Andrea Giacobazzi: Note sulla complessità della storia

Andrea Giacobazzi: Note sulla complessità della storia

Andrea Giacobazzi (a sinistra) con un giudeo antisionista


Da Andrea Giacobazzi ricevo e pubblico:

Note sulla complessità della
storia: spunti per ovviare alle semplificazioni propagandistiche

Ogni
atto di ricerca storica implica l’incontro con la complessità. Chi oggi cerca
di calcificare l’analisi del passato, di semplificarla all’eccesso, di presidiarla
con la magistratura o di intralciarla con l’ostracismo mediatico, lo fa
evidentemente in nome di un programma ideologico errato e dannoso.
Un
esempio lampante consiste nella creazione di odiose pregiudiziali sociali che
anche nel nostro Paese – in nome dell’antifascismo e dell’anticomunismo – hanno
lasciato un’abbondante striscia di sangue. Non solo un banale – e politico – divide et impera, ma un modello
culturale in cui l’orwelliana “verità” ufficiale è propinata come nelle catene
di fast food vengono serviti
hamburger e patatine. Nel testo che segue percorreremo sinteticamente diversi
eventi, spesso ignorati, che certificano la complessità coinvolta strettamente
nello studio della storia. Una raccolta di spunti per evitare di cadere nella sterile
logica di chi attribuisce a realtà meramente umane le caratteristiche di
“sempre buone” o “sempre cattive”, di “sempre
vittime” o “sempre carnefici” e di “sempre amiche” o
“sempre nemiche”. L’assoluto, se maldestramente attribuito alle cose
di questa terra, può condurre a gravi equivoci[1].
1. Rossobrunismo e affini
Iniziamo
col preteso “rossobrunismo”. Alcuni antifascisti di stretta osservanza – anche
quelli che oggi da certe pagine “marxiste”, lanciano appelli per la Siria –
sembrano ignorare che in quel Paese i comunisti sostengono un governo con due
membri nazional-socialisti. Il Partito Nazionalista Sociale Siriano reca nella
sua bandiera una croce “uncinata”; con colori sociali bianco, rosso e nero.
Nulla
di particolarmente nuovo. Non mancano nella storia ampi esempi di regimi
sbrigativamente ed erroneamente definiti “fascisti” che furono, in tempi non
lontani, blanditi dall’Unione Sovietica. Si pensi all’Argentina del Generale
Leopoldo Galtieri – vista da Washington come efficace baluardo anticomunista –
che allo scoppio della Guerra delle Malvine (1982, sotto dominio inglese ma
rivendicate da Buenos Aires) si trovò di fronte all’ipotesi di ricevere armi da
Mosca via Cuba[2].
In seguito al bando sulle vendite imposto da Carter per l’intervento sovietico
in Afghanistan (1979), l’URSS acquistò in maniera significativa il grano
argentino sviluppando ampie relazioni commerciali, con alcuni risvolti
politici: vi sono indicazioni che fanno pensare ad un aiuto in termini di intelligence[3] da
parte sovietica per le operazioni contro la Gran Bretagna.
Già
alcuni anni prima di questi fatti si erano realizzati curiosi scambi tra il
Partito Comunista Argentino e la junta
militare di Jorge Videla (anche qui: “fascista”, “filo-imperialista”, ecc). Dopo
il golpe del 1976, parlando del nuovo
presidente, gli esponenti del partito arrivarono ad affermare: “En cuanto a sus formulaciones más precisas
(…) afirmamos enfáticamente que constituyen la base de un programa liberador
que compartimos
[4].
Del resto l’URSS, per prima, con l’arrivo di Videla vedeva scongiurata una
soluzione più pinochetista[5],
quindi potenzialmente più pericolosa. Questo fatto non evitò la persecuzione di
diversi militanti comunisti, sebbene in forma diversa rispetto ad altri partiti.
Anche
nella “Germania dell’Est” il realismo politico fin qui descritto pare trovare
conferme. NDPD: National-Demokratische Partei Deutschlands, nome simile all’attuale
formazione della “estrema destra” tedesca, NPD.
Nella DDR[6],
come evidente, i nazionalsocialisti – più o meno pentiti – a fine guerra non
erano pochi e i loro sentimenti non potevano essere ignorati. Fu così che la
creazione del partito NDPD permise al
governo comunista di risolvere rapidamente il problema, riassorbendo molti ex nazisti
 nello Stato socialista e dando loro la
possibilità di avere un loro canale (minore) di intervento politico[7].
