Andrea Giacobazzi: Lo smarrimento di David: rabbinato, antisemitismo e storia ebraica

Andrea Giacobazzi: Lo smarrimento di David: rabbinato, antisemitismo e storia ebraica

Lo smarrimento di David:

rabbinato, antisemitismo e storia
ebraica

(con qualche riferimento
cinematografico)

Di Andrea Giacobazzi

“Si deve pertanto dedurre che le cause
generali dell’antisemitismo siano sempre state insite nello stesso Israele e
non nei popoli che lo combatterono. […] Con questo non vogliamo affatto
affermare che i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro
parte, né che non si abbandonarono agli eccessi propri dell’odio violento,
semplicemente vogliamo dire che in linea di massima e almeno in parte, gli
Ebrei stessi furono la causa dei loro mali”
[1].

Questa
dichiarazione del 1894 appartiene al celebre scrittore “ebreo nazionalista,
libertario internazionalista, pro-sionista” Bernard Lazare[2].
Risulta difficile non farsi interrogare circa i risvolti teologici, politici e
storici che queste frasi implicano. Quale fondamento riconoscere alla “minaccia
antisemitismo” che si sente spesso lanciare anche ai giorni nostri? Come si è declinato
nella storia il carattere problematico del rapporto tra israeliti e
non-israeliti? Quale ruolo ha avuto il rabbinato nella progressiva “chiusura”
che ha portato gli ebrei, da popolo orientato al proselitismo a diventare ciò
che conosciamo oggi?

1. “La pietra che i costruttori
hanno scartata è diventata testata d’angolo”

“Ma
quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite,
uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. E, presolo, lo cacciarono fuori della
vigna e l’uccisero”[3].

Con queste parole, Gesù stesso, parlò ai sommi sacerdoti e agli anziani del
popolo; non mancò d’aggiungere: “Perciò
io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà
fruttificare”
[4].

Nel
tentativo di dare una risposta, almeno parziale, alle domande appena poste è
necessario comprendere uno dei passaggi fondamentali della storia ebraica,
ovvero il mancato riconoscimento del Messia, messo in croce sotto Ponzio
Pilato. Le cause della non accoglienza di Cristo, in parte, ne hanno preceduto
la venuta: già nell’Antico Testamento il popolo d’Israele, sebbene eletto,
viene chiamato da Dio stesso “popolo
di dura cervice”[5]
.

Questo
irrigidimento presente in nuce, ebbe
modo di svilupparsi durante i secoli successivi. Eventi traumatici come la
schiavitù babilonese (586 a. C. circa) provocarono, nel seno d’Israele,
un’immensa perturbazione e la tradizione cabalistica ortodossa finì col cadere
nell’oblio[6].
Più tardi, quando i tempi si compirono, la colpevolezza dei dottori della
sinagoga consistette nel nascondere al popolo la chiave della scienza per la
quale Israele avrebbe riconosciuto il Messia[7].
Bernard Lazare aggiunge che prima della nascita di Cristo, “quando la
nazionalità ebraica si trovò in pericolo, sotto Giovanni Ircano, si videro i
farisei dichiarare impuro il suolo dei popoli stranieri, impure le relazioni
tra ebrei e greci”[8].

La
mutazione della Tradizione che offuscò la capacità di incontrare pienamente il
Messia venne denunciata in modo inequivocabile da Santi dottori e Padri della
Chiesa. Sant’Epifanio parla di “tradizioni falsificate dai farisei”, San Beda
di una “tradizione tutta umana e superstiziosa”, Sant’Ilario di Poitiers
attacca la “tradizione umana, in nome della quale scribi e farisei hanno
trasgredito i precetti della Legge Mosaica”[9].
Lo stesso Gesù discutendo con i farisei non mancò di chiedere: “Perché voi
trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione?”[10].

