Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria IV

Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria IV

Il generale Giuseppe Aloja, antagonista di Giovanni De Lorenzo nella “guerra tra i generali”

POTERI FORTI

Nel dopoguerra italiano, parallela ad un
mondo politico dominato dalla Democrazia cristiana, pavido, incerto, incline
alla trattativa ed al compromesso con il Partito comunista, esiste una forza mi­litare
compatta e determinata nel suo anticomunismo che, nel tempo, si accrediterà
come la sola, autentica garanzia per gli Stati uni­ti e, successivamente, per
1’Alleanza atlantica che l’Italia resterà fedele ai patti e, questa volta,
manterrà la parola data.

Fino
a quando i governi democristiani
adotteranno la linea del­la fermezza nei confronti del Partito comunista
e del suo alleato socialista, la
garanzia militare resterà riservata, se non proprio invisibile, per poi apparire
in tutta
la sua drammatica
evidenza negli anni Sessanta e fino alla metà degli anni Settanta
come fat­tore di pesante condizionamento
della politica governativa nei con­fronti del comunismo
interno.

Del
resto, sono la Democrazia cristiana ed i suoi alleati anticomunisti ad
affrontare il problema rappresentato dalla presenza, in Italia, del più forte
Partito comunista occidentale con misure di carattere militare e poliziesco più
che politico, delegando la propria difesa a quegli Stati maggiori che nella
guerra contro il nemico interno hanno visto, prima, la salvezza dei propri
ufficia­li e del proprio prestigio e, dopo, quella del riscatto e della ri­vincita.

Dal
momento in cui inizia la concreta riorganizzazione delle For­ze armate,
con la creazione del ministero della Difesa il 4
feb­braio 1947,
l’istituzione si distingue per la stabilità dei verti­ci di comando che si
contrappone, in modo vistoso, all’instabili­tà politica che vede
l’avvicendamento costante di uomini e di go­verni .

Dal 20 maggio 1948, data in cui si forma
un governo presieduto da Alcide De Gasperi, il primo dopo la vittoria
elettorale del 18 aprile che ha stabilizzato definitivamente la situazione politica
italiana, fino al 6
agosto 1970,
data in cui assume la presidenza del Consiglio il democristiano Emilio Colombo, in un
Paese ancora scosso dal massacro di piazza Fontana, si avvicendano alla direzio­ne
politica della Nazione 21 governi e 11 presidenti del Consiglio: Alcide De Gasperi,
Giuseppe Pella, Mario Scelba, Antonio Segni, Adone Zoli, Amintore Fanfani,
Ferdinando Tambroni, Giovanni Leone, Aldo Moro, Mariano Rumor ed Emilio
Colombo.

La
catena di comando militare, viceversa, vede la nomina il 1° febbraio 1947 a
capo di Stato maggiore dell’esercito del genera­le Efisio Marras, già addetto
militare a Berlino durante la guer­ra, che il 10 novembre 1950 verrà promosso a
capo di Stato maggio­re della Difesa permanendo nella carica fino al 15 aprile
1954.

Gli
subentra, nella carica di capo di Stato maggiore della Dife­sa, il generale
Giuseppe Mancinelli, che si dimetterà il 29 marzo 1959 per dissensi con il
ministro della Difesa, Giulio Andreotti.

 Il 1° aprile 1959 è nominato capo di Stato
maggiore della Dife­sa il generale Aldo Rossi che manterrà l’incarico fino al
22 di­cembre 1965, quando sarà sostituito dal generale Giuseppe Aloja che,
peraltro, ha ricoperto l’incarico di capo di Stato maggiore dell’esercito dal
10 aprile 1962, e che resterà al vertice delle Forze armate fino al 16 febbraio
1968.

Nel
corso di 21 anni, le Forze armate italiane sono state gui­date da soli quattro
uomini, Marras, Mancinelli, Rossi e Aloja, due dei quali hanno ricoperto anche
la carica di capi di Stato maggiore dell’esercito, Marras ed Aloja, restando
rispettivamen­te al comando dell’istituzione militare per poco più di sette an­ni
il primo, per poco meno di sei anni il secondo.

Ancora
più stabile appare la guida della polizia italiana con annesso servizio segreto
civile, che in oltre 19
anni è stata di­retta da due soli uomini: Giovanni Carcaterra, nominato il 22
marzo 1954, che lascerà l’incarico al suo successore, Angelo Vicari, che lo
manterrà fino al 28 gennaio 1973.

Quattro
uomini alla guida delle Forze armate dal 1947 al 1968, due soli a quella delle
forze di polizia dal 1954
al 1973,
un dato che dovrebbe far riflettere quanti ancora oggi ritengono che questo
Paese sia stato retto da una democrazia parlamentare e non sia stato,
viceversa, uno Stato autoritario e di polizia, in stile sudamericano.

Se
gli Stati uniti e 1’Alleanza atlantica hanno potuto contare su alleati
silenziosi e fedeli, guidati con mano ferma da pochi uomini, questi sono stati
i militari ed i poliziotti italiani, non certo i politici.

Le Forze armate italiane non sono state
ricostruite, nel dopo­guerra, per un possibile impiego contro un nemico esterno
che per anni è rimasto solo ipotetico non avendo l’Unione sovietica la capacità
e la volontà di affrontare un conflitto mondiale, e dopo, a partire dagli anni
Sessanta, è divenuto potenziale ma affrontabi­le solo dagli Stati uniti, gli
unici in grado di schierare un armamento nucleare con funzioni di deterrenza e
una forza armata con­venzionale capace di fronteggiare qualsiasi minaccia.

Per
comprendere meglio l’inesistenza della “minaccia” militare sovietica
è giusto ricordare l’elenco parziale dei danni subiti dal suo Paese, fatto dal
ministro degli Esteri sovietico, Mikhailovic Molotov, il 19 marzo 1947:

“I danni subiti dall’Urss ammontano
a 128 miliardi di dollari; 1.700 città e 70.000 villaggi distrutti; 25 milioni
di persone ri­maste senza tetto; distrutte 31.000 fabbriche che davano lavoro a
4 milioni di operai; distrutti 65.000 chilometri di binari ferro­viari e 4.000
stazioni; 98.000 fattorie collettive e 1.800 fatto­rie statali distrutte e
saccheggiate; 7 milioni di cavalli, 17 milioni di bovini, 20 milioni di suini,
27 milioni di ovini perduti; distrutti 40.000 ospedali e dispensari medici;
84.000 scuole, 42.000 biblioteche”.

A questi danni, va aggiunta la perdita,
di circa 27 milioni di abitanti nel corso di un guerra che, da una parte e
dall’altra, aveva cancellata la pietà.

Nessun
Paese del blocco comunista era nelle condizioni di soste­nere un conflitto
armato.

Il
16 aprile 1946, il generale Duff invia da Trieste al Quartier generale alleato
a Caserta un documento segretissimo nel quale ipotizza l’inizio del conflitto
con la Jugoslavia per la data del 1° giugno 1946, ma quest’ultima nulla può
fare senza il supporto del1’Unione sovietica che, a sua volta, non è
assolutamente in grado di fornirglielo.

Difatti, il 4 giugno 1946, a Caserta, il
generale William Mor­gan, in un dispaccio, scrive che nella Venezia Giulia
“tutto in­dica che, al momento, sia in corso soltanto una guerra di nervi. Di
conseguenza, reputo improbabile un colpo di mano jugoslavo”.

     I sovietici abbandoneranno le loro pretese
sui territori al confine con la Turchia, ritireranno le proprie truppe
dall’Iran, manderanno allo sbaraglio i comunisti greci che, illusi di avere al­le
loro spalle paesi ormai dominati dai loro compagni albanesi, bulgari e
jugoslavi, daranno inizio il 26 ottobre 1946 ad una
guerriglia dalla quale usciranno sconfitti.

Le ragioni della passività sovietica,
sono di carattere milita­re, come confermano gli esiti della riunione svoltasi
a Mosca il 10 febbraio 1948, fra sovietici, bulgari ed jugoslavi sulla que­stione
greca.