Un altro fenomeno che oggi verrebbe rapidamente etichettato come “rossobruno”
ebbe luogo nella “Germania dell’Ovest” ma con esiti diversi: fu il caso del Partito socialista del Reich Tedesco. Migliaia
di iscritti, rappresentato al Bundestag
e con diversi eletti nelle amministrazioni locali. Era un partito di “estrema
destra”, “nazionalsocialista”, ma favorevole all’Unione Sovietica, non
mancavano tra i suoi membri, soggetti che elogiavano il patto
Molotov-Ribbentrop; furono evidenziati in più occasioni legami tra questo
partito e le autorità sovietiche nella Germania dell’Est[8]. A
differenza di quanto accadde oltre cortina con l’NDPD, il Partito socialista
del Reich Tedesco
fu bandito dalle autorità statali nel 1952[9].
 
 
Anche
nell’Italia degli anni ’50 le pregiudiziali sembravano essere di intensità
diversa rispetto a quanto alcuni oggi vorrebbero far intuire. Silvio Milazzo,
democristiano siciliano dissidente, alle elezioni regionali del 1958 raggiunse
la presidenza – contro il suo partito d’origine – mettendosi alla testa di una
coalizione che andava dal Movimento Sociale Italiano al Partito Comunista[10].
Gli uomini di punta furono il poeta fascista Dino Grammatico e l’alto dirigente
comunista Emanuele Macaluso (futuro deputato e senatore). Quest’ultimo
sostenne: “altrove non è possibile realizzare ciò che qui nasce
in nome dei superiori interessi siciliani[11].
Se
si volesse scrivere la storia italiana degli scambi tra rossi e neri, forse non
basterebbero una decina di libri. Si pensi, tra le tante, alla vicenda di
Bombacci, prima socialista, poi comunista, partecipò ai funerali di Lenin data
la sua vicinanza all’Unione Sovietica[12]. Arrestato col
Duce nell’aprile 1945, fu fucilato gridando: “Viva l’Italia! Viva il
Socialismo!”[13]. I partigiani lo
appesero per i piedi a Piazzale Loreto. E che dire di Togliatti? Nel 1936 tentò
l’“entrismo” rispetto al regime e lanciò l’appello: “Noi comunisti
facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di
libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti
per la realizzazione di questo programma”[14].
La
madre di tutte le convergenze “rosso-brune” è però il patto Molotov-Ribbentrop,
con cui Germania nazionalsocialista e Unione Sovietica si accordarono
militarmente spartendosi buona parte dell’Europa centro-orientale, dando così
inizio alle operazioni della Seconda Guerra mondiale. L’antifascismo propagandato
energicamente fino a qualche tempo prima cadde rapidamente: nel periodo 1939-1941 i partiti comunisti, sostennero che la guerra in corso era “imperialista” e provocata dai
governi francese e inglese; anche il Partito Comunista Francese aderì a questa linea,
nonostante, dopo la sconfitta del maggio 1940, una parte del Paese fosse
sottoposto all’occupazione tedesca[15].
 
 
2. Divergenze nero-brune e
convergenze fascio-statunitensi
Sul
fronte opposto? Sebbene con risvolti diversi rispetto a quelli appena esposti
va ricordato che l’Italia fascista ebbe, in una certa fase, buoni rapporti con
le “democrazie plutocratiche”[16]
e relazioni travagliate con quello che diventerà l’“alleato tedesco”. Il tema
“razziale” era scottante e tra le organizzazioni “fasciste”
all’estero vi furono anche frizioni significative. L’immagine di copertina che
fu scelta per Il fez e la kippah (con
un ebreo caricaturato che pare suggerire a Mussolini la linea politica)
rappresenta uno di questi casi: si trattava di un “esagerato” volantino dell’Imperial Fascist League britannica, la
quale – a dispetto del nome – gravitava più attorno a Berlino che non a Roma.
