Pellegrino Rossi: il riformatore illuminato che Pio IX scelse come Primo Ministro

Pellegrino Rossi: il riformatore illuminato che Pio IX scelse come Primo Ministro

Pellegrino Rossi. Se il suo omicidio è quasi dimenticato, se sulla sua opera di (illustre) economista e giurista è calata una subdola damnatio memoriae[1], ancora più negletto è il progetto politico che gli costò la vita: quello dell’Italia confederata. Affidiamoci quindi ancora, per una rinfrescatina alla memoria selettiva di questo “smemorato” paese, alle preziose pagine dello Spada[2]. Oggi porgiamo ai lettori l’equanime profilo biografico del Nostro stilato dall’illustre storico romano. Domani, il suo progetto politico. Che queste pagine siano di riflessione a chi, ancora oggi, si ostina a definire Pio IX “papa oscurantista”.

Nacque Pellegrino Rossi in Carrara nel luglio del 1787. Si segnalò pei suoi talenti fin dalla giovinezza. Di 27 anni, insegnava già in Bologna la procedura civile e il diritto criminale.
Allorquando nel 1815 balenò alla mente di Gioacchino Murat la speranza della unione d’Italia, il Rossi ne sposò fervorosamente le parti; ma riuscitagli a mal fine l’impresa, videsi costretto ad esulare. Vuolsi che prima si recasse in Francia, ma che di là, dopo il disastro di Waterloo, si ricoverasse nella Svizzera e precisamente a Ginevra, ove guari non andò che, resosi chiaro per i suoi lumi e pel suo non ordinario ingegno, ottenne la cattedra insegnando non solo il diritto romano, ma il diritto penale e la economia politica. Mantenne però corrispondenza cogli uomini della rivoluzione Italiana, ed a tale effetto scriveva articoli pel Conciliatore di Milano[3].
Tutti volevano assistere alle sue lezioni. Non era chi non lo ammirasse e lo ricercasse, e quindi se gli porse agevolmente il destro nel 1820 di congiungersi in matrimonio con una ricca signorina protestante per nome Melly.
Nel 1829 pubblicò il suo trattato sul diritto penale.
Cristina di Belgioioso

Il movimento italiano del 1831 lo colse nella Svizzera, ed esso non solo non gli fu estraneo, ma come abbiamo accennato in altre pagine, vuolsi che in quel tempo si stringesse colà in lunghe e secrete confabulazioni colla principessa di Belgioioso e per dirigerne il procedimento.

Tale fu poi la stima, la fiducia e l’ammirazione ch’erasi saputo conciliare, che ottenuta la naturalizzazione elvetica, vennegli nel 1832 affidato il carico di elaborare un piano di costituzione per la Svizzera, o revisione del patto federale. Compiuta la sua opera, venne chiamata il Patto Rossi. La dieta venne in parte adottandolo, ma poi, per opera specialmente dei comuni rurali, fu rigettato. Comunque si voglia, seppure non venisse respinto come cosa immeritevole, lo non si credette adattato per quei tempi, e solo la rivoluzione svizzera del 1848 ne abbracciò in parte le idee e i divisamenti.
Indignatosi il Rossi del non essere stato adottato il suo piano o patto federale, se ne partì dalla Svizzera, e rifugiossi in Parigi, ove il suo ingegno e le sue cognizioni non tardarono a farlo conoscere per quell’uomo che egli era, e gli procurarono l’amicizia e la protezione del duca di Broglie e del ministro Guizot (il quale per verità avealo già conosciuto personalmente nella Svizzera, avendo assistito ai suoi corsi), e gli aprirono il varco alle distinzioni e agli onori.
Difatti nel 1834 venne ascritto alla cittadinanza francese, ottenendo niente meno che la grande naturalizzazione.
Nel 1835 fu creato cavaliere della legion di onore.
Emmanuel Joseph Sieyès

Nel 1836 venne fatto membro dell’accademia delle scienze morali e politiche in sostituzione del celebre Sieyès.