Dopo
aver avuto conferma da Edvard Kardelj che la Jugoslavia non era disposta ad
intervenire militarmente in Grecia per so­stenere i comunisti greci, Josip Stalin
si dichiara d’accordo nel far cessare l’insurrezione nel Paese ellenico.

“I
comunisti greci – disse il dittatore sovietico, secondo il resoconto di Milovan
Gilas – non hanno alcuna possibilità di vin­cere. Non potete immaginare che la
Gran Bretagna e gli Stati uniti, la più grande potenza del mondo, permetteranno
la rottura delle loro arterie di comunicazione nel Mediterraneo. Fesserie! E
noi non abbiamo la flotta. L’insurrezione greca deve cessare il più presto
possibile”.

Neanche
la guerra di Corea dimostra la volontà guerrafondaia dell’Unione sovietica.

Il
conflitto coreano nasce da un errore commesso dal segretario di Stato
americano, Dean Acheson, che il 12 gennaio 1950, nel cor­so di un discorso a Washington,
esclude la Corea del sud dal “perimetro” difensivo degli Stati uniti,
così che Stalin autorizza la Corea del nord a sferrare un’offensiva lungo il 38°
parallelo, il 25 giugno 1950, con la ragionevole certezza che la conquista
della Corea del sud non comporterà una risposta militare americana.

Ma
si sbaglia, perché come conferma una nota dell’ambasciatore italiano a
Washington, Alberto Tarchiani, al ministro degli Esteri Carlo Sforza, la Corea
non ha rilevanza strategica per gli Stati uniti ma ha un grande valore
simbolico perché “l’eventuale conqui­sta di questa da parte delle forze
comuniste comporterebbe una perdita di prestigio tale da scuotere non solo in
Estremo Oriente, ma anche in Europa, la fiducia dei popoli liberi sull’appoggio
de­gli Stati uniti”.

Quando
la Corea del nord chiede assistenza per resistere alla controffensiva
americana, il 29 settembre 1950, Josip Stalin può solo rivolgersi a Mao Tse
Tung che l’8 ottobre 1950, quando le truppe americane ed alleate varcano la
frontiera del 38° paralle­lo dando inizio
all’occupazione della Corea del nord, ordina ai “volontari” cinesi di
intervenire e di travolgere, come difatti avviene, le truppe americane
obbligate ad una sanguinosa ritirata.

L’Unione
sovietica non può intervenire direttamente in soccorso dei compagni coreani
perché darebbe il pretesto agli Stati uniti di attaccarla usando l’arma nucleare,
come dal 1946 vanno pianificando .

Già
nel mese di giugno del 1946, gli americani avevano predispo­sto il “Piano
Pincher” (Morsa), che prevede un attacco nucleare all’Unione sovietica con
l’impiego di 50 bombe atomiche, e che resterà valido fino al 10 marzo 1948
quando sarà sostituito da un altro, denominato “Broiler”, che prevede
lo sganciamento di 34 bom­be atomiche su altrettante città sovietiche.

Solo
se l’attacco americano fosse stato realizzato, 1’Armata rossa sarebbe scattata
in avanti per occupare i centri industriali del­l’Europa occidentale certa che
su questi gli Stati uniti non avreb­bero potuto utilizzare i loro ordigni
nucleari.

Il
“pericolo rosso”, sotto il profilo militare negli anni dell’immediato
dopoguerra era inesistente, come prova il fatto che l’eser­cito sovietico era
passato dagli 11 milioni di uomini del 1945
ai poco più di 2 milioni del 1948, perché per un Paese distrutto da
una guerra spaventosa prioritaria era la ricostruzione non
l’espan­sione territoriale con la forza delle armi.

La
necessità di un riarmo delle Forze armate italiane non dovreb­be, pertanto,
essere al primo posto delle esigenze della Nazione e dello Stato.

Viceversa, nel clima bellico in cui vive
il Paese, dopo la ces­sazione delle ostilità, l’esigenza dei governi è il
rafforzamento delle forze di polizia e delle Forze armate.

Il
26 febbraio 1946, l’ambasciatore americano a Roma, Alexander Kirk, trasmette al
Dipartimento di stato la richiesta del presiden­te del Consiglio, Alcide De
Gasperi, già avanzata dal suo predeces­sore, Ferruccio Parri, di elevare il
numero dei carabinieri in ser­vizio da 65 mila a 75 mila.

Le
condizioni in cui versa l’Italia sono denunciate dalla sezio­ne R&A
dell’Oss in un rapporto del 2 febbraio 1946:

“1.700
calorie a testa invece delle 2.100 che rappresentano il minimo per una sana
sopravvivenza, condizioni generali peggiori che in qualsiasi altro paese
d’Europa se si eccettua la Germania, industrie ferme per mancanza di materie
prime e carburante, una disoccupazione in aumento che alla fine dell’inverno
toccherà il 40% delle forze lavorative come unica prospettiva (sia il gover­no
che il sindacato hanno dovuto accettarla), un’emigrazione massiccia in Francia
che indirizzerà fin d’ora 40.000 lavoratori in Belgio e mezzo milione in
Francia”.

Il
10 ottobre 1948, il quotidiano comunista “L’Unità” potrà scrivere,
senza essere smentito, che il bilancio del ministero degli Interni prevede
“40 miliardi per la polizia, 2 per la maternità ed infanzia”.

L’ultimo
combattimento che 1’Esercito italiano sosterrà, sul territorio nazionale, sarà
quello contro i separatisti, a San Mauro, nei pressi di Catania, il 29 dicembre
1945, per il resto concorre al mantenimento dell’ordine pubblico turbato,
specie in Meridione, dalle disperate condizioni di vita dei cittadini più che
dall’attività ”sovversiva” dei partiti socialista e comunista.

Il
riarmo delle Forze armate risponde, perciò, ad una logica po­litica interna ed
internazionale che callidamente prospetta la possibilità,
presentata come probabilità concreta, di un attacco mili­tare al Paese da parte
di una potenza straniera (L’Unione sovietica) in concorso con una “quinta
colonna” rappresentata dal Partito comunista.

Anche
quando i fatti hanno provatamente dimostrato l’inesisten­za di una volontà
insurrezionale da parte dei comunisti italiani, i governi italiano ed americano
continueranno ad insistere, accen­tuando i toni, sulla improrogabile necessità
di riarmare le Forze armate italiane.

Ne
è un esempio significativo la relazione della Cia del 24 feb­braio 1949, nella
quale si scrive:

“La volontà del popolo italiano di
resistere all’aggressione so­vietica è compromessa dal suo timore di
coinvolgimento in un’altra guerra, specialmente in assenza di efficaci mezzi di
autodifesa…Le
Forze armate italiane sono in grado di sconfiggere un’insurre­zione comunista,
ma solo dopo che siano avvenuti gravi danni. Nel­la misura in cui l’aiuto
militare degli Stati uniti accresca la loro capacità da questo punto di vista i
risultati sarebbero vantag­giosi…”.

Abbiamo
visto diplomatici di estrazione liberale come Manlio Brosio, politici
socialdemocratici come Giuseppe Saragat e democristiani come Giovanni Gronchi,
opporsi all’ingresso dell’Italia in una alleanza militare, ritenendo
giustamente più pertinente per il Pae­se una politica di stretta neutralità fra
i due blocchi, ma non c’è traccia di opposizione da parte degli ambienti
militari pur consa­pevoli che l’ingresso nella Nato avrebbe significato la
rinuncia definitiva all’indipendenza del Paese, alla sua sovranità naziona­le
e, di conseguenza, alla sua dignità nazionale.

Le
gerarchie militari hanno tutto da guadagnare dalla psicosi bellica, dalla paura
collettiva del “pericolo rosso” perché sono loro a rappresentare la
difesa del nascente regime democristiano con tutti i vantaggi materiali che
questa condizione comporta in termini di carriera, ampliamento dei reparti,
riarmo che si tradu­ce nella possibilità di ricostruire l’industria bellica
italiana, chiamata a lavorare sulle commesse militari americane, prima fra
tutte la Fiat, saldando in maniera indissolubile gli interessi
del mondo militare con quello industriale.