Questo movimento nel 1933 si affrettò a inserire nella sua bandiera il simbolo
della svastica e non mancò di marcare le differenze rispetto alla British Union of Fascists di Oswald
Mosley. L’immagine in questione fu pensata ai tempi della guerra d’Etiopia per
accusare gli ebrei di aver addirittura armato la mano a Mussolini. Sotto
all’effige si faceva un breve elenco di episodi in cui ebraismo e fascismo
erano entrati in stretto contatto e si arrivava persino a definire Rodolfo
Graziani come “the Jew Graziani”. In verità, anche qui, nulla di
particolarmente nuovo: già nel 1924 il biografo nazionalsocialista di Mussolini
– Adolf Dresler – aveva condannato il fascismo come “movimento ebraico
capitalista”: una definizione fuori luogo ma indicativa di certi orientamenti
tedeschi[17].
Fino
alla rottura del Fronte di Stresa non pochi furono gli episodi di convergenza
tra l’Italia fascista e quelli che saranno i suoi futuri nemici in guerra.
Italo Balbo nel 1933 fu trionfalmente ricevuto a Chicago in occasione della Crociera aerea del Decennale: la cittadinanza e i media della città
guardarono all’evento con attenzione forse maggiore rispetto al volo di
Lindbergh. Tra migliaia di persone, non si fecero attendere i saluti romani e
le grida Eja, eja, alalà. Il gerarca
italiano incontrò il sindaco, il governatore e si vide intitolare l’Eighth Street in Grant Park, che divenne Balbo
Drive
[18]. Lo
stesso Mussolini, qualche tempo prima – parlando più al popolo statunitense che
non al governo – disse: “I am very glad to be able to express my friendly
feelings toward the American nation. The friendship with which Italy regards the
millions of citizens who […] live in the United States is deeply rooted in
our hearts. […] I admire the wonderful energy of the American people, and I
see and recognize among you that the love of your land is as deep as ours, my
fellow citizens, who are working to make America great. I salute the great
American people! I salute the Italians of America, who unite in a single love
of both nations!”[19]
Passando
dalle relazioni politiche alle particolarità personali non dovrà stupire, a
questo punto, la bizzarra vicenda di Corrado Gini. Economista, sociologo e,
soprattutto, statistico di fama mondiale, introdusse il Coefficiente di Gini, fu legato a Mussolini e con i suoi studi
influenzò le politiche fasciste. Sotto il governo del Duce guidò per lungo
tempo l’Istituto Centrale di Statistica, che poi lasciò per conflitti con lo
stesso Presidente del Consiglio. Pochi sanno che dopo la guerra, nonostante il
suo passato da figura di spicco dell’italianità fascista, creò, con l’attivista
scillese Santi Paladino e con il ricercatore ISTAT Ugo Damiani, il Movimento
Unionista Italiano. Lo scopo di questa formazione? Il governo degli Stati Uniti
avrebbe dovuto mettersi alla testa di tutte le nazioni libere e democratiche del
mondo[20]
(Italia in primis, ovviamente) in modo da creare un governo mondiale,
consentendo di mantenere la Terra in una condizione di pace perpetua. La
stravaganza del progetto non impedì al partito di eleggere un suo rappresentante
in occasione delle elezioni per l’Assemblea Costituente.
3. Anticolonialismo, “antimperialismo” et cetera
La
riduzione dell’Italia ad una regione di un governo globale statunitense, oltre
a cozzare col buon senso, rappresentava lo stravolgimento pieno di quel
patriottismo cui il governo di Mussolini faceva sovente riferimento. Nel
fascismo delle origini questo principio era declinato addirittura in termini
“antimperialisti”. Nella seconda dichiarazione del programma di San Sepolcro ci
si opponeva “all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia e
all’eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli”[21].
L’estensione delle colonie e l’assunzione da parte di Vittorio Emanuele III del
titolo di Imperatore d’Etiopia smentirono questi propositi.
Se
però la politica coloniale mussoliniana degli anni ’30 è nota al grande
pubblico, molto meno lo sono certi atteggiamenti dei partiti comunisti negli
anni successivi al conflitto mondiale. Decisamente poco “anticolonialiste”
furono le posizioni di Togliatti quando venne il momento di discutere il
destino delle terre africane sotto giurisdizione italiana. Al convegno sugli
interessi italiani in Africa (1947), alti esponenti del PCI e PSI non si fecero
scrupolo di prendere posizione in difesa dei “diritti” italiani in Africa[22].
