri di matricola 120762 e
123565.
 
Come ho accennato sopra, il testo originario in jiddisch
da cui Eli Wiesel ha tratto il capitolo VII del suo libro (il racconto del
viaggio da Gleiwitz a Buchenwald) è stato tradotto in inglese da Moshe Spiegel
col titolo “The Death Train[38].
I due testi sono molto simili, ma nel primo il numero dei detenuti caricati nel
vagone di Elie Wiesel non è di 100 (p. 101), ma di 120[39].
Inoltre qui egli menziona anche il numero dei vagoni: 25[40].
Il numero dei detenuti del suo vagone arrivati vivi a Buchenwald è invece
identico: 12 (p. 101)[41].
Perciò in questo vagone si sarebbe verificata una mortalità dell’ 88% o del
90%. Ma anche l’intero convoglio avrebbe pagato un alto tributo di morti:

«Il viaggio durò dieci
interminabili giorni e notti. Ogni giorno reclamò la sua quota di vittime e
ogni notte pagò il suo omaggio all’Angelo della Morte»[42].

Il giorno dell’arrivo a Buchenwald ci furono 40 morti[43].

Nei vagoni sarebbero stati caricati (25 x 100 ÷ 120 =)
2.500 ÷ 3.000 detenuti,  di cui la
maggioranza sarebbe morta durante il viaggio.

Si sa però che il trasporto che giunse a Buchenwald il
26 gennaio 1945 contava alla partenza, secondo la lista nominativa dei
deportati, 3987 detenuti[44];
se a Buchenwald ne furono immatricolati 3.927, significa che vi furono 60 decessi, l’1,5%.

Da
tutti i dati esposti sopra risulta pertanto che il racconto del viaggio da
Gleiwitz a Buchenwald non può essere veritiero. 

Concludendo, Elie Wiesel non è mai stato internato né a Birkenau, né ad
Auschwitz, né a Monowitz, né a Buchenwald.

Per quanto riguarda
suo padre Shlomo, il suo nome[45] appare nel Central
Database of Shoah Victims’ Name
[46]
dello Yad Vashem, ma queste informazioni sono state trasmesse in data 8
ottobre 2004 da Eli Wiesel stesso! 

Un’ultima osservazione. Si sostiene che la presenza di Elie Wiesel a
Buchenwald sarebbe attestata da una fotografia che ritrae un gruppo di detenuti
di questo campo:

«Foto
di Harry Miller di lavoratori schiavi al campo di concentramento di Buchenwald
dopo l’arrivo al campo delle truppe statunitensi dell’80a divisione. Scattata
il 16 aprile 1945. Miklos Grüner (numero di matricola 120762) è in basso a
sinistra, Eli Wiesel (numero di matricola 123565) è nella fila sopra, vicino al
terzo travicello da sinistra»[47].

Tuttavia il fatto
che il volto della persona ritratta nella fotografia fosse quello di Eli Wiesel
si basa soltanto su una sua dichiarazione, su un suo sedicente
auto-riconoscimento. Quanto al “suo” numero di matricola – 123565 – , esso
apparteneva  a Lázár Wiesel! 

Impostura e falsa testimonianza: Elie Wiesel è
proprio «un
personaggio eccezionale», il simbolo vivente
dell’ “Olocausto”. E chi lo esalta come «personaggio
eccezionale» è degno del suo sublime «magistero morale».

 

                                                                                               
    Carlo Mattogno

  

3
febbraio 2010

[2] Még mindig kísérti a
haláltábor

(Il campo di sterminio continua a tentare ancora), in:
[3] Auschwitz Survivor Claims Elie Wiesel is an Impostor, in:
[6] NARA,
A 3355, RG 242.
[7] Idem.
[9] YIVO
Institute for Jewish Research, New York, 1962.
[10]
François Mauriac, il prefatore del libro di Eli Wiesel.
[11] Michael Wiesberg, Unversöhnlich – Elie Wiesel zum 80. In: Grundlagen, Sezession 25, agosto 2008, p. 25.
 