Il
3 gennaio 1950, il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi comunica al
governo la costituzione di nuove unità: la brigata alpina Julia, la brigata
corazzata Ariete, la divisione Granatieri di Sardegna, la divisione di fanteria
Avellino, e il progetto di ammodernamento dell’Aeronautica.

Gli
Stati uniti sostengono il riarmo delle Forze armate italia­ne, che ormai sono
integrate nella Nato.

Il
29 dicembre 1950, difatti, il segretario esecutivo del Natio­nal Security
Council, a Washington, in un rapporto relativo alla “minaccia
comunista” in Italia introduce il principio che quest’ul­tima, benché
nazione sconfitta, “nell’interesse della sicurezza de­gli Stati uniti e
dei paesi della Nato, possa derogare alle limitazioni al proprio riarmo”.

Il
7 marzo 1951, è approvata la legge che consente il riarmo del­le Forze armate,
superando parzialmente le limitazioni imposte dal Trattato di pace, e che
prolunga la ferma a 15 mesi effettivi.

Il 21 dicembre 1951, Stati uniti, Gran
Bretagna e Francia abroga­no 29 clausole del Trattato di pace imposto
all’Italia, in gran par­te riferite alle restrizioni sul piano militare.

Il
21 gennaio 1952, il Consiglio dei ministri approva uno stan­ziamento aggiuntivo

di 250 miliardi per il riarmo, suddivisi in due anni.

Il giorno successivo, il presidente del
Consiglio, Alcide De Gasperi, afferma che lo stanziamento straordinario per il
riarmo “non corri­sponde pienamente ai desideri dei nostri alleati
americani” e chiarisce che “a questa politica non vi è alternativa: o l’alleanza mi­litare con l’America, o una politica di
abbandono”.

La
casta militare non ha recriminazioni da fare nei confronti della classe dirigente
politica la cui politica pro-americana e filo-Nato è disposta a sostenere ad
oltranza anche venendo meno a quella che è la solidarietà all’interno delle
stesse Forze ar­mate nei confronti di ufficiali subalterni.

Il
10 ottobre 1956, il ministro degli Esteri Gaetano Martino invia una lettera
“riservata” al ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani, per
esprimere il suo parere contrario alla richie­sta di estradizione in Italia di
ufficiali germanici accusati di strage.

Per
i coloro i quali hanno espresso indignazione per 1’archiviazione di
procedimenti penali contro militari germanici ed hanno chiesto a gran voce di
conoscere i nomi
dei responsabili, è giu­sto riportare parte di quanto scritto da
Martino a Taviani:

“Sono
convinto che coloro i quali presero parte a così barbare azioni non meritino
personalmente alcuna clemenza. Non posso tut­tavia
nascondermi, come responsabile della nostra politica este­ra, la sfavorevole
impressione che produrrebbe sull’opinione pub­blica tedesca e internazionale
una richiesta di estradizione da noi avanzata al governo di Bonn a distanza di
ben 13 anni da quan­do i dolorosi incidenti surriferiti ebbero luogo tanto più
che una buona parte dei militari incriminati risulterebbero già stati giudicati
e condannati dalle corti alleate al momento opportuno e cioè nell’immediato
dopoguerra. Ma,
a parte le considerazioni negative che potrebbero farsi su questo nuovo tardivo
risveglio non ho bisogno di sottolineare a te, che segui da vicino i problemi
della collaborazione atlantica ed europea da parte del governo di Bonn, una
nostra iniziativa che venisse ad alimentare la polemica sul comportamento del
soldato tedesco. Proprio
in questo momento infatti tale governo si vede costretto a compiere presso la
propria opinione pubblica il massimo sforzo, allo scopo di vincere la
resistenza che incontra oggi in Germania la ricostruzione di quelle Forze
armate, di cui la Nato reclama con impazienza l’allestimento”.

Il
20 ottobre 1956, il ministro della Difesa, Paolo Emilio Ta­viani, annota nel
suo diario:

“Gaetano
Martino mi scrive che non è opportuno chiedere alla Ger­mania l’estradizione di
Speidel ritenuto (ma ci sono dei dubbi) uno dei responsabili della strage di
Cefalonia. I russi stanno per invadere 1’Ungheria. Il riarmo tedesco è più che
mai indispen­sabile. Moro mi aveva detto che la competenza non è sua, ma è mia
e degli Esteri. Mi ero imposto, contro il parere di Mancinelli, per iniziare la
pratica di estradizione. Ma ora, non ci penso neppure a insistere per questo
Speidel. Martino ha ragione”.

Motivazioni
politiche di carattere militare ed internazionale: non si potranno schierare le
armate germaniche a fianco di quelle anglo-sassoni ed alleate contro l’Unione
sovietica continuando a perseguire i loro ufficiali.

La logica che sta alla base della
decisione italiana di archivia­re i procedimenti penali a carico degli
ufficiali tedeschi è ineccepibile, ed è condivisa sia dai vertici politici che
da quelli mili­tari .

La
ragion di Stato, americana ed atlantica, non viene però re­cepita e avallata da
un gruppo di ufficiali della divisione di fan­teria “Acqui”, di
stanza a Cefalonia nel mese di settembre del 1943. Loro l’estradizione ed il processo
a carico di uno degli ufficiali tedeschi che partecipò alla repressione dei
militari italiani nel­l’isola greca li vogliono, anzi li esigono.

Ricondurli
alla ragione non è, però, difficile per un vertice mi­litare che non nutre
sentimentalismi di sorta. Così, il 23 novembre 1956, il giudice istruttore
militare Carlo Del Prato spicca un mandato di
comparizione a carico di Renzo Apollonio ed altri ex uffi­ciali della divisione
“Acqui”, ipotizzando a loro carico i reati di rivolta continuata, cospirazione
ed insubordinazione con mi­naccia verso un superiore ufficiale, per aver
disobbedito agli ordini “di desistere da ogni atto ostile e di predisporre
la cessio­ne ai tedeschi delle armi pesanti”, inducendo “la truppa
alla ri­volta per commettere atti di ostilità contro i tedeschi al fine di
creare il “fatto compiuto” e contrastare militarmente le truppe
germaniche.

Posti
di fronte alla possibilità di essere processati come colo­ro che, infrangendo
le regole del dovere militare, avevano provoca­to il massacro dei loro
commilitoni a Cefalonia, Apollonio ed i suoi colleghi rinunciano ai loro
propositi di vendetta e riscopro­no che l’obbedienza è il mezzo migliore per
fare carriera.

L’ondata
di retorica sugli “eroici caduti” italiani di Cefalonia è rinviata di
50 anni, quando cioè l’opportunità e la convenien­za politiche faranno, negli
anni Novanta, dello Stato di Israele il faro della politica governativa
italiana di centro-destra e di centro-sinistra, che fa “scoprire” gli
“armadi della vergogna” e spende miliardi per istruire processi a
carico di novantenni uffi­ciali, sottufficiali e semplici soldati tedeschi da condannare
al­l’ergastolo perché, perbacco, la giustizia deve fare il suo corso e punire i
criminali di guerra tedeschi.

Del
resto, dall’8 settembre 1943 le parole onore e dignità sono cancellate dal
vocabolario politico e militare italiano.

Il
rapporto fra le gerarchie militari ed i vertici politici de­mocristiani
s’incrina per la prima volta nel 1959, quando, rispet­tivamente, il 28 marzo ed
il 29 marzo, rassegnano le dimissioni il capo di Stato maggiore dell’esercito,
Giorgio Liuzzi, e il ca­po di Stato maggiore della Difesa, Giuseppe Mancinelli,
per contra­sti mai resi pubblici con il ministro della Difesa, Giulio Andreotti.

Dopo
la Seconda guerra mondiale, il mondo non ha conosciuto la pace.