Non solo: in occasione dell’eccidio di Mogadiscio del gennaio 1948 si
confermarono la tendenza all’arroccamento ideologico e la scelta di campo
imposta dal Comintern ai partiti
comunisti europei. Su quell’episodio – secondo L’Unità – pesava “l’ombra cupa di una sanguinosa provocazione”[23]
orchestrata probabilmente dai britannici[24].
Un
atteggiamento non meno ambiguo fu quello del Partito Comunista Francese, in
occasione della guerra d’Algeria (1954-1962). Sebbene di principii
anticolonialisti e contrario ai metodi usati, il PCF sostenne per più di un
anno e mezzo lo sforzo di guerra di Parigi[25].
Le proteste comuniste contro le operazioni militari furono più a livello locale
che centrale: nel marzo 1956 il partito votò a favore dei “poteri speciali” che
il Presidente del Consiglio Mollet chiese per l’amministrazione in Algeria. A
partire dal luglio dello stesso anno, in occasione del suo 14° Congresso, il
PCF si distanziò da queste posizioni[26].
4. Faide rosse: da Tito “canaglia degli
inglesi” all’incontro Richard Nixon – Mao Zedong
Molti
degli episodi riportati in precedenza sono stati da più parti – rapidamente e
inopportunamente – incasellati come manifestazioni anche postume di “stalinismo”
ma certamente non si può usare questo diversivo per alcuni esempi che
seguiranno.
Prendiamo
Josip Broz Tito. Dopo la guerra, la “fedeltà sovietica” del leader
jugoslavo si fece sempre più sottile fino a spezzarsi. Più che all’URSS, Tito
guardava ai Balcani e, indirettamente, all’Atlantico. Parlando di lui, a fine
anni ’40, il Ministro degli esteri inglese Ernest Bevin arrivò a sostenere:
“è un bastardo, ma è il nostro bastardo”[27].
Tito ricevette aiuti finanziari britannici e statunitensi[28]
per la sua posizione anti-sovietica[29].
Un gran numero di comunisti “stalinisti” – jugoslavi e non – furono deportati
sull’Isola Calva: nel campo di rieducazione morirono tra torture e stenti circa
4000 detenuti[30]. Seppure
con una politica estera instabile, nel 1953 Tito siglò con due Paesi della Nato
(Grecia e Turchia) il Patto Balcanico: un collegamento indiretto con le potenze
atlantiche. Inutile dire che la morte di Stalin e i successivi attriti tra
Grecia e Turchia resero debolissima l’alleanza, il governo di Belgrado iniziò a
volgere l’attenzione altrove arrivando ad essere uno dei principali promotori
del Movimento dei Paesi non allineati.
Il
presidente jugoslavo non era certo l’unico comunista a girare le spalle a Mosca
per strizzare l’occhio a Washington o a Londra. Si pensi, tra le altre, alle tensioni
sino-sovietiche iniziate negli anni ’60 e alle operazioni cinesi volte a
sobillare la secessione dei partiti comunisti sui quali Pechino aveva una certa
influenza (esemplare il caso dell’Albania)[31].
Questo allontanamento dall’URSS ebbe uno dei suoi momenti più intensi in
occasione della storica visita di Nixon a Mao Zedong e al successivo
riconoscimento da parte dei cinesi della supremazia statunitense nel Pacifico:
si arrivò a sostenere la comune determinazione di “opporsi a qualsiasi
tentativo perpetrato da una terza potenza per affermare la propria egemonia
nell’area”[32]. Un
chiaro avvertimento al Cremlino.
E
il rumeno Ceauşescu? La sua politica comunista eccentrica, e non
troppo fedele a Mosca, lo rese piuttosto sgradito: non a caso, nel 1989, fu
liquidato col beneplacito di sovietici e statunitensi[33].
5. Ebrei e sionisti: all’apice delle liaisons dangereuses
Se
le particolari convergenze e divergenze politiche fin qui descritte paiono determinare
complesse interpretazioni circa i grandi protagonisti della storia
contemporanea, il caso sionista (o più generalmente ebraico) le supera senza
dubbio per ampiezza e profondità.