Nel 1838 pubblicò il suo corso di economia politica.
Nel 1840 fu creato membro del consiglio reale della istruzione pubblica.
Nel 1841 ottenne il grado di officiale della legione di onore.
E nel 1843 fu dichiarato decano della società di diritto.
Posteriormente poi, fu creato pari di Francia da Luigi Filippo che lo teneva in gran conto.
Dalla carriera scientifica e cattedratica essendo entrato in quella diplomatica e politica, venne nel 1845 spedito in Roma come inviato straordinario e ministro plenipotenziario del re dei Francesi, avendogli deferito specialmente il carico di comporre la vertenza coi Gesuiti in Francia, nella quale negoziazione diè saggio di prudenza e di avvedutezza, e confermò le idee vantaggiose che sul suo conto si aveano.
Ciò gli valse il titolo e la rappresentanza di ambasciatore del re dei Francesi presso la Santa Sede. E difatti, nel 1846, accaduta la morte di Gregorio XVI, si adoperò attivamente nella sua qualifica, e in nome del suo governo, in consigliare miglioramenti e riforme ai cardinali riuniti in conclave. E questa circostanza gli dà un titolo per essere considerato come uno dei primi che contribuirono in qualche modo al movimento romano, e quindi per naturale conseguenza alla italiana rivoluzione.

Chi volesse conoscere fino a qual punto si fosse compromesso il Rossi nella impresa murattiana per la riunione e indipendenza d’Italia, non avrà che a leggere il suo manifesto rivoluzionario, che crediamo di riportare nel nostro Sommario[4]. Il medesimo venne emesso dal Rossi nella sua qualifica di commissario civile di sua maestà il re Gioacchino Napoleone nei dipartimenti del Reno, Rubicone, basso Po, e Pineta, diretto agli Italiani il 4 aprile 1815 per eccitarli ad insorgere; e lo abbiamo estratto tanto dall’originale stampato che possediamo, quanto dall’opera di monsignor Gazola[5]. Vedranno i nostri lettori che il linguaggio che teneva il giovane Rossi in Bologna nel 1815, di poco differiva da quello che era solito usare il demagogo Sterbini in Roma nel 1848.

Non credasi però che se il Rossi aveva i suoi ammiratori, non avesse ancora i suoi detrattori, fra i quali crediamo di potere annoverare i veri cattolici di Francia, i quali non vedevano nel Rossi che un vecchio carbonaro, freddo calcolatore bensì delle cose possibili, ma non pertanto vagheggiatore dell’idea di infrenare l’arbitrio del governo clericale, e quindi venirgli pian piano tarpando le ali, e poi forse venirgli strappando del tutto il poter dalle mani. Consideravasi come poco e nulla amico degli ordini monastici, e chi accusavalo apertamente di razionalismo, e chi perfino di panteismo o di ateismo. Queste le idee che di lui si avevano da taluni, e che noi senza dividerle o avversarle, per semplice dovere di storici riportiamo[6].

Quanto alla sua dottrina, non è chi non conosca i suoi aurei trattati sul diritto penale e sull’economia politica. Sono queste due opere che, a detto di tutti, rifulgono per vastità di sapere e per lucidezza d’idee. Ed è inoltre a riflettere, che sulla lettura di dette opere, nelle quali e sopra tutto nella prima difendonsi i sacri diritti della umanità, s’informò in gran parte lo spirito della gioventù italiana.

Egli è poi incontestabile che quest’uomo singolare riunisse ad un vasto sapere una giustezza di vedute straordinarie, e un sangue freddo vantaggiosissimo per timoneggiar gli affari. Tutte le quali cose ben di rado si accolgono in un solo individuo, ma nel Rossi tutte riunivansi sommamente.
Se non che, volendo essere imparziali, diremo che mancavagli per natura l’amabilità del tratto. Non già che egli non sapesse usare dell’amabilità a tempo e luogo, ma per progetto e per necessità di posizione, più o meno piegandola secondo l’esigenze della diplomazia. Vi si vedeva in somma quel non so che di calcolato e fittizio, ma non naturale e spontaneo. Sentiva troppo di se, e mal sapeva dissimularlo. Non era espansivo, e non incoraggiava gli altri a esserlo con lui. Era in somma quasi generalmente impopolare e antipatico; e questa non è piccola cosa.
Ciò è bene che noi diciamo, affinchè i nostri lettori sappiano tutto quello che era, e che in lode o in biasimo di cotant’uomo si disse. Nel crogiolo del tempo poi, che tutto analizza e purufica, rinverrannosi un giorno gli elementi per più maturi giudizi.

A noi però sembra che il Rossi, oltre ai difetti sopraccitati, altro ne avesse, comune ancora al suo amico e protettore Guizot, ed