Dopo
le Resurrezione di Cristo ebbe luogo un’ulteriore radicalizzazione: la presa di
Gerusalemme da parte dei Romani nel 70 d. C. – e con essa la distruzione del
Tempio, luogo per eccellenza in cui venivano praticati i sacrifici – portò
alcuni ebrei alla sfiducia e persino alla rivolta contro il “silenzio di JHWH
[Dio]” che, a loro avviso, non aveva salvato il suo popolo[11].
Verso gli ultimi tempi della città, il culto fu invaso dal fariseismo e si rese
chiaro quanto “l’impuro miscuglio”[12]
qui esposto stesse contaminando la retta Tradizione.
Il sommo sacerdote Caifa e Gesù
 
2. La strutturazione dell’isolamento

Va
chiarito: nonostante le deformazioni descritte, in tempi ormai lontani, la
discendenza di sangue non ebbe per gli ebrei lo stesso peso che ha avuto in
seguito. Il popolo israelitico non mancò di dar luogo ad un consistente
proselitismo i cui esempi storici sono molteplici: si pensi che nel VI secolo
d.C. lo Yemen era quasi interamente ebraico[13]
e non pochi furono i conflitti, nell’area mediterranea, tra la l’opera di
propagazione della Fede cristiana e la controparte ebraica.

Shlomo
Sand, sintetizzando lo stato del proselitismo giudaico prima del consolidamento
definitivo del cristianesimo, ci dice che gli ebrei portarono avanti la loro
azione anche in zone ancora non coinvolte dal “dilagare del
monoteismo”: “Dalla penisola arabica fino alle terre slave, dai monti
del Caucaso alle pianure tra il Volga e il Don, dalle zone attorno all’antica
Cartagine distrutta e ricostruita, fino alla penisola iberica premusulmana, la
religione ebraica non cessò di fare proseliti, garantendosi una sorprendente
continuità storica”[14].

Risulta
curioso notare, a fianco di queste riflessioni storiche, come ai giorni nostri
non manchino casi di popoli per i quali si sospetta una lontana origine ebraica,
magari attribuibile alle dieci tribù disperse. Il caso più discusso è quello dei
pashtun (distribuiti principalmente tra Afghanistan e Pakistan), che paiono
aver ereditato non pochi elementi della tradizione ebraica[15]
e che, pur essendo islamici sunniti, si compiacciono di far risalire le loro
origini all’Israele veterotestamentario. Vi sono narrazioni locali che rivelano
la consapevolezza dell’esistenza del Tempio di Salomone, così come la sua
distruzione e l’esilio babilonese che seguì[16].
Sarebbe quantomeno singolare notare una maggiore presenza di discendenti
dell’antico Israele tra certi gruppi di talebani che non in determinate
comunità ebraiche ortodosse. Analogamente, è difficile non fare cenno delle
convinzioni di Ben Gurion sull’origine dei palestinesi: “Non c’è dubbio
che nelle loro vene scorra molto sangue ebraico, sangue di quegli ebrei che, in
tempi difficili, preferirono ricusare la propria fede, pur di conservare la
loro terra”[17].

Come
accennato, la chiusura del giudaismo in se stesso, fu progressiva. Sand
individua un passaggio cruciale nella cristianizzazione dell’Impero Romano:
“Il trionfo definitivo del cristianesimo all’inizio del quarto secolo segnò
la fine del fervore missionario nei principali centri culturali facendo nascere
probabilmente il desiderio di rimuovere completamente le tracce della storia
ebraica”[18].

Se
non vi fosse stato chi tra gli israeliti tratteneva “la massa degli ebrei
nei lacci delle strette osservanze e delle rigide pratiche rituali” –
sostiene Lazare –  “il vero
mosaismo, purificato e reso più grande da Isaia, Geremia e Ezechiele, diffuso
ovunque universalmente ancora dai giudeo-ellenisti, avrebbe portato Israele al
Cristianesimo”[19].
Per custodire il popolo i dottori “esaltarono la loro legge al di sopra di
ogni cosa, dichiararono che l’israelita doveva amare
soltanto lo studio della legge […] e proibirono lo studio delle scienze
profane e delle lingue straniere”[20].

Già
nella stesura del Talmud (esistono due versioni: Babilonese, III-V sec.;
Gerosolimitano, IV-V sec.) il tema del proselitismo è trattato in modo non
lineare e con affermazioni controverse, ma il percorso dell’autoisolamento
ebraico pare raggiungere il vero punto di svolta con il XIV secolo, dopo che
l’assemblea dei rabbini di Barcellona[21]
scomunicò chi si fosse occupato di scienza profana[22]:
dopo che R. Schalem di Montpellier ebbe denunciato il More Nebuchim[23], i rabbini
trionfarono e così facendo – volendo citare ancora le parole di Lazare – avevano
“tagliato Israele fuori dalla comunità dei popoli, ne avevano fatto un
solitario scontroso, ribelle a qualsiasi legge, ostile a qualsiasi sentimento
di fratellanza, chiuso a qualsiasi idea bella, nobile e generosa; ne avevano
fatto una nazione miserabile e meschina, inacidita dall’isolamento e corrotta
da un ingiustificabile orgoglio”[24].