Il
processo di decolonizzazione ha infiammato l’Asia con la guerra d’Indocina
sostenuta dalla Francia, la guerriglia in Malesia, Fi­lippine, Indonesia, la
guerra di Corea ha obbligato gli Stati uni­ti ad intervenire militarmente e a
scoprire la propria incapacità di vincere una guerra convenzionale per
l’impossibilità di usare il suo arsenale nucleare.

Dalla metà degli anni Cinquanta, il
processo di liberazione dal dominio coloniale bianco investe 1’Africa e l’area
del Mediterra­neo ridiviene terra di frontiera e di conflitto.

La
guerra civile in Grecia è finita il 16 ottobre 1949, con la netta sconfitta
dalla guerriglia comunista, ma dall’autunno del 1954 è in corso la guerra
d’Algeria che vede la Francia incapace di reprimere militarmente la rivolta che
si vuole alimentata pro­prio dall’Unione sovietica.

Ma,
se i paesi arabi sono in fermento, l’avvenimento che deter­mina la svolta è
rappresentato dalla fornitura di armi che la Ce­coslovacchia, nel mese di
luglio del 1955, concede all’Egitto, su richiesta del governo sovietico che
vede, ormai, in Israele uno strumento dell’imperialismo anglo-sassone.

La polveriera mediterranea s’infiamma
con l’attacco franco-britannico-israeliano all’Egitto del 29 ottobre 1956, che
determina per la prima volta, la minaccia sovietica di intervenire direttamente
con proprie truppe a difesa dei Paesi arabi sotto attacco.

Asia,
Africa e Medio Oriente non sono inclusi nei patti di Jal­ta, quindi in quelle
aree lo scontro fra Stati uniti ed Unione so­vietica può avvenire senza
esclusione di colpi, con l’avvertenza di condurlo per interposta persona.

Le due potenze mondiali sostengono le
lotte di liberazione na­zionali avversando entrambi il colonialismo europeo, ma
gli Sta­ti uniti si trovano a dover fare i conti con il fatto che le po­tenze
coloniali sono componenti essenziali dell’Alleanza atlanti­ca: dal Portogallo
all’Olanda, dalla Francia alla Gran Bretagna.

Il
blocco occidentale concorda solo sulla difesa ad oltranza di Israele, divenuta
sentinella avanzata del “mondo libero” in un Medio Oriente in cui la
presenza sovietica ed il diffondersi del marxismo-leninismo divengono, via via,
sempre più forti.

L’Italia non è direttamente coinvolta
nei conflitti, ma divie­ne anch’essa prima linea quando 1’Unione sovietica
rafforza in modo massiccio la propria Marina militare per presidiare il Mediterraneo
insidiando minacciosamente la supremazia della VI flotta americana.

Il
5 gennaio 1957, a Washington, il presidente Dwight Eisenhower proclama la sua
dottrina per il Medio Oriente ufficialmente diretta a contrastare
l'”aggressione comunista”.

“La
perdita del Medio Oriente – afferma Eisenhower – determine­rebbe una situazione
di strangolamento per il mondo libero”.

La
dottrina sancisce l'”autorizzazione ad
impiegare le Forze armate per assicurare e proteggere l’integrità
territoriale e l’indipendenza politica di
qualsiasi nazione o gruppo di nazioni nel Medio Oriente che
domandi l’assistenza americana contro un’aggressione armata proveniente da
qualunque Paese che sia controllato dal comunismo
internazionale”.

L’anno
successivo, il 18 luglio 1958, le truppe americane e britanniche sbarcano in
Libano ed in Giordania dando applicazio­ne pratica alla dottrina Eisenhower e
ribadendo la sfida all’U­nione sovietica, che l’accetta potenziando la sua
flotta ed impo­nendo la sua presenza nel Mediterraneo.

Dal
momento in cui la minaccia militare sovietica, per la pri­ma volta dal 1945,
diviene concreta le Forze armate iniziano a rivendicare un ruolo maggiore
all’interno degli Stati occidenta­li, in nome della battaglia contro il
comunismo internazionale”..

Non
si profila solo la possibilità di una guerra convenzionale, perché la guerra
politica si combatte anche con altre e diverse armi.

Così
che nel blocco occidentale tutta la comunità dei servizi segreti è messa in
allarme dalla ricostituzione a Mosca del di­rettorato “D”, il 23
giugno 1959, nell’ambito del primo diparti­mento generale (spionaggio) del Kgb
al comando di Ivan Agato, “in­caricato della pianificazione o della
diversione su scala strate­gica”.

      La mossa sovietica viene interpretata
come il segnale di un campagna di disinformazione su scala planetaria da parte
di Mosca, tanto che i dirigenti dei servizi segreti occidentali non crederanno,
inizialmente, alla veridicità dello scontro fra Unio­ne sovietica e Cina
popolare.

Dal
1° al 3 dicembre 1959, a Parigi, presso la sede della Nato, si svolge una
conferenza internazionale sulla “guerra politica dei Soviet”, nel
corso della quale è prospettata la necessità di organizzare la lotta politica
anticomunista costituendo uno Stato maggiore misto, composto da civili e
militari.

Le
Forze armate propongono sé stesse come nuova forza politica,
il partito nuovo che i mezzi
di cui dispone
e la disciplina dei suoi adepti può
garantire la vittoria contro
il comunismo e salvare la
civiltà occidentale.

Il
precedente delle Forze armate francesi che, da Algeri, il 13 maggio 1958, han­no
imposto il generale Charles De Gaulle come nuovo presidente della Repubblica
transalpina, senza violare la legalità costitu­zionale, ha fatto scuola perché
ha dimostrato che i militari han­no un ruolo da svolgere in campo politico e
non sono disposti a subire passivamente le decisioni dei governi quando non
conformi alle necessità della battaglia contro il
comunismo internaziona­le .

In
Italia, il tentativo di staccare il Partito socialista da quello comunista
condotto da Aldo Moro, ridesta i timori americani di un risorgere nella
penisola di tendenze neutraliste, come segnalato da un documento redatto, il 10
gennaio 1958, dall’Office of intelligence research and analysis (Oir) del
Dipartimento di stato.

Gli
americani hanno inizialmente guardato con sospetto e diffi­denza alla politica
di centro-sinistra ritenuta essenziale da par­te di una parte della dirigenza
democristiana per assicurare gover­nabilità al Paese.

L’8
agosto 1956, avevano perfino ipotizzato che l’azione di Pie­tro Nenni fosse
ispirata direttamente dal governo sovietico, ma successivamente la Central
intelligence agency (Cia) aveva aderi­to, senza riserve, alla tesi che il
passaggio del Partito socialista al campo democratico ed il suo ingresso
nell’area governati­va avrebbero costituito un duro colpo al Partito comunista
che ne avrebbe risentito anche in termini di consensi elettorali.

Le
speranze americane sono chiaramente espresse in una lettera che Robert Komer,
membro del Consiglio di sicurezza nazionale, scri­ve ad Arthur Schlesinger, il
9 giugno 1961:

“Un’ultima
rottura tra Psi e Pci, risultante da un eventuale governo di centrosinistra,
potrebbe distruggere definitivamente le speranze dei comunisti di conquistare
una maggioranza parlamenta­re e creare un’alternativa dinamica non
comunista”.

Lo
stesso Arthur Schlesinger, il giorno successivo, 10 giugno, invia al presidente
John F. Kennedy un memorandum in vista della visita del presidente del
Consiglio italiano, Amintore Fanfani, nel quale, fra l’altro, suggerisce di
“ripetere la posizione ame­ricana che continuiamo a favorire misure severe
ed efficaci con­tro lo spionaggio e la sovversione comunista e che l’apertura a
sinistra renderebbe quelle misure ancora più importanti”.

Il
centro-sinistra non è quindi considerato un momento della crescita democratica
dell’Italia, ma è solo un espediente, fra i tanti, per contrastare il Partito
comunista e, nel contempo, per garantire alla Democrazia cristiana la
possibilità di governare senza doversi appoggiare ad alleati che, sul piano
elettorale, hanno poco da offrire.

