Il giudizio di Gordon Poole su Hiroshima e Nagasaki

Il giudizio di Gordon Poole su Hiroshima e Nagasaki

Leggendo l’interessante libro del prof. Gordon Poole NAZIONE GUERRIERA – Il militarismo nella
cultura degli Stati Uniti d’America[1],
ho
trovato un importante passaggio (pp. 78-81) sulle bombe atomiche di Hiroshima e
Nagasaki, che propongo a seguire. Il giudizio di Poole  costituisce un’integrazione ai post
e Un articolo da ricordare:
Le menzogne di Hiroshima sono le menzogne di
oggi:
(le note 2 e 3 sono quelle originali del testo di Poole, i grassetti nel testo sono miei).

Il periodo di buoni rapporti fra l’USA, la
Gran Bre­tagna e l’URSS si
interruppe bruscamente il 12 aprile
1945 con la morte di Roosevelt. Quella morte fu uno shock per l’America: egli
era stato presidente degli Stati Uniti ininterrottamente sin dal 1933. […].  

Il vicepresidente
Harry Truman assunse per legge la presidenza e in poco tempo
diede una sterzata conservatrice alla politica estera statunitense, specie nei confronti dell’alleato sovietico. Del partito
democratico come Roosevelt, Truman era però
conservatore ed antisovietico. Sosteneva, e
forse sinceramente credeva, come molti
americani condizionati dalla retorica patriottica, che lo sbarco in Normandia fosse stato il momento decisivo per la sconfitta della Germania, che il
“Lend Lease” fosse stata la salvezza dei
russi. Diversamente da Roosevelt, Truman non dava
grande importanza o valore al contributo sovietico alla vittoria. 

La svolta a destra di
Truman era appoggiata dal governo britannico, da tempo
insofferente alla disponibilità di Roosevelt nei confronti dell’alleato sovietico.
Alla svolta politica degli Alleati Stalin si
oppose fermamente, e la dura prova di forza da
Truman promossa per l’Europa fallì sostanzialmente,
imponendo al governo americano una più sobria
riflessione sulle diret­tive di politica estera. Dietro consiglio del Ministro
della Difesa Stimson, l’amministrazione Truman decise
di rimandare lo scontro diplomatico frontale con l’URSS
fino a quando gli USA non avessero qualche carta
in più da giocare, e cioè fino a quando non avesse la bomba atomica in
esclusiva da far pesare sul piatto della bilan­cia nelle discussioni con la
controparte.

Infatti, la nuova
politica trumaniana si coglie,  magari
con sorpresa e forse
con sgomento, soprattutto nella conduzione della guerra contro il Giappone.
Contrariamente agli accordi precedentemente presi, agli USA non conveniva
più che i russi intervenissero nella guerra
contro il Giappone. Gli americani erano ormai sicuri di vincere, grazie anche alla nuova arma segreta, vicinissima ad essere pronta per l’uso. 

Si sarebbe potuto
benissimo, per risparmiare ulteriori
sofferenze al popolo giapponese, intavolare negoziati che, sicuramente, sarebbero sfociati in un accordo di pace. Invece, nella logica della “pragmatica” politica
estera statunitense, conveniva togliere all’URSS ogni base per rivendicare una presenza attiva nell’Oriente. Poiché (secondo
gli accordi con gli Alleati) i russi sarebbero entrati in guerra contro il Giappone soltanto in seguito ad
un accordo russo-cinese, gli americani fecero di
tutto, a livello diplomatico – per esempio con la missione di Hopkins
in URSS – per ritardare tale accordo. Il ministro cinese  Sung, inviato in
Russia per accordarsi con Stalin, era incaricato di favorire con ogni pretesto la tattica del rinvio,
evitando di avviare negoziati definitivi in attesa che
gli americani approntassero la bomba, la quale
sarebbe servita per poter concludere
il conflitto senza l’incombente intervento russo.
Intanto, la data d’intervento dei russi in Giappone fu prevista per l’8 agosto 1945.  

La situazione
per i giapponesi era disperata, oltre alle loro stesse
possibilità di capirlo. I governanti sapevano,
certo, anche se non lo dicevano né al popolo né ai combattenti, che la
sconfitta era inevitabile; si trat­tava di evitare semmai la resa
incondizionata. Ma anche in questo ragionamento, i capi nipponici dimostravano
di non rendersi conto della determinazione e della fe­rocia dei nemici. I
giapponesi speravano addirittura dì indurre i
russi ad intercedere presso gli Stati Uniti in loro favore, per ottenere una
resa meno dura. 

Si arriva, seguendo questo ragionamento, ad un’atroce conclusione:
il governo

USA sapeva che l’uti­lizzo della bomba atomica non era
necessaria alla vitto­ria.
Inoltre, l’obbiettivo che esso si prefiggeva di rag­giungere
non era più di natura militare, ma politica, rivolto al futuro assetto
della regione, che doveva essere a suo diretto vantaggio. Se mai
fu presa in considerazione, fu subito bocciata
l’ipotesi di far esplodere la bomba, esemplarmente,
davanti ad osservatori giapponesi, su qualche isola o
luogo disabitato (intanto si sarebbe sempre avuta la seconda bomba in riserva,
in­fatti le bombe sganciate furono due, una su Hiroshima e poi l’altra su Nagasaki). Secondo Gar Alperowitz[2], il Giappone era ormai
così alle strette che i capi americani
ritennero opportuno sfruttare la bomba come arma
di terrore per ricavarne il massimo effetto psicologico. Stimson volle che l’attacco suscitasse la più gran
impressione possibile, cioè che distruggesse e uccidesse il più possibile. Egli temeva addirittura che le incursio­ni dei B29,
quelle che avevano devastato Tokyo con le terrificanti bombe al fosforo[3], potessero distruggere troppo il Giappone, per cui la
bomba atomica non avrebbe avuto più lo sfondo adatto per dimostrare e – aspetto
importante – sperimentare la sua potenza; così egli ordinò che certe città
fossero risparmiate dai bombardamenti in modo che vi
rimanessero obiettivi anco­ra non danneggiati per quando la bomba fosse stata
pronta.
[1] Colonnese Editore, Napoli,
2002, p. 174.
[2] Gar Arperowitz, A proposito di “atomic diplomacy”, “Giano”,
21 (settembre-dicembre 1995), pp. 25-34, dove lo studioso riprende, con nuovi
documenti alla mano, un argomento che aveva già affrontato in Atomic Diplomacy: Hiroshima and Potsdam: The
Use of the Atomic Bomb and the American Confrontation with Soviet Power

(Londra, Secker & Warburg, 1966). Weigley, riferendosi a quest’ultimo
studio, giudicava estreme le conclusioni di Alperowitz (pp. 539-540, n. 6). Il citato numero della
rivista “Giano” è composto di due sezioni: 1) “1945, anno zero”; 2) “La seconda
guerra mondiale: approcci e riflessioni”. Entrambe contengono interessanti
saggi di approfondimento scritti da studiosi italiani e stranieri. Molto stimolante
è anche il già citato libro di Filippo Gaja, Il secolo corto.
[3] L’attacco aereo contro
Tokyo fu il più distruttivo della storia in termini di perdita di vite umane:
morirono 83.793 persone mentre i feriti furono 40.918. circa il 25% della città
fu distrutta, lasciando un milione di persone senza tetto (Weigley, p. 364).

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