Parlando
del cuore del giudaismo aschenazita, il filosofo tedesco di origine ebraica
Solomon Maimon sembra confermare, con parole certamente ruvide, il pensiero
dello scrittore francese: “Conobbi bene il dispotismo rabbinico che,
grazie al potere della superstizione, aveva stabilito da molti secoli il suo
trono in Polonia e che per propria sicurezza aveva cercato in tutti i modi di
prevenire la diffusione della luce e della verità. E come la teocrazia ebraica
fosse strettamente collegata all’esistenza nazionale, l’abolizione della prima
avrebbe portato all’annichilimento della seconda”[25].
Shulchan Aruch: testo sapienzale rabbinico
 
3. Prime conferme cinematografiche: A Serious Man

Facile
immaginare in questo contesto l’impatto esplosivo dell’emancipazione moderna e
dell’apertura dei ghetti. Il decreto francese del 1791, “poteva dar loro
la libertà, abolire in un sol giorno l’opera legislativa di secoli” ma
“non poteva disfarne l’azione morale ed era soprattutto impotente a
spezzare le catene che gli ebrei stessi si erano forgiate”[26].
Se da un lato non mancarono i refrattari, il progressivo dilagare
dell’assimilazione pose un problema imprescindibile all’identità ebraica. Il
sionismo fu, per certi aspetti, un tentativo di risposta, una reazione estrema
alla dispersione degli ebrei, una riedizione – moderna, secolare e talvolta con
accenti völkisch
dell’isolamento di cui abbiamo parlato: si pensi, ad esempio, alle parole del
dirigente Max Nordau sul valore del ghetto[27]
o all’atteggiamento generale del movimento riguardo la naturalezza
dell’antisemitismo[28].

Della
“prevenzione della diffusione della
luce”
appena descritta – e più in generale di una certa autoreferenzialità
teologica – si trova una descrizione curiosa e attuale nella pellicola A Serious Man (2009) dei fratelli Coen.
Nel film, come nota Eugene Michael Jones, si espone la radicale
inerzia rabbinica e la conseguente incapacità di dare spiegazione alla
sofferenza, alla presenza del male e agli eventi più importanti della vita di
un uomo[29].
Larry Gopnik, il protagonista, passerà buona parte del tempo a vagare tra un
rabbino e l’altro in cerca di risposte che non arrivano. Nonostante sia diretto
dalla celebre coppia di fratelli ebrei, Jones definisce A Serious Man come il più antiebraico dei film che Hollywood abbia
mai prodotto. Al suo confronto “Jud Suess
(pellicola di propaganda nazionalsocialista) sembra Fiddler on the Roof”[30]. Il film forse
inizia con un rabbinicidio. “Forse” perché ciò che è narrato nelle prime
scene pare totalmente decontestualizzato in termini di tempo e di spazio: è una
storiella yiddish creata dai registi
e ambientata in uno shtetl[31] dell’Europa
orientale. Un uomo con le sembianze di un famoso rabbino viene portato a casa
da un uomo, comunicata la gradita presenza dell’ospite alla moglie, questa – in
linea con la superstizione – dice che il rabbino è morto e fuori dalla porta
non può che esservi un dybbuk[32]. Dopo averlo fatto accomodare, i tre
discutono insieme della cosa, il marito dice all’anziano “ovviamente non credo a queste cose, sono una
persona razionale”
ma la donna trafigge il cuore dell’ospite con un rompighiaccio:
questi ride istericamente e, capendo di non essere gradito, si trascina
sanguinante fuori dalla porta. Il marito esclama disperato: “Siamo rovinati, domani scopriranno il corpo“.
Larry Gopnik, protagonista di “A Serious Man”
 