In
caso di fallimento della politica di centro-sinistra, ci so­no le Forze armate
a garantire la governabilità del Paese con il consenso dei dirigenti
democristiani o in dissenso da essi.

Gli
anni Sessanta rappresentano il decennio più “caldo” della
“guerra fredda”: la Francia sotto attacco da parte della Nato con
l’organizzazione clandestina, formata da militari, dell’Oas; il colpo di Stato
in Grecia; la guerra dei sei giorni in Medio Oriente che divamperà fino
all’armistizio dell’agosto 1970 con l’afflusso in Egitto di migliaia di
consiglieri militari sovie­tici; la flotta russa che schiera fino a cinquanta
navi nel Me­diterraneo; la destabilizzazione dell’Italia.

In
questo panorama, anche in quei Paesi laddove è possibile occultare la guerra
dietro il paravento di una pace inesistente, le Forze armate divengono un
elemento fondamentale e decisivo della lotta politica.

La
destra
politica italiana inizia a guardare alle Forze armate come lo scudo
contro il comunismo, in grado di
usare con efficacia la spada per
la controffensiva
definitiva.

Lo
Stato maggiore della Difesa, da parte sua, non rimane indif­ferente né in
attesa di ordini politici per predisporre gli stru­menti necessari per prendere
parte, con un ruolo predominante, al­la battaglia contro il “nemico
interno”.

Crea, come vedremo, strutture
clandestine, addestra uomini, ela­bora dottrine, affina concetti, allarga
l’attività informativa dei reparti addetti alla sicurezza.

È
vero che la circolare del reparto “D” del Sifar che dispone la
schedatura di “tutte le personalità che possono assurgere ad alte cariche
o comunque inserirsi o essere interessate alle prin­cipali attività della vita
nazionale, in qualsiasi campo”, risale al 26 febbraio 1959, dieci giorni
dopo l’insediamento al ministero della Difesa di Giulio Andreotti, ma è
altrettanto vero che il Si­far è alle dipendenze dello Stato maggiore della
difesa che non può, pertanto, essere considerato estraneo o addirittura ignaro
di que­sta attività di illecita e generalizzata schedatura.

La
situazione politica è attentamente monitorata dagli Stati maggiori, come
dimostra la nota informativa che l’ufficio “I” del Comiliter di
Firenze trasmette, il 29 gennaio 1964, al generale di brigata Edoardo
Formisano, responsabile del Sios Esercito, nel­la quale è possibile leggere che
nei confronti del centrosinistra, negli ambienti industriali e commerciali,
l’orientamento prevalente sembra “sfumare dalla primitiva posizione di
assoluto con­trasto…ad una cauta attesa e di generico consenso”.

Non
risulta che il Sios esercito, e quelli delle altre Armi, ab­biano l’autorità di
svolgere indagini di carattere politico ed è certo, viceversa, che sono stati utilizzati
per fini esclusivamente politici.

La
politica di guerra globale al comunismo
decisa da John F. Kennedy investe in pieno l’Italia.

Se
Aldo Moro vede nel centro-sinistra una mossa astuta per garan­tire la
governabilità, la Cia ci vede uno strumento di lotta contro il Partito
comunista, ma gli americani prendono in esame anche al­tre opzioni.

Il
19 gennaio 1961, il National security council emana la direttiva 6014/1 nella
quale si stabilisce che “se i gruppi comunisti o del fronte comunista
dovessero significativamente aumentare la loro influenza sul governo italiano,
e specialmente se la deter­minazione anticomunista dovesse scemare, gli Stati
uniti dovranno prendere in considerazione ogni possibile azione non militare (omissis)
sia da soli sia in cooperazione con altre nazioni alleate, per appoggiare
qualsiasi resistenza italiana contro queste tendenze”.

In
Italia, è lo Stato maggiore della difesa a predisporre le necessarie
contromisure per garantirsi la possibilità d’intervenire nel caso di cedimento
da parte della Democrazia cristiana nei con­fronti del Pci.

Il
27 febbraio 1961, in un appunto per il direttore del Sifar, generale Giovanni
De Lorenzo, sono presi in esame i problemi ine­renti al coordinamento tra
un’organizzazione paramilitare (la cui costituzione è stata suggerita dal
comando designato 3ˆ Armata), una organizzazione militare palese con scopi
occulti (già allo studio dello Stato maggiore esercito) e una organizzazione
clan­destina già a disposizione del Sifar.

Nell’appunto si afferma, fra l’altro,
che “nella indicazione dei compiti si è omesso – tra i compiti che il
Sifar ha assegnato al­le sue organizzazioni – quello dell’intervento in caso di
sovver­timento interno. Tale particolare compito configura in maniera an­cora
più evidente il carattere globale dell’operazione di emergen­za predisposta dal
Sifar, avente cioè scopi e riflessi non soltan­to nel settore militare, bensì
sull’intero piano nazionale”.

Per
comprendere appieno che la storia del contrasto del comuni­smo
in Italia è storia militare, non
solo politica, bisogna fare il punto sui servizi segreti militari che
un’accorta campagna di disinformazione portata avanti dai mestieranti senza
scrupoli del giornalismo italiano e da giudici interessati alla carriera (e, a
volte, anche quella politica), ha presentato come un istituzione dipendente
esclusivamente dalla politica, autonomo e incline a deviazioni.

I
servizi segreti militari sono, viceversa, un reparto delle Forze armate che
rispondono del proprio operato allo Stato mag­giore della difesa.

Il
30 marzo 1949, con dispaccio n. 365/S, il ministro della Di­fesa Randolfo
Pacciardi dispone che l’Ufficio I dell’Esercito, il Sis della Marina e il Sia
dell’Aeronautica confluiscano, con de­correnza 5 aprile 1949, nel Sifa
unificato, alle dirette dipenden­ze del capo di Stato maggiore della difesa.

Nello
stesso dispaccio, inoltre, si riconosce il presidente del Consiglio come
“autorità per la sicurezza nazionale”, titolare del segreto di Stato.

Il
1° settembre 1949, diviene operativo il Servizio informazio­ni della Forze armate
che assume la denominazione di Sifar, e vie­ne posto al comando del generale
Giancarlo Re, che già dirigeva l’Ufficio informazioni dell’esercito dal 31
ottobre 1947, e cesserà dall’incarico il 21 marzo 1951.

Nessun
dubbio, pertanto, sulla diretta dipendenza del servizio segreto militare dallo
Stato maggiore della Difesa, la cui autori­tà sul reparto viene riconfermata il
28 luglio 1950, quando viene istituito il Consiglio di difesa presso il quale
il capo di Stato maggiore della difesa svolge funzioni tecniche.

La
legge n. 624 che istituisce il Consiglio di difesa stabili­sce, difatti, che
“il Capo di SMD sovraintende al Servizio unifi­cato informazioni militari
e attua per prevenire azione dannosa al potenziale difensivo del Paese”.

Il
18 novembre 1965, con dpr n. 1478 si ridefiniscono i compiti del Sifar che
continua a dipendere dallo Stato maggiore della difesa al quale sono assegnati
i ruoli di “sovraintendenza” ed “ispettivo”, riconfermati con la
circolare del 25 giugno 1966, emanata dal ministro della Difesa, Roberto
Tremelloni, che modifi­ca la denominazione del servizio segreto da Sifar a Sid
(Servizio informazioni difesa), con decorrenza dal 1° luglio 1966.

La cortina fumogena callidamente creata
intorno alla dipenden­za dei servizi segreti militari dallo Stato maggiore
difesa si è rivelata funzionale alla copertura delle responsabilità di questo
ultimo.

Ma, accanto ai servizi segreti militari
ci sono i Sios delle tre Armi che dipendono dai rispettivi Stati maggiori e
fanno capo al­lo Stato maggiore
della Difesa.