Dall’Italia
fascista, alla Germania nazionalsocialista, dall’Unione sovietica ai contatti
con gli arabi, fino al solido rapporto con gli Stati Uniti, i sionisti ebbero
consistenti relazioni con realtà che in altre fasi storiche assunsero il ruolo
di aperte nemiche. In testi precedenti ci siamo soffermati sui rapporti con i
regimi di Hitler, Mussolini e Stalin. Con particolare riferimento a Italia e
Germania abbiamo trattato, giusto per citarne alcuni: la nascita del primo
nucleo della marina ebraica sotto le insegne del fascismo a Civitavecchia, l’accordo
di trasferimento nazi-sionista (Haavara),
lo sviluppo della rete dei campi di riaddestramento (nel Reich) per i pionieri diretti in Palestina o verso altre
destinazioni, e svariati altri episodi. Un caso che non abbiamo affrontato in
precedenza, ma non meno controverso, è quello del Gruppo 13.
Trzynastka, ovvero tredici, era il numero civico di Via Leszno
presso cui avevano sede nel ghetto di Varsavia, erano capeggiati da Abraham
Gancwajch, ex attivista sionista e informatore della Gestapo[34].
Probabilmente credevano in una vittoria bellica tedesca: attraverso di loro fu
istituita una forza di polizia al servizio della Gestapo per combattere il mercato nero nel ghetto. Il maggior
beneficio offerto ai tedeschi consistette nel “consegnare loro
dettagliati rapporti sulla vita del ghetto, soprattutto sulle attività illegali
e clandestine”[35]. Gancwajch si scontrò con lo Judenrat e fu abbandonato dai suoi superiori. Scomparve dalla scena
nella primavera del 1942, secondo alcune voci venne fucilato l’anno successivo.
A differenza di altre situazioni di collaborazionismo nei ghetti posti sotto
occupazione, secondo Yehuda Bauer, questo gruppetto ebraico cercò anche di
“trovare un’intesa con i tedeschi su una base ideologica”[36].
Un altro caso – questa volta nel Vicino Oriente e ad opera di sionisti
intransigenti – in cui degli ebrei proposero ai nazionalsocialisti un patto
partendo da somiglianze ideologiche fu, all’inizio del conflitto mondiale, l’offerta
(naufragata) di accordo militare fatta dal gruppo Lehi alla Germania di Hitler per liberare la Palestina
dall’occupazione britannica. Al Lehi
appartenne anche il futuro premier Yitzhak Shamir.
Passando
dalla Germania all’URSS, risulta curioso notare che pochi anni dopo – nel
1947-1948 – l’appoggio di Mosca alla fondazione di uno Stato ebraico, fu addirittura
superiore a quello di Washington, in seguito principale alleato degli
israeliani. Gli Stati Uniti si accodarono ma, nonostante tutto, temevano di
irritare eccessivamente i loro partners commerciali arabi. Tra i più accesi
detrattori del progetto era annoverato il segretario di Stato George Marshall
che pochi giorni prima della proclamazione dell’indipendenza, guardò il
presidente Truman negli occhi e gli disse che se avesse riconosciuto lo Stato
ebraico avrebbe votato contro di lui alle elezioni di novembre[37].
Sulle relazioni sovietico-sioniste e sulla loro successiva rottura è
consigliabile la lettura del saggio Perché
Stalin creò Israele
di Leonid Mlečin.
Non
meno interessante, ma di breve durata, fu l’accordo tra l’emiro Faysal e il
leader sionista Weizmann (1919). Con esso uno dei massimi esponenti del mondo
arabo riconosceva – in linea di principio – il movimento sionista e gli
“concedeva la Palestina”[38].
Ovviamente la merce di scambio, messa sul tavolo della politica internazionale,
consisteva nella soddisfazione delle rivendicazioni arabe per un’indipendenza
verace. L’Emiro Faysal (figlio del re dell’Hegiaz, sarebbe diventato “re della
Siria e dell’Iraq”) chiarì che se questo aspetto non fosse stato rispettato
dalle grandi Potenze, l’intero accordo sarebbe caduto, e così fu. A prescindere
dall’esito del patto, risultano quantomeno inedite le dichiarazioni pro-sioniste
da parte di un così alto rappresentante arabo in campo internazionale.
Nell’articolo IV dell’accordo si scriveva: “Saranno presi
tutti i provvedimenti necessari per incoraggiare e promuovere l’immigrazione
degli ebrei in Palestina su larga scala
e per far sì che al più presto possibile si stabiliscano nel paese
degli ebrei per favorire la coltivazione
intensiva del suolo”[39].