Se
da un lato questa inerzia (e superstizione) tradizionale pareva condizionare
pesantemente la vita ebraica, dall’altro – come accennato – l’apertura al mondo
non era di minore complessità. Con il “rischio” dell’assimilazione una
valanga di dubbi si riversò sul dibattito riguardante ciò che l’ebreo
“sciolto” in una società cristiana avrebbe potuto o voluto essere. Pensiamo
all’interpretazione che ne diede Woody Allen nel suo Zelig (in yiddish: “benedetto”),
in cui il protagonista assume immediatamente e patologicamente le sembianze
tipiche del gruppo umano in cui è inserito. Un camaleontismo estremo che
porterà Leonard Zelig a comparire addirittura alle spalle di Hitler durante
un’adunata nazionalsocialista. Maurizio Cabona la inquadra come descrizione
della condizione ebraica tra “assimilazione fino
all’estinzione e contrapposizione fino alla persecuzione”[33].
La locandina di “Zelig”
 
4. Antisemitismo immaginario e anti-antisemitismo

Spiegate
alcune delle ragioni (contaminazione della Tradizione, diffusione del
Fariseismo et cetera) per cui
l’ebraismo ha “sbagliato strada” non seguendo il Messia che gli era stato
inviato, chiarito che questo errore avrebbe portato, oltre a “perdere il Regno
di Dio”, a proseguire nell’inevitabile cammino dell’autoisolamento, risulta
necessario comprendere come questi elementi – sommati ad una certa avversione rispetto
ai gentili – avrebbero prodotto una polarizzazione tale da generare, in epoca
contemporanea, una sorta di ossessione per l’antisemitismo. Questo fatto è in
parte leggibile come proiezione sui non-ebrei di un’ostilità verso l’esterno
propria dello stesso giudaismo e, di conseguenza, come un collante interno –
sociale ed ideologico – utilizzabile a fini politici. Un collante che, come
vedremo, finirà per essere non solo un espediente momentaneo ma,
paradossalmente, un “ingrediente” dell’identità ebraica dei nostri tempi, in
particolare tra gli israeliti non praticanti e in campo sionista.

Gli
ebrei religiosi della diaspora, pur restando fedeli allo spirito talmudico, paiono
avere una percezione sociale dell’antisemitismo meno ansiosa, le loro
caratteristiche identitarie non sembrano aver così tanto bisogno (a differenza
dei non religiosi) di un nemico visibile che cementi continuamente la coesione
interna. In alcune interviste filmate questo dato emerge in modo chiaro. Una
coppia di esponenti dell’Anti Defamation
League
(potente organizzazione pro-sionista che “combatte l’antisemitismo”)
ha sostenuto: “L’ADL aiuta a rinforzare
la nostra identità ebraica, perché non siamo ortodossi e non abbiamo una vita
religiosa ebraica, l’ADL ci dà uno spazio per essere ebrei, intendo ebrei al
99,9%”
. Dal canto suo, Rabbi Hecht di Brooklyn è arrivato ad affermare: “Ragazzi, lasciate che ve lo dica, sono
diffidente quando una persona si guadagna da vivere con situazioni particolari.
Quindi se c’è un particolare cast cinematografico che si guadagna da vivere col
sangue, mi insospettisco ogni volta che questi mi mostrano del sangue. […]”
.
Pur non volendo attaccare direttamente l’organizzazione, ha aggiunto in
seguito: “L’ADL sotto alcuni aspetti è
decisamente responsabile di aver creato problemi più che averli risolti”
[34].

Sul
rapporto sionismo-antisemitismo, Vincenzo Pinto ci presenta una riflessione di
sicura importanza, in particolare se si considera che proviene da ambienti non
solo privi di caratterizzazioni antisioniste ma anche prossimi al cosiddetto establishment:

            […] Nel 1995 Anita Shapira, uno
dei più noti studiosi israeliani appartenenti alla cosiddetta             “storiografia dell’establishment”,
ha posto lucidamente la vessata questione: in che misura il             sionismo ha saputo puntellare la sua
costruzione identitaria su di un principio negativo (come             l’antisemitismo) rispetto a uno
positivo (come la rinascita nazionale ebraica)? Paragonato ad altri    responsi ebraici all’antisemitismo
(l’umanesimo liberale, il bundismo, l’ebraismo riformato),             «l’unicità
del sionismo sta nell’aver accettato l’assunto basilare antisemita che gli
ebrei             costituissero un “corpo
estraneo” nella fabbrica nazionale dei popoli europei – un corpo che non             poteva mai assimilarsi. […] Un
velo è sollevato dai loro occhi, ed essi [i sionisti] possono parlare             onestamente e apertamente dei
difetti e delle debolezze ebraici. Questo era un candore che gli ebrei   non avevano potuto permettersi finché essi
credevano ancora che il problema ebraico avrebbe             potuto un giorno essere risolto entro la struttura delle
nazioni europee»
[35].