[12]
Giuntina, Firenze, 1986.
[13] In: R. Faurisson, Écrits
Révisionnistes (1974-1998),
vol. II, De 1984 à 1989. Édition privée
hors-commerce., 1999, pp. 606-610. In rete: http://www.vho.org/aaargh/fran/archFaur/1986-1990/RF861017.html
(francese);  http://www.ihr.org/leaflets/wiesel.shtml
(inglese).
[14] Elie
Wiesel: la donnola travestiata da agnello
, in:  https://www.andreacarancini.it/2010/01/elie-wiesel-la-donnola-travestita-da/
[16] Liste der Judentransporte, Museo di Auschwitz-Birkenau, microfilm n. 727/27.
[17]
R.L. Braham, A Magyar Holocaust. Gondolat Budapest-Blackburn
International Incorporation Wilmington, 1988, p. 514
[18] L’Album
d’Auschwitz
. Édition du Suil,
Parigi, 1983.
[19]
Questi impianti sono stati ben descritti da Jean-Claude Pressac in: Auschwitz:
Technique and Operation of the Gas Chambers
. The Beate Klarsfeld Foundation, New York, 1989,
pp. 53-85.
[20] Auschwitz. Il campo
nazista della morte.
Edizioni del Museo Statale di
Auschwitz-Birkenau
, 1997, p. 122
[21] Thomas Grotum, Jan Parcer, «EDV-gestützte
Auswertung der Sterbeeinträge», in: Sterbebücher von Auschwirt. A
cura del Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau. K.G. Saur, Monaco, New
Providence, Londra, Parigi, 1995, vol. 1, 
p. 248.
[22] R.J. van Pelt, The Case for
Auschwitz. Evidence from the Irving Trial,
op. cit., p. 504.
[23] «Verbrennungsexperimente mit
Tierfleisch und Tierfett. Zur Frage der Grubenverbrennungen  in den angeblichen Vernichtungslagern des 3.
Reiches», in:  Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung, anno
7, n. 2, luglio 2003,   pp. 185-194.
 
[24] Ma
nessuna fotografia aerea attesta la presenza di fumo in quest’area.
[25] Theses & Dissertations Press,
Chicago.
[26] Vedi
al riguardo il mio studio Le camere a gas
di Auschwitz. Studio storico-tecnico sugli “indizi criminali” di Jean-Claude
Pressac e sulla “convergenza di prove” di Robert Jan van Pelt
. Effepi, Genova, 2009, p. 552.
 
[27] Auschwitz.
Il campo nazista della morte
, op. cit., p. 52.
[28]
Idem, p. 54.
[29] D. Czech, Kalendarium der Ereignisse
im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945
. Rowohlt Verlag,
Reinbek bei Hamburg, 1989,  p. 821.
[30]
Tranne quello relativo alla baracca dell’orchestra del campo.
[31] P.
Levi, Se questo è un uomo. Einaudi, Torino, 1984, pp. 35-36.
[33] P.
Levi, Se questo è un uomo, op. cit., p. 44.
[34]
Idem, p. 70.
[35]
Idem, p. 160.
[36] Il
blocco dell’orchestra era al di fuori della numerazione delle baracche del
campo, che andava da 1 a 60.
[37] Het Nederlandsche Roode Kruis, Auschwitz,
Deel VI, ‘s-Gravenhage, 1952, p. 39.
[38] In: Anthology of Holocaust
Literature
, a cura di Jacob Glatstein, Israel Knox e Samuel Margoshes. A
Temple Book, Atheneum, New York, 1968, pp. 3-10.
[39]
Idem, p. 10.
[40]
Idem, p. 9.
[41]
Idem, p. 10.
[42] Idem, p. 5.
[43] Idem, p. 10.
[44] Andrzej Strzelecki, Endphase des KL
Auschwitz
. Verlag Staatliches Museum in Oświęcim-Brzezinka, 1995, pp.
338-229. Riproduzione di due pagine della lista del trasporto originale.
[45]
Vi figura come Shlomo Vizel, figlio di Eliezer e di Nisel, nato a Sighet e
morto a Buchenwald il 27 gennaio 1945. L’anno di nascita non è indicato.
2 Comments
  1. p.s.
    le tabelle non vengono bene nel formato blog. per vederle bene guardatele qui
    http://ita.vho.org/056_Elie_Wiesel.htm

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