In una lettera a Felix Frankfurter, Faysal giunse a scrivere: “Noi
arabi
, specie
quelli colti
, consideriamo
con la più grande simpatia il movimento sionista”
[40]. Inutile dire che le
ambizioni personali dell’emiro incidevano in modo chiaro sul suo atteggiamento
politico. Questo accordo rappresenta senza dubbio la manifestazione più chiara
delle tante occasioni in cui determinate convergenze di interessi tra
israeliani da un lato e arabi o islamici dall’altro, si consumarono ai danni degli
stessi arabi palestinesi o di altri popoli geograficamente prossimi alla Terra
Santa.
6. Vicino e Medio Oriente:
Rumsfeld-Hussein, Irangate e oscillazione gheddafiane
Sicuramente
vasta è la rete di “relazioni pericolose” che si è intrecciata nel
Vicino e Medio Oriente – antico e futuro crocevia dei rapporti internazionali –
dove realtà apparentemente inconciliabili hanno stipulato patti, trovandosi ad
essere associati col “nemico del proprio nemico”.
Tra
i tanti esempi che si possono citare il più significativo è forse quello
relativo alla guerra Iran-Iraq (1980-1988). Donald Rumsfeld, che nel 1983 fu
inviato da Reagan a stringere la mano a Saddam Hussein, nel 2003, da segretario
della difesa, lanciò gli Stati Uniti verso l’invasione dell’Iraq e l’abbattimento
del governo baathista. Ai tempi del conflitto con l’Iran, il rapporto
Washington-Baghdad non si limitò ad una stretta di mano ma si spinse ad un
consistente appoggio statunitense alle operazioni belliche di Saddam Hussein.
Nel corso della stessa guerra gli Stati Uniti vendettero armi anche all’Iran
degli ayatollah (dichiaratamente “antiamericani”), grazie ai buoni uffici
dell’acerrimo nemico dello stesso Iran, Israele[41].
Il ricavato di questa operazione finì a finanziare niente meno che la
controrivoluzione nicaraguense: quando questa operazione segreta venne resa
nota (1986-1987) scoppiò lo scandalo Irangate
(o Iran-Contras).
Anche
su Gheddafi, trasformato in un’icona da certo “antimperialismo”, ci
sarebbe molto da dire: in diverse occasioni si trovò ad essere utile per
quell'”Occidente” che era “nemico dei suoi nemici”. Voltaire Network ha avuto modo di
accusare Gheddafi di praticare spesso un doppio gioco funzionale agli interessi
statunitensi[42].
Circa il suo ruolo di “disturbo”, Antonio Ferrari
sostenne in un’intervista radiofonica: “Di vertici della Lega Araba,
Gheddafi ne ha fatti fallire fin troppi. Io personalmente ne ricordo almeno
quattro, di quelli a cui fui presente personalmente. […] Che Gheddafi facesse
il guastafeste per crearsi uno spazio, oppure per conto terzi, lo lascio alla
immaginazione degli ascoltatori”[43];
non pochi dubbi aleggiano anche sulla sua assunzione di responsabilità relativa
alla faccenda dell’aereo della PanAm precipitato a Lockerbie[44].
Il leader libico, tra l’altro, “giocò un ruolo centrale”[45]
al tempo della restaurazione al potere di Gafaar Nimeiry, quando nel 1971 era
stato temporaneamente allontanato dal potere da un colpo di stato comunista, il
suo ritorno in sella portò all’uccisione di molti oppositori[46].
Non solo: ancora oggi non è stata dimenticata dagli sciiti libanesi la
misteriosa fine fatta in Libia nel 1978 dal loro leader Moussa Sadr: i suoi
seguaci accusarono Gheddafi di averlo fatto sparire insieme ai suoi due
compagni di viaggio[47].
Forse anche in memoria di questo, i vertici religiosi iraniani non si
stracciarono le vesti al momento dell’abbattimento del governo libico nel 2012.
Ci
fermiamo, ma ogni paragrafo di questo breve saggio potrebbe essere ampiamente
allungato.
 

[1] “Maledetto l’uomo che confida
nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno e dal Signore si allontana il
suo cuore. Egli sarà come un tamerisco nella steppa, quando viene il bene non
lo vede […]”. Geremia 17-5,6.