Non
solo una semplice accettazione. Alcuni esempi lampanti dell’assunzione e della conseguente
manifestazione di elementi tipici della critica antiebraica da parte della
cultura sionista sono stati evidenziati magistralmente nel documentario Defamation del regista israeliano Yoav
Shamir, la pellicola fu Best Documentary
Feature Film
nell’edizione 2009 dell’Asia
Pacific Screen Awards.
Shamir, intervistando sua nonna (un’ebrea russa la
cui famiglia, di forti convinzioni sioniste, si stabilì in Palestina nel XIX
secolo), dipinge un quadro in cui una determinata weltanshauung emerge nella sua più pura genunità:

“Dicono che è pieno di antisemiti
lì fuori”
,
risposta dell’anziana signora: “Dove?
All’estero? Allora perché non vengono qui [in Israele]? […] Stanno aspettando
di essere uccisi?”
. Domanda del regista: “Perché non vengono?”, risposta: “Beh loro amano i soldi, gli ebrei amano i soldi, gli ebrei sono
mascalzoni (crooks) […]. Perché dovrebbero venire qui e lavorare per
guadagnare soldi, se possono fare i soldi senza lavorare?”
. Nuova
domanda: “Non lavorano lì?”,
risposta: “Non lavorano, è ciò che
sto dicendo”
. Yoav Shamir: “Come
fanno ad avere soldi se non lavorano?”
, “Con gli interessi, prestano soldi con interessi alti.. vendono
liquori..vino, gli ebrei conoscono questo lavoro discutibile (monkey business)[…].
Credimi io sono una vera ebrea, il denaro non mi acceca […]”
. “Ma tu parli come un’antisemita,
dicendo che gli ebrei non lavorano, ecc..”
. Risposta: “No, niente affatto, se vogliono stare
all’estero, stanno forse aspettando l’arrivo di un altro Hitler che li
stermini”.

L’inizio
del documentario è forse ancora più eloquente: scorrono le immagini di diversi
quotidiani israeliani e la voce di Shamir afferma: “Tre parole sembrano apparire in continuazione: olocausto,
nazista, antisemitismo. Vivendo in un paese che fu fondato per dare agli ebrei
un posto sicuro in cui stare, ho trovato tutto questo sconvolgente”.
Questa
ossessione dell’antisemitismo viene riproposta in tutto il film, con
particolare riferimento ai viaggi della memoria in cui i giovani israeliani
sono catechizzati alla diffidenza verso i non-ebrei e al culto del passato.
Yoav Shamir, regista di “Defamation”, in una delle scene del film
 
5.
The Believer
: “Agli ebrei piace separare le cose”

Se
il cinema ebraico può essere utile per spiegare o completare determinati passaggi
di questo testo, c’è una pellicola – sebbene complessivamente caratterizzata da
un sentimento tutt’altro che religioso – che, in alcune sue parti, pare
compendiare molti aspetti analizzati: The
Believer
di Henry Bean[36].
Il film è la storia di Daniel Balint, un giovane skinhead neonazista che già nelle prime scene mostra la sua rabbia
scendendo da un bus insieme a un ebreo colpito con calci e pugni pochi minuti
dopo. Il ragazzo si farà strada nell’ambito dell’estremismo politico
propugnando concetti razzisti e predicando la necessità di compiere omicidi e
violenze contro gli israeliti. Daniel però viene da una famiglia ebraica e ha
studiato in scuole ebraiche: sulla conflittualità derivante da questo dualismo
si fonda lo sviluppo della narrazione: il protagonista non è affatto uno stupido
e conosce in modo approfondito il giudaismo per il quale nutre sentimenti
controversi, al punto da far sospettare un suo tormentato “riavvicinamento”
alla cultura (più che alla religione) d’origine.
Locandina di “The Believer”
 
