Merav Michaeli: l’interminabile Olocausto di Israele

Merav Michaeli: l’interminabile Olocausto di Israele

Yisrael Meir Lau, rabbino capo di Tel Aviv
L’INTERMINABILE
OLOCAUSTO DI ISRAELE[1]

Il problema, nel
sondaggio della settimana scorsa sulla religione, che avrebbe dovuto scatenare
il panico è il consenso totale tra gli ebrei israeliani che il “principio
guida” del paese è “ricordare l’Olocausto”.

Di Merav Michaeli,
30.01.2012

Haaretz sembrava preso dal panico dopo l’uscita la scorsa
settimana del sondaggio[2] sulla
religione della Guttman Center-Avi Chai Foundation[3], come si
poteva notare nel convulso titolo sulla prima pagina di venerdì del quotidiano:
“Indagine scopre un numero record di ebrei israeliani che credono in Dio”. Ma
il giornale non si era spaventato per la cosa giusta.

Sì, nello scorso decennio c’è stata una crescita
nell’attaccamento degli israeliani al giudaismo, ma ciò significa che la situazione
è tornata più o meno a quello che era due decenni fa.

Questo stesso sondaggio venne condotto una prima volta nel
1991 e i suoi risultati furono simili a quelli dell’ultima indagine. Un secondo
sondaggio venne condotto nel 1999, dopo che la maggior parte degli immigrati
dall’ex Unione Sovietica era arrivata nel paese, ma non si era ancora del tutto
assimilata; ciò spiega il calo dell’attaccamento degli ebrei israeliani alla
religione all’epoca.

Un decennio dopo, questi immigrati hanno interiorizzato i
codici culturali della società israeliana. Inseriti in una popolazione
allargata ortodossa e ultraortodossa che ha controbilanciato il secolarismo gli
immigrati di lingua russa si sono adeguati e negli ultimi 20 anni la
percentuale di israeliani che aderiscono alle convinzioni ebraiche tradizionali
è rimasta virtualmente invariata.

Il problema nel sondaggio della settimana scorsa sulla
religione che avrebbe dovuto scatenare il panico è il consenso totale tra gli
ebrei israeliani – a prescindere dalle differenze religiose, etniche o
politiche – che il “principio guida” del paese e del giudaismo stesso è
“ricordare l’Olocausto”. Il novantotto per cento degli interpellati considera
abbastanza importante o molto importante ricordare l’Olocausto, e attribuisce
ad esso un peso anche maggiore del vivere in Israele, del Sabato, del Passover seder[4],
e del senso di appartenenza al popolo ebraico.

L’Olocausto è il criterio fondamentale con cui Israele
definisce se stesso. E tale definizione è estremamente angusta e malata, perché
l’Olocausto viene ricordato solo in un modo molto particolare, come lo sono le
sue lezioni. Viene usato da molto tempo per giustificare l’esistenza e la
necessità dello stato, e nello stesso tempo viene menzionato come prova che lo
stato è sotto un’interminabile minaccia esistenziale.

L’Olocausto è il solo prisma attraverso il quale la nostra
classe dirigente, seguita in massa dalla società, esamina ogni situazione. Tale
prisma distorce la realtà e conduce inesorabilmente ad una conclusione scontata
– al punto che l’ex rabbino capo Israel Meir Lau ha proclamato durante una
cerimonia del Giorno della Memoria dell’Olocausto tre anni fa che Mosè fu il
primo sopravvissuto dell’Olocausto. In altre parole, tutte le nostre vite sono
semplicemente una lunga Shoah.

Come paese, come nazione, Israele non ha mai affrontato il
trauma dell’Olocausto. Lo shock della terribile tragedia e i sensi di colpa
della classe dirigente pre-statale dell’Yishuv[5] per non
aver potuto salvare gli ebrei d’Europa – oltre alla presenza degli uomini e
delle donne che sopravvissero e che erano mementi costanti di entrambi i traumi
– indussero all’inizio Israele a reprimere l’Olocausto, e poi a trasformarlo in
un manifesto pubblicitario al servizio del trauma nazionale, per rafforzare la
continua paura esistenziale e l’aggressività che ne deriva.

Gli stessi sopravvissuti non sono mai stati trattati in modo
giusto. Solo ieri è stato riferito, ancora una volta, che la metà dei
sopravvissuti dell’Olocausto dipendono dagli stipendi del welfare e che il
governo ha ridotto ancora una volta il suo sostegno nei loro confronti.

Nello stesso tempo, gli “Hitler” sono sempre lì: solo una
settimana fa, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto per la nona volta
che quelli che ci vogliono sterminare completamente non mancano. In altre
parole, non mancano le ragioni per continuare a rafforzare la paura
dell’Olocausto – che, secondo suo padre, lo storico Benzion Netanyahu, non è
mai finito.

Ed è così che non abbiamo né rivali, né avversari e neppure
nemici. Solo degli Hitler. Questo è il modo in cui l’Olocausto viene insegnato
nelle scuole, questo è il modo in cui gli studenti israeliani vengono portati a
visitare i campi della morte – ed ecco come si è arrivati al fatto che, come
riferito venerdì da Haaretz, solo il 2% dei giovani israeliani si sente
vincolato ai principi democratici dopo aver studiato l’Olocausto e [solo] il 2.5% si
identifica con le sofferenze di altre nazioni perseguitate, ma il 12% si sente
vincolato a un servizio “significativo” nelle Forze della Difesa di Israele.

Con i traumi è così. A causa dei nostri limiti umani, un
trauma che non viene affrontato ci induce però costantemente a vedere un altro
trauma come imminente – anche quando la cosa che sta per arrivare, qualunque
cosa, non ha rapporti con il trauma passato e potrebbe persino essere una cosa
buona. Il trauma conduce alla belligeranza e a causare devastazioni nei propri
dintorni, ma innanzitutto a sé stessi.

Ciò che consideriamo razionale è in realtà una condotta impaurita,
difensiva e aggressiva. I nostri leader attuali hanno reso il giudaismo
israeliano solo una sindrome post-traumatica, e nello stesso tempo ci conducono
all’autodistruzione. 


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