[2] Marieke Kleiboer, The Multiple
Realities of International Mediation
, Lynne Rienner Publishers, 1998, pag.
137.
[3] Patrick O’Sullivan, Geopolitics,
Taylor & Francis, 1986, pag.128.
[4] Política, Volumi 16-18, Instituto de Ciencia Política, Universidad
de Chile, 1988, pag. 92.
[5] Cfr.: Isidoro Gilbert, El oro del Moscù, Sudamericana, 2011,
Cap. 14.
[6] Deutsche Demokratische Republik,
Repubblica Democratica Tedesca.
[7] Cooperazione nel Mediterraneo occidentale, Istituto affari
internazionali, 1972, pag. 25.
[8] Stanford M. Lyman, NATO and
Germany: A Study in the Sociology of Supranational Relations
, University of
Arkansas Press, 1995, pag. 124.
[9] Philipp Gassert, Alan E. Steinweis, Coping With the Nazi Past: West German Debates on Nazism and
Generational Conflict, 1955-1975
, Berghahn Books, 2006, pag. 19.
[10] Mirko Tomasino, Salvatore Giuliano e il Separatismo
siciliano: riflessioni storiche
, Liber Iter, 2012, pag. 43.
[11] Ruggiero Capone, La politica milazziana dell’Mpa nasce e
muore nell’Isola
, L’Opinione delle Libertà, 21 settembre 2010.
[12] 
Cfr.: Arrigo Petacco,  L’uomo della Provvidenza, Edizioni
Mondadori, 2010
[13] Guglielmo Salotti, Nicola Bombacci: un comunista a Salò,
Mursia, 2008, pag.10
[14]
Annali dell’Istituto Feltrinelli
,
Volume 13, 1971, pag. 32.
[15] Marina Cattaruzza, La nazione in rosso: socialismo, comunismo e
“Questione nazionale” : 1889-1953
, Rubettino, 2005, pag. 298.
[16] Si pensi al Fronte di Stresa del
1935 (accordo “anti-tedesco” siglato da Italia, Francia e Regno
Unito).
[17] Marco Costa, A tu per tu con Andrea Giacobazzi,
Stato&Potenza.eu, 22 febbraio 2012. In
relazione a Dresler: Yad Vashem Studies
on the European Jewish Catastrophe and Resistance
, Issue 4, 1960, pag. 13.
[18]
Dominic Candeloro, Chicago’s Italians:
Immigrants, Ethnics, Americans
, Arcadia, 2003, pag. 133.
[19]
Frank Joseph, Mussolini’s War: Fascist
Italy’s Military Struggles from Africa and Western Europe to the Mediterranean
and Soviet Union 1935-45
, Casemate Publishers, 2010, pag. 139; visibile
anche su YouTube: http://www.youtube.com/watch?v=8FsUgoghtRo .
[20] Gabriella Fanello Marcuccim, Il primo De Gasperi (dicembre 1945-giugno
1946): sei mesi decisivi per la democrazia in Italia
, Rubbettino Editore,
2004, pag. 114.
[21] “L’adunata del 23 marzo dichiara
di opporsi all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia e
all’eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli; accetta il
postulato supremo della Società delle Nazioni che presuppone l’integrazione di
ognuna di esse, integrazione che per quanto riguarda l’Italia deve realizzarsi
sulle Alpi e sull’Adriatico con la rivendicazione e annessione di Fiume e della
Dalmazia[…]”. Seconda dichiarazione del Programma di San Sepolcro, pubblicato
su Il Popolo d’Italia del 24 marzo
1919, cfr.: G. Rumi, Alle origini della
politica estera fascista (1918-1923)
, Laterza, 1968, p. 22.
[22] Marco Galeazzi, Il PCI e il movimento dei paesi non
allineati (1955-1975)
, FrancoAngeli, 2011, pag. 33.
[23] R. Grieco, Dopo Mogadiscio, L’Unità, 22 gennaio 1948.
[24] Marco Galeazzi, Il PCI e il movimento dei paesi non
allineati (1955-1975)
, FrancoAngeli, 2011, pag. 33.
[25] Gil Merom, How Democracies
Lose Small Wars: State, Society, and the Failures of France in Algeria, Israel
in Lebanon, and the United States in Vietnam
, Cambridge University Press,
2003, pag. 91.
[26] Phil Hammond, Media, War &
Postmodernity
, Routledge, 2007, pag. 84.