Il 24 luglio 1991, a Johannesburg (Sud
Africa), il generale Gianadelio Maletti, ex responsabile dell’ufficio
“D” del Sid, dichia­ra ai magistrati che lo interrogano:

“Non ho mai prestato servizio
all’interno del V Corpo d’Armata di Vittorio Veneto. So però che da sempre tra
i suoi compiti rien­trava quello di organizzare una resistenza nel caso di
invasione a opera delle Forze armate dell’Est europeo. Si
trattava di un’attività di resistenza che doveva essere po­sta in essere da
personale non militare. Ritengo che dipendesse dal SIOS dell’Esercito”.

A
parte la reticenza del generale Maletti che gli suggerisce di escludere la
partecipazione di reparti militari d’élite alla eventuale guerra di guerriglia
contro gli improbabili invasori sovieti­ci, è significativo che stabilisca un
rapporto di dipendenza del­la struttura “Gladio” dal Sios esercito
che, a sua volta, rispon­de al capo di Stato maggiore dell’esercito.

La
conferma, fra altre, giunge da una riunione svoltasi il 3 marzo 1964 fra il
comandante del Sios esercito, il capo dell’uffi­cio “R” del Sifar e
il responsabile della sezione Sad (“Gladio”) sull’impegno degli
ufficiali “I”. Si decide che l’attività addestrativa inizi in autunno
e si stabilisce di trovare una denominazione di copertura per meglio garantire
la sicurezza dell’operazione.

Il
Sios esercito, alle dirette dipendenze dello Stato maggiore dell’esercito,
interviene quindi nella battaglia politica contro
il comunismo ed il lassismo democristiano
nei confronti di quest’ul­timo.

A
definitiva conferma che “Gladio” non s’identifica con il solo
servizio segreto militare, c’è il fatto che, il 20 gennaio 1970, è il
responsabile del Sios-esercito, generale Vito Miceli, ad invia­re
una nota sulle “Stay-behind” al
nuovo capo di Stato maggiore della
difesa, generale Enzo Marchesi.

Cosa
abbia rappresentato “Gladio” nella
battaglia contro il co­munismo
è fatto storicamente provato ma qui interessa far rileva­re che
la sua attività politica non derivò dal fatto di essere una struttura
ufficialmente inserita nel servizio segreto militare,
ben­sì dagli ordini che provenivano dai vertici della Forze
armate, incredibilmente rimasti estranei sul piano giudiziario e su quello
storico.

Ufficiali
del Sios esercito li troviamo implicati nelle
vicende oscure e tragiche degli anni
cosiddetti di “piombo”, da Amos Spiazzi, plurinquisito, al colonnello
Cosimo Pace ed al capitano Pietro Cangioli inseriti
nell’organigramma dei “congiurati” del
“golpe
Bor­ghese”, e nella direzione del
servizio di spionaggio illegale or­ganizzato
dalla Fiat troviamo ufficiali del Sios Aeronautica.

In
quest’ultimo caso si potrebbe eccepire che l’azienda torine­se fabbrica anche
armi, aerei, blindati ecc. e che, quindi, è nor­male che il suo servizio di
sicurezza interna fosse diretto da uo­mini dei servizi segreti.

Però,
le schedature della Fiat non riguardavano
i
possibili vio­latori dei segreti militari né tendevano ad individuare eventuali
sabotatori, perché erano finalizzate al controllo politico delle maestranze e
dei loro familiari, e non solo.

Il
18 settembre 1950, l’illegale struttura informativa della Fiat redige una
scheda sul conto di Sergio Garavini, definito”capo ufficio informazioni
della Federazione” del Pci, il quale “ha riunito
sabato sera gli agenti di informazione ai quali ha impartito disposizione per
intensificare la propaganda in seno all’eser­cito. Ha raccomandato di estendere
la maggiore attività fra gli ufficiali in s.p.e. e di tenersi in continuo
collegamento con le cellule ufficiali di complemento. Particolare
raccomandazione ha rivol­to all’attivista F. E. capocellula presso il Distretto
militare con il quale si è compiaciuto per il lavoro fin qui svolto”.

Sergio
Garavini, dirigente del Partito comunista, non ha alcun rapporto diretto od
indiretto con la Fiat.

Il
24 gennaio 1955, il servizio segreto della Fiat stila un rap­porto informativo
sul conto di M.D. ex “staffetta partigiana” e militante del Partito
d’azione, di cui ora si sospetta che svolga, in realtà, attività politica a
favore del Pci.

M.D.
non ha alcun rapporto, diretto od indiretto, con la Fiat.

La
prova che lo Stato maggiore della Difesa, tramite lo Stato mag­giore
dell’Aeronautica che ha utilizzato il proprio Sios, ha costi­tuito nel
dopoguerra un servizio di spionaggio illegale in campo industriale, non per
proteggere segreti ma per controllare le mae­stranze e quanti altri cittadini
avevano la ventura di attirarne l’attenzione, viene da un telegramma inviato
dall’amministratore delegato della Fiat, il 6 settembre 1954, all’ambasciatrice
ame­ricana Clara Booth Luce:

“1)
Da gennaio ad agosto abbiamo sospeso o licenziato 687 inde­siderabili, oltre ai
700 precedenti e ve ne abbiamo comunicato i nomi. 2) D’accordo col ‘country
team’ abbiamo intensificato gli sforzi per la fusione degli indipendenti con la
Cisl e la Uil a danno della Cgil. 3) Ci siamo anche accordati sulla istituzione
di una entità di sicurezza composta da esponenti dell’aeronautica italiana,
dell’ambasciata americana e della Fiat. 4) Stiamo contat­tando altre società,
la Om, la Magneti Marelli, la Borletti, perché seguano il nostro esempio”.

Non ci sono, pertanto, dubbi: la Fiat ha
utilizzato per tutto il dopoguerra un servizio segreto proprio, diretto da
personale del Sios Aeronautica e coordinato con esponenti dei servizi segreti
americani.

Anche
in questo caso, la presenza della Forze armate nello svol­gimento di
un’attività spionistica illegale ai danni di cittadini italiani, organizzata
dal capitalismo privato indigeno, è fuori discussione.

L’amministratore
delegato della Fiat, Vittorio Valletta, il 22 agosto 1950, ad Egidio Ortona
aveva confessato:

“Non
possiamo fare che una sola politica: quella dell’America per l’America”.

Alla
stessa conclusione sono giunti, fin dall’8 settembre 1943, i vertici militari
italiani.

Come
abbiamo visto, nell’appunto del Sifar del 27 febbraio 1961
si fa riferimento ad una organizzazione paramilitare “la cui co­stituzione
è stata suggerita dal comando designato 3ˆ Armata”.

Il
30 dicembre 1997, il generale Vittorio Emanuele Borsi di Par­ma dichiara al
giudice istruttore di Venezia, Carlo Mastelloni:

“Sapevamo
dal Sifar dell’esistenza di un’organizzazione parami­litare di estrema destra
chiamata Ordine Nuovo sorretta dai servizi di sicurezza della Nato che aveva
compiti di guerriglia, e di informazione in caso di invasione.

Si
trattava di civili e militari che, all’emergenza, dovevano comunicare alla
nostra Armata (la III con sede a Padova – Ndr) i movimenti del nemico. Si
trattava di un’organizzazione tipicamente americana munita di armamento e di
attrezzature radio”.

Se
consideriamo i rapporti privilegiati intercorsi fra Pino Rauti, giornalista del
quotidiano “Il Tempo” di Roma, e capo di “Ordi­ne nuovo”
spacciata per organizzazione “neonazista”, ed il capo di Stato
maggiore dell’esercito Giuseppe Aloja; se leggiamo la scheda di adesione ad
“Ordine nuovo”; se ripercorriamo la carrie­ra dello stesso Rauti, non
dobbiamo fare molta fatica a collegare l’organizzazione paramilitare di cui si
parla nell’appunto del 27 febbraio 1961 a quella descritta dal generale Borsi
di Parma (che ne fa esplicitamente il nome) che ha il suo gruppo più forte nel
Triveneto.

     I vertici militari agiscono, quindi,
operando su più piani, oc­culti e palesi, dando inizio, in prima persona, ad
una campagna propagandistica che deve denunciare la “guerra
rivoluzionaria” comunista e, nel contempo, la necessità di riconoscere
alle For­ze armate, cioè a sé stessi, la responsabilità di combatterla.