Focalizziamo
ora l’attenzione su alcune scene che toccano i temi affrontati, ad esempio la
deformazione della Tradizione, l’autoisolamento e il tema dell’antisemitismo.
Ad un certo punto il protagonista e il suo gruppo skinhead vanno provocatoriamente a mangiare in un ristorante
ebraico per irridere certa precettistica rabbinica, di fronte all’insistenza
dei ragazzi per avere un piatto che unisca carne e formaggio (incompatibile con
i precetti della cucina kasher), il cameriere risponde: “Siamo un ristorante kasher, non serviamo carne insieme al formaggio”.
Allora domandano: “E insieme al pollo?”.
Il cameriere: “E’ carne anche il pollo”.
Interviene Daniel: “La Bibbia veramente
dice di non cuocere un capretto nel latte della madre ma una gallina non dà
latte”
. Il cameriere li invita ad andare alla pizzeria di fronte per
soddisfare la loro voglia di formaggio ma Daniel con tono arrogante risponde: “Ok, ma vorrai ammettere che è stupido. Hai
mai munto una gallina?”
, “No, non
voglio ammettere che è stupido”
. Ancora Daniel: “Puoi mangiare il pollo con le uova ma non con il latte, per quale
motivo?”
. Viene chiamato l’altro cameriere che si presenta con un bastone e
scoppia una rissa.

Daniel
inizia una relazione con Carla – una giovane argentina – che a sua volta si
incuriosisce sempre di più dell’ebraismo. Insieme in camera, di fronte ai
rotoli della Torah che aveva rubato in una incursione in sinagoga, Daniel la
esorta, per rispetto, a non stare nuda “lì davanti” e le lancia un vestito: lei
non capisce. I due iniziano a parlare e il protagonista spiega: “Agli ebrei piace separare le cose: il sacro
dal profano, la carne dal latte, la lana dal lino, lo shabbat dagli altri
giorni, l’ebreo dal gentile, è come se un pezzo dell’uno potesse contaminare
irrimediabilmente l’altro”
. “Chi è il
contaminato? L’ebreo oppure il gentile?”
chiede Carla, “Bella domanda” risponde Daniel.

Un
ulteriore dialogo con Carla pare ancora più interessante. Lei, continuando la
sua esplorazione, arriva a sostenere che “nell’ebraismo
non c’è niente”
e Daniel va oltre:
“Il nulla senza fine, l’ebraismo non si fonda sul credere ma sul fare delle
cose, osservare lo shabbat, accendere le candele, visitare gli ammalati”
.
Chiede Carla: “E ne deriva il credere?”.
Daniel: “Non ne deriva niente […]”.
La discussione continua con la ragazza che dice: “L’ebraismo non ha bisogno di un dio, la Torah, è quello il vostro dio,
il libro è chiuso”
.

Altra
scena: Daniel si reca in sinagoga invitato da una coppia di amici ebrei, appena
arriva inizia a litigare col suo vecchio compagno di scuola Avi. Parlano di sionismo
e nazismo, politica del Vicino Oriente, Sabra e Shatila. Avi ad un certo punto sbotta:
“Perché per gli ebrei i metri di giudizio
sono sempre più rigorosi?”,
interviene una donna con la kippah: “Perché siamo il popolo eletto, non è vero Daniel?”, la discussione
si infiamma ulteriormente e Daniel afferma: “Leggete
i primi sionisti ed ebrei europei, vi assicuro che sembrano Goebbels”
, poi
aggiunge stizzito: “I nazisti facevano
quello che diceva Hitler e voi fate quello che dice la Torah o il rabbino!”
L’aleph che, nel diario di Daniel Balint, diventa una svastica
 
L’intervento
di Daniel che probabilmente è più significativo arriva verso la fine del film
quando, ad una riunione politica, parla del rapporto da tenere con gli ebrei. Sebbene
esagerato in diversi passaggi, è utile riportare alcuni estratti: “Sapete che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo
amarli! Che cosa? Ha detto di amare gli ebrei? È molto strano, lo so, ma con
quella gente niente è semplice. L’ebreo dice solo che vuole essere lasciato in
pace a studiare la sua Torah, fare qualche affaruccio […] ma non è vero, lui
vuole essere odiato, desidera ardentemente il nostro odio, ne ha un gran bisogno
come se ciò fosse insito nella propria natura, se Hitler non fosse esistito gli
ebrei l’avrebbero inventato […]”.
Certo, lo abbiamo detto: la forma, i toni
e il contesto – essendo determinati da esigenze cinematografiche – sono a volte
stridenti col messaggio lanciato ma un dato emerge in modo netto:
l’antisemitismo è spesso utilizzato come collante e “l’amore” può
essere un “pericolo” per la comunità. Daniel arriverà ad invitare non
solo ad amare ma ad “amare
sinceramente”
. Seppur rapidamente, sfiorerà un altro tema cruciale: il
rapporto tra persecuzione degli ebrei e la loro “deificazione”.