[27]
Will Podmore, British Foreign Policy
Since 1870
, Xlibris Corporation, 2008, pag. 110.
[28]
Wayne S. Vucinich, Jozo Tomasevich, Contemporary
Yugoslavia: Twenty Years of Socialist Experiment
,University of California
Press, 1969 , pag. 170; et Richard J. Aldrich, British Intelligence, Strategy and the Cold War, 1945-51,
Routledge, 1992, pag. 72.
[29] Questo tuttavia non portò la
Jugoslavia proprio dove desideravano gli inglesi e gli statunitensi. Pare che
la CIA nello stesso periodo tentò di rovesciare il governo di Tito, cfr:
Richard J. Aldrich (op. cit.).
[30] Enrico Miletto, Istria allo specchio: storia e voci di una
terra di confine
, Franco Angeli, 2007, pag. 167
[31] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali
(1918-1999)
, Laterza, 2006, pag. 1192.
[32] Ibidem.
[33] Cfr: Marco Costa, Conducator: l’edificazione del socialismo
romeno
, Edizioni all’insegna del Veltro, 2012.
[34] Yehuda Bauer, Ripensare
l’Olocausto, Dalai, 2009, pag. 187.
[35] Ivi, pag. 188.
[36] Ivi, pag. 189.
[37] Leonid Mlečin, Perché Stalin creò Israele, Sandro Teti
Editore, 2010, pag. 136.
[38] Eugene Rogan, Gli arabi, Bompiani, 2012.
[39] Relazioni internazionali, Volume 16, Istituto per gli studi di
politica internazionale, 1952, pag. 751
[40] Paolo Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico,
1798-1992: storia e problemi
, Mursia, 1992, pag. 81
[41] Si riflette correttamente in Gli occhi bendati sul Golfo di (Alberto
Bernardino Mariantoni e Fred Oberson, Jaca Book, 1991, pag. 88): “Nonostante
l’inimicizia viscerale e reciproca che esisteva in quell’epoca tra Tel Aviv e
Teheran, era chiaro che il nemico principale da cui Israele doveva cercare di
difendersi era l’Iraq di Saddam Hussein e non, certo, l’Iran di Khomeini. […]
Non potendo impedire le forniture militari e tecnologiche occidentali nei
confronti dell’Iraq, per le ragioni che abbiamo visto (cioè, la necessità per
l’Occidente di sbarrare, costi quel che costi, la strada al al khomeinismo),
Israele dapprima e gli Stati Uniti in seguito, pensarono bene di riequilibrare
il conflitto Iraq-Iran, aiutando «sotto banco» il regime degli ayatollah. Lo
scopo: impedire la vittoria militare del regime di Bagdad e, in ultima analisi,
prolungare «sine die»  una guerra i cui
protagonisti, in definitiva, altri non erano che due nemici giurati di Tel Aviv
e di Washington”.
[42]
“Colonel Qaddafi has for many years indulged in a devious double game, at
the risk of alienating himself from both sides at the same time. He flaunted an
ultra-radical rhetoric against U.S. imperialism and Zionism, while often
serving their interests, including that of executing orderd to liquidate some
of their main opponents”. Cfr:
Voltaire Network, Israel flies to the
rescue of ally Khadafi
, 5th march 2011, http://www.voltairenet.org/Israel-flies-to-the-rescue-of-ally
[43] Antonio Ferrari, La guerra in Iraq si poteva evitare con
l’esilio di Saddam ma Gheddafi agì per impedirlo
, Radio Radicale, 5 ottobre
2010, trascritto in: Maurizio Blondet, Se
perde, Gheddafi può fare aliyah
, 8 marzo 2011, effedieffe.com.
[44]
Ibidem.
[45]
Ezat Mossallanejad, Religions and the
Cruel Return of Gods
, Zagros Editions, 2012, pag. 166
[46] Ispi – Annuario Di Politica Internazionale, 1967/1971, Dedalo, pag.
342
[47]
Olivier Roy, Antoine Sfeir, Dr. John King, The
Columbia World Dictionary of Islamism
, Columbia University Press, 2007,
pag. 58
One Comment
  1. Buon articolo, ma deboluccio l'ultimo paragrafo su Gheddafi! 😀
    Il Rais è e rimane un eroe.

    Rispondi

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