Dal
18 al 21 novembre 1961, a Roma, si svolge il secondo conve­gno sulla “guerra
rivoluzionaria dei Soviet”, al quale, insieme ai politici, prendono parte
decine di alti ufficiali.

Il
convegno del 3-5 maggio 1965, a Roma, organizzato ufficial­mente dall’istituto
di studi militari “A. Pollio”, sul tema solito, “La guerra
rivoluzionaria”, è stato voluto dal capo di Stato mag­giore dell’esercito,
Giuseppe Aloja, e finanziato con i fondi del servizio segreto militare.

Il 20 giugno 1969, a Roma, si svolge un
convegno organizzato dal­l’istituto di studi militari “N. Marselli”
sul tema “La difesa civi­le in Italia”, al quale prende parte il
ministro della Difesa, Lui­gi Gui.

Il
14 marzo 1971, a Roma, si svolge una manifestazione organizzata dall’associazione
“Amici delle Forze armate”.

Due
mesi più tardi, sempre a Roma, dal 24 al 26 giugno 1971, si svolge il convegno
sul tema “Guerra non ortodossa e difesa”, orga­nizzato, anche in
questa occasione, dall’istituto di studi milita­ri “N. Marselli”, al
termine del quale si auspica che “le Forze ar­mate abbiano più peso nella
vita della Nazione e siano presenti là dove si fanno grandi scelte nazionali,
per esempio nella programma­zione” .

Le
Forze armate non si offrono più come servitori dello Stato, ma vogliono essere
esse stesse lo Stato.

Nell’estate
del 1964, le gerarchie militari avevano sostenuto la Democrazia cristiana
impegnata a riportare all’ordire il Par­tito socialista, spaventandolo con il
“tintinnio delle sciabole”.

La
gazzarra scatenata dalla sinistra italiana contro il generale Giovanni De
Lorenzo, fantasiosamente accusato di voler fare un”colpo di Stato”
utilizzando la sola Arma dei carabinieri di cui è comandante, ha messo
opportunamente in ombra che dal presidente del­la Repubblica, Antonio Segni, si
è recato, su convocazione, anche il capo di Stato maggiore della difesa, generale
Aldo Rossi.

Mentre
naufraga nel ridicolo la pretesa che l’Arma dei carabinieri possa, con le sue
sole forze, compiere un “colpo di Stato” in Italia prescidendo dalla
volontà e dal concorso delle altre Armi, dei loro Stati maggiori e dello Stato
maggiore della Difesa.

Non
esiste nella storia dei colpi di Stato del XX secolo un so­lo esempio di azione portata innanzi da
una parte delle Forze ar­mate, in assenza o addirittura in contrasto con le
altre.

Il
tentativo fatto dai generali francesi, il 22 aprile 1961, di abbattere il
presidente della Repubblica, Charles De Gaulle, è un esempio di come una parte
delle Forze armate non possa prevalere sulle altre.

In
linea teorica, un colpo di Stato militare può essere fatto dal solo esercito,
senza il concorso della Marina e dell’Aeronau­tica, non certo da una parte di
esso.

E
l’Arma dei carabinieri era parte integrante dell’Esercito, non la più numerosa
né la meglio armata.

Tanto
non vuole dire che le Forze armate siano sempre rimaste compatte nella loro
azione politica e di contrasto del comunismo nazionale.

La “guerra dei generali” che
ha visto la contrapposizione fra il capo di Stato maggiore dell’esercito,
Giovanni De Lorenzo, e quello della Difesa, Giuseppe Aloja, ne è una eloquente
riprova.

L’ex segretario amministrativo del Sifar
e dell’Arma dei cara­binieri, colonnello Luigi Tagliamonte, ebbe a dire un
giorno che il generale De Lorenzo è stato defenestrato perché non aveva vo­luto
accettare la “strategia della tensione”.

Un
fatto è certo. Il 20 aprile 1966, il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe
Aloja, emana una direttiva in cui racco­manda “l’educazione morale e
civica” per “immunizzare il combat­tente dalla propaganda sovversiva
tendente alla disgregazione del­la compagine militare”, e contestualmente
preannuncia “una specifica normativa sull’arma psicologica”.

Il
giorno successivo, con una tempestività fulminea, il capo di Stato maggiore
dell’esercito, Giovanni De Lorenzo, emana a sua vol­ta una direttiva nella
quale ribadisce l’apoliticità delle Forze armate ed impone di eliminare
“nella trattazione degli argomenti qualsiasi riferimento che possa – anche
vagamente – far pensare ad una visione di parte”.

Non
c’è uno scontro solo personale fra
i due massimi esponenti delle Forze armate, ma una diversa ed
opposta concezione della lotta al comunismo.

Fa
riflettere che la destituzione del generale Giovanni De Lo­renzo, il 15 aprile
1967, sia avvenuta per imposizione di Giusep­pe Saragat, ora presidente della
Repubblica, nell’imminenza del­l’avvio sul piano operativo dell’operazione
“Chaos”, varata dal­la Cia e che ha avuto, per l’Italia, conseguenze
tragiche.

Anche
la morte, avvenuta in un incidente stradale dalla dinami­ca sospetta, del
generale Carlo Ciglieri, ex comandante generale dell’Arma dei carabinieri ed in
quel momento a capo del comando designato della 3ˆ armata, a Bassano del Grappa
il 27 aprile 1969, induce a pensare che ci siano state delle resistenze forti,
al­l’interno delle più alte gerarchie militari, alle operazioni clan­destine condotte
dagli americani sul nostro territorio.

Eliminati,
in un modo o nell’altro, i dissensi interni, le Forze armate si pongono ora
come l’ago della precaria bilancia poli­tica italiana.

Adulate
dalla destra, da parte dei democristiani, ritenute dai socialdemocratici e
dagli uomini di Pietro Nenni le sole in grado di risolvere la situazione
interna e di liquidare il Partito comu­nista, le gerarchie militari si calano
nei panni dei pretoriani che scelgono i loro imperatori.

A
partire dall’estate del 1967 e fino all’autunno del 1974, le Forze armate
assolveranno il compito di condizionare la politica democristiana, ritenuta
troppo arrendevole nei confronti del Pci, sostenendo i socialdemocratici
considerati i “duri” dello schiera­mento politico anticomunista e
facendo balenare, ora in modo palese ora in modo criptico, la loro
disponibilità ad intervenire per porre fine al disordine pubblico e sventare la
minaccia rappresen­tata dall’avvicinamento del Pci all’area governativa.

Non
hanno mai ipotizzato le pavide gerarchie militari italiane un colpo di Stato alla
cilena o alla greca, perché nessun esponen­te militare ha mai avuto sufficiente
carisma per proporsi – ed es­sere accettato – come il capo indiscusso di una
eventuale Giunta militare.

Inoltre,
ancora più dei politici, i militari mantenevano uno stretto rapporto di
sudditanza con i loro colleghi dell’Alleanza atlantica e degli Stati uniti.

E
gli americani non hanno mai preso in considerazione la possi­bilità di agire
come in Cile ed in Grecia, di imporre cioè agli italiani un governo militare.

Hanno, invece,
cercato il “pretesto” per dare ad un governo civi­le, sostenuto dalle
Forze armate, la possibilità di proclamare lo “stato di emergenza”,
di sospendere temporaneamente le garanzie costituzionali o, in subordine, per
applicare quegli articoli del codice penale che avrebbero consentito di
trasformare i dirigenti del Partito comunista in imputati in stato di
detenzione.

In
entrambi i casi, il ruolo dei militari sarebbe stato fondamentale perché erano
i soli in grado di garantire l’ordine pubbli­co sull’intero territorio
nazionale anche facendo uso delle armi.

Quando
questo Paese sarà liberato dal liquame giornalistico e storico della sinistra,
si potrà riconoscere in Junio Valerio Bor­ghese un esponente dell’establishment
militare interno ed internazionale e, con esso, si potrà riconoscere che
tutta la sua azio­ne politica è stata ispirata e concordata con i vertici
militari, italiani e stranieri.