Su
quest’ultimo aspetto, e in particolare sulla trasformazione dei patimenti
ebraici durante il secondo conflitto mondiale in qualcosa di non molto
dissimile da una “religione misterica”[37]
scrisse – oltre un decennio fa – Peter Novik, parlando di una sostanziale
“sacralizzazione”. Gli ex deportati israeliti assumono così “il
privilegio all’autorità (sacerdotale) di interpretare il mistero”[38].
 Del resto, in campo rabbinico, non sono
mancati parallelismi improbabili, si pensi a Rabbi Ignaz Maybaum e ai paragoni
che fece con la crocifissione di Cristo[39].

6. Il profeta Natan e Re David:
conclusioni

Torniamo
all’amore (caritas) di cui parla
Daniel Balint. Abbiamo visto, fin dalle prime le righe, che lo sbaglio decisivo
di questo popolo fu non riconoscere il Messia e con esso l’Amore (Deus Caritas Est). Anche Re David per un certo tempo perse la giusta strada,
desiderò Betsabea (moglie di Uria l’Ittita), la ingravidò, fece morire il
guerriero per sposare la donna. Compì tutto questo ma, dopo essere stato
ammonito dal profeta Natan, si pentì ed espiò, poco dopo il figlio avuto con
Betsabea morì. A differenza di ciò che farà il suo popolo, David non permise
che il suo smarrimento lo portasse a ripiegarsi sui suoi errori ma decise di risollevarsi,
migliore di prima, tornando sulla retta via.

Comprendere
lo smarrimento di David significa comprendere una metafora fondamentale della
storia ebraica.  
Davide, Re e Santo
 

[1]
Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e
Cause
, CLS, 2000, p. 14 (edizione originale: Léon Chaillet éditeur, Paris, 1894).
[2] Michael Löwy, Jewish nationalism and libertarian internationalism in the writings of
Bernard Lazare
, in: M. Berkowitz, Nationalism,
Zionism and ethnic mobilization of the Jews in 1900 and beyond
, BRILL,
2004, p.  179. Bernard Lazare fu polemista,
critico letterario, giornalista. La definizione introduttiva che Michael Löwy
diede di Lazare nel saggio citato è: “a paradoxical figure: Jewish nationalist
and libertarian internationalist, pro-Zionist and anti-Theodor Herzl, an anarchist opponent of
the bourgeois Republic and a defender of captain Dreyfus, a ferocious critic of the Catholic Church whose greatest admirer was
the Catholic socialist Charles Peguy. He is what is called in Frech “inclassable”
[…]”
[3] Matteo 21, 38-39.
[4] Matteo 21, 43.
[5]
Esodo 32.
[6] Julio
Meinvielle, Influsso ebraico in ambiente
cristiano
, Roma, 1988, pp- 21.22; in: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006,
p. 33.
[7] Ibidem.
[8]
Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e
Cause
, CLS, 2000, p. 19.
[9]
Le citazioni riportate sono tratte da: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006,
p. 32.
[10]
Matteo 15, 3
[11]
R. M. Grant, La Gnose et les origines chrétiennes,
Seuil
, Paris, 1964; in: Curzio Nitoglia, Gnosi, Gnosticismo, Paganesimo e Giudaismo, Cavinato Editore, 2006,
p. 16.
[12]
Ibidem.
[13] Bernard
Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause,
CLS, 2000, p.  77.
[14] Shlomo
Sand, L’invenzione del popolo ebraico,
Rizzoli, 2010, p. 288.
 
[15]
Raffaele Picciotto, Ebrei afghani: sulle
tracce delle 10 tribù scomparse
, Mosaico, 7 giugno 2012. (

Ebrei afghani: sulle tracce delle 10 tribù scomparse


)

[16] Avrum M.
Ehrlich, Encyclopedia of the Jewish
Diaspora: Origins, Experiences, and Culture
, Volume 1, p. 85.