Sarà,
quindi, possibile riconoscere nell’operazione che ha por­tato agli attentati
del 12 dicembre 1969 il “pretesto” che avreb­be giustificato la
proclamazione dello “stato di emergenza” e avrebbe consentito a
Giuseppe Saragat ed ai socialdemocratici di assumere una posizione di
preminenza anche nei confronti dei demo­cristiani perché a loro, e non ai
secondi, guardavano le gerarchie militari per giungere alla costituzione di
quello Stato forte che auspicavano.

In nota informativa della divisione
Affari riservati del ministe­ro degli Interni del 23 febbraio 1971, riferito al
Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese, è scritto:

“Fn è inserito in un gioco di
industriali, Cia, Psu, militari, al fine di favorire non tanto un colpo di
Stato, ma un colpo d’or­dine” .

La Medaglia d’oro al V.M. Junio Valerio
Borghese rappresentava gli interessi e le aspirazioni dei “poteri
forti”, primo fra tutti quello militare.

Il presunto, per il
liquame giornalistico e storico di sinistra, “principe nero” aveva in
realtà in mente di fare un governo “bianco” riconosciuto da Israele,
Stati uniti, Germania federale ecc. soste­nuto dalle baionette delle Forze
armate, per fare piazza pulita dei “rossi” usando le leggi ordinarie.

Lo stesso, identico fine si proponeva il
liberale, partigiano, Edgardo Sogno che, come Junio Valerio Borghese, faceva
leva sui militari e fra questi ultimi contava il sostegno necessario per
pervenire, anch’esso, alla formazione di un governo civile che avesse la forza
derivante dal sostegno militare per mettere fuori legge il Pci e le
organizzazioni dell’estrema sinistra.

Il partigiano Edgardo
Sogno gode dell’appoggio degli ufficiali provenienti dalle file del movimento
partigiano, tanto che il 23 marzo 1971, a Milano, nello studio di un notaio,
deposita il giura­mento sottoscritto da una ventina di ufficiali superiori con
il quale costoro s’impegnano a “compiere personalmente l’esecuzione capi­tale
degli esponenti politici dei partiti democratici responsabi­li di
collaborazionismo con i nemici della democrazia e di tradi­mento verso le
libere istituzioni”.

La scomparsa del giuramento con
le loro firme autografe dalle carte processuali del giudice istruttore Luciano
Violante, ripagato per tanta sfortuna con una fortunata carriera politica, non
ha consentito di registrare, sul piano
storico,
i nomi degli ufficia­li superiori delle Forze armate che lo avevano
sottoscritto, ma questa omissione nulla toglie alla verità storica che vede le
gerarchie militari impegnate in quegli anni in una sordida lotta politica per
supplire all’incapacità dei democristiani e mantene­re, ad ogni costo, l’Italia
all’interno del blocco occidentale, a disposizione degli Stati uniti d’America.

Dopo
il fallimento dell’operazione del 12-14 dicembre 1969, la Democrazia cristiana
impegna con le gerarchie militari una batta­glia occulta finalizzata, da un
lato, a rassicurarle sulla sua “te­nuta” contro il Partito comunista,
dall’altro, a neutralizzare gli “estremisti” in divisa.

L’inchiesta
sulla strage di piazza Fontana, abilmente pilotata verso gli ambienti di destra
da personaggi democristiani, e quel­la sul “golpe Borghese” fatta
iniziare nel mese di marzo del 1971, e più ancora quelle sulla “Rosa dei
venti” e il “golpe bianco” di Edgardo Sogno, partite dopo le
rivelazioni del segretario nazionale del Msi Giorgio Almirante, ad Arnaldo
Forlani e, da quest’ul­timo, poste alla base del suo discorso a La Spezia il 5
novembre 1972, danno l’idea della percezione del pericolo corso dai diri­genti
democristiani resisi conto di essere stati scavalcati dai socialdemocratici,
postisi alla guida di un mondo politico etero­geneo, in nome dell’anticomunismo
e degli interessi della Nato e degli Stati uniti.

Utilizzando
la magistratura come il pongo, i democristiani han­no fatto dell’uso politico
delle inchieste giudiziarie un’arma temibile perché ha consentito loro di
minacciare ambienti ed in­teressi contrastanti con i loro, con la certezza
pacifica che i malleabili magistrati italiani avrebbero compreso quando e su
quali soglie fermarsi a tempo per non provocare danni irreparabi­li all’intero
sistema.

Lo
scontro dura fino all’autunno del 1974, quando la mutata politica degli Stati
uniti e, di conseguenza, della Nato che porta alla caduta dei regimi autoritari
greco e portoghese comporta un diverso approccio alla questione comunista che
non contempla più atti di forza diretti contro il Pci.

Per
gli oltranzisti atlantici che ancora non hanno compreso la
diversa realtà internazionale in cui vivono, il momento di rien­trare
nei ranghi scatta nel mese di marzo del 1981 con l’indagine sulla loggia
massonica Propaganda due, ufficialmente diretta da Licio Gelli.

Se
gli anni Sessanta sono stati quelli della “destabilizzazio­ne”, gli anni
Settanta, superato il momento di maggior pericolo, con l’ultima guerra
arabo-israeliana dell’ottobre del 1973, sono quelli della stabilizzazione dell’area
Mediterranea.

La
minaccia militare sovietica in Europa è ormai un fantasma, al quale credono solo
gli agit-prop di destra, quindi le Forze armate iniziano a spostare i reparti
al sud d’Italia; la solidità dei regimi comunisti europei comincia ad
incrinarsi, soprattutto in Polonia; gli americani riescono a trascinare
l’Unione sovietica nella guerra in Afghanistan e si avvicina il momento del
dialogo fra le due superpotenze che prelude al crollo finale dell’impero
comunista.

In
Italia, la Democrazia cristiana ed i suoi alleati accettano il dialogo con il
Partito comunista, troppo forte elettoralmente per essere ancora emarginato,
troppo legato a Mosca perché cada il           veto
americano sul suo ingresso nel governo.

Viene
meno la necessità dello scontro frontale con i comunisti, ai quali
l’imbecillità di ben individuati militanti di destra ha regalato, con le
stragi, centinaia di migliaia di voti e accresciu­to la loro influenza
politica, mentre alla loro sinistra prende forza il loro nemico
più insidioso e temibile: le Brigate rosse.

Ma
non rientra nell’economia di questo lavoro parlare delle ori­gini e delle
finalità delle Brigate rosse e di altre organizzazio­ni come “Autonomia
operaia” che entrano a pieno titolo nella storia dell’anticomunismo e nei
manuali delle metodologie occulte con le quali i reparti specializzati delle
Forze armate ed i servizi segreti civili liquidano i loro nemici.

Il
coinvolgimento delle Forze armate nella guerra politica è una certezza data dal
numero, dai nomi, dal grado degli ufficiali coin­volti e dalla quantità e
qualità delle organizzazioni fiancheggiatrici che sono state costituite per
sostenerne l’impegno politico dalla fine degli anni Cinquanta fino alla metà
degli anni Settan­ta.

La
guerra al comunismo è stata la loro guerra, prima ancora che quella dei
politici, perché alle Forze armate spetta indiscutibil­mente il compito di
combattere i nemici esterni e quelli interni, anche se essa non è convenzionale
e non richiede lo spiegamento di mezzi corazzati e reggimenti di fanteria nelle
strade.

È
stata un guerra che ha avuto più volti e più nomi, da quello di “guerra
psicologica” a quello di “guerra non ortodossa” per ap­prodare
infine a quello di “guerra a bassa intensità”.

Vediamo,
ora, come l’hanno combattuta e vinta facendone pagare i costi ed il prezzo al
popolo che, viceversa, dovevano protegge­re e tutelare.
Il generale Enzo Marchesi, Capo di Stato Maggiore della Difesa dal 15 gennaio 1970 al 31 luglio 1972

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