[17]
Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele,
Teti Editore, 2009, p. 54.
[18]
Shlomo Sand, L’invenzione del popolo
ebraico
, Rizzoli, 2010, p. 262.
[19]  Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause, CLS, 2000, p. 21.
[20] Ibidem.
[21] La Jewish
Encyclopedia
riferisce del decreto “signed by thirty-three rabbis of
Barcelona, excommunicating those who should, within the next fifty years, study
physics or metaphysics before their thirtieth year of age” [Isidore
Singer, Cyrus Adler, The Jewish
encyclopedia: a descriptive record of the history, religion, literature and
customs of the Jewish people from the earliest times to the present day
,
Funk and Wagnalls, 1925, p. 33.]
[22] Bernard
Lazare, L’Antisemitismo, Storia e Cause,
CLS, 2000, p. 22.
[23] Il
More Nebuchim è “La guida dei perplessi” di Maimonide, 1190.
[24] Ivi, p. 22.
[25] Solomon
Maimon, The Autobiography of Solomon
Maimon
(London: East and West Library, 1954), p. 135. Lazare sull’ebraismo polacco del XVII
secolo arriva ad affermare: “Dominati dai Talmudisti, non seppero produrre
null’altro che dei commentatori del Talmud”.
[26]
Bernard Lazare, L’Antisemitismo, Storia e
Cause
, CLS, 2000, p. 163.
[27]
Max Nordau ebbe modo di affermare: “Dove le autorità non lo confinavano in
un ghetto, là egli si erigeva da sé il suo ghetto. Voleva stare con i suoi e
non avere cogli abitanti cristiani altri rapporti che quelli del traffico.
Nella parola “ghetto” risuonano alcune lievi sfumature di vergogna e di
umiliazione. Ma l’etnologo e lo storico dei costumi riconoscono che il ghetto,
qualunque fosse l’intenzione dei popoli che lo istituirono, non era sentito
dagli ebrei del passato come una prigione ma come un luogo di rifugio. […] Nel
ghetto l’ebreo aveva il suo mondo, la sua casa sicura che aveva per lui il
significato spirituale e morale d’una patria. 
[…]  Tutti i costumi e le
abitudini ebraiche perseguivano inconsciamente una meta sola, quella di
conservare l’ebraismo, mediante la separazione dai popoli, di curare la
comunità ebraica, di tenere sempre presente al singolo ebreo ch’egli si sarebbe
perduto e sarebbe stato sommerso se avesse rinunciato al suo carattere
particolare”. (cfr.: Andrea Giacobazzi, L’asse Roma-Berlino-Tel Aviv, Il Cerchio, 2010).
[28]
Su questa insistenza il decano degli storici sionisti, Walter Laqueur, arrivò a
chiedersi se non si trattasse addirittura di ‘grist to the mill of Nazi
propaganda’ (cfr.: Walter Laqueur, A History of Zionism, p. 500).
[29] Eugene Michael Jones, Rabbinical Despotism, Culture Wars, June 2010.
[30]
Ibidem.
[31]
Insediamento con un’elevata percentuale di popolazione di religione ebraica.
[32]
Un’anima in grado di possedere gli esseri viventi:lo spirito di una persona
defunta al quale è stato vietato l’ingresso al mondo dei morti.
[33]
Maurizio Cabona, Provaci ancora Woody,
Il Giornale, 13 novembre, 2010.
[34]
Tutte queste citazioni provengono dal documentario Defamation di Yoav Shamir. Questo film – la cui visione è
consigliabilissima – lo nomineremo anche in seguito. Le traduzioni sono di
Laura Caselli.
[35]
Anita Shapira, Anti-Semitism and Zionism, «Modern Judaism», XV, 3, 1995,
p. 218, in: Vincenzo Pinto, La dialettica
fra antisemitismo e sionismo nel pensiero e nell’opera di Vladimir Ze’ev
Jabotinsky
, FreeEbrei
(http://www.freeebrei.com/interventi/sionismo-e-antisemitismo-una-concordia-discors)
[36] The Believer di Henry Bean, 2001. Il
film ha vinto il Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival del 2001 e il Gran Premio al Moscow International Film Festival
sempre nel 2001.
[37] Peter Novick, The
Holocaust in American Life
, Houghton Mifflin Harcourt, 2000, p. 201.
[38] Ibidem.
[39] Marc A. Krell,
Intersecting Pathways : Modern Jewish
Theologians in Conversation with Christianity: Modern Jewish Theologians in
Conversation with Christianity
, Oxford University Press, 2003, p. 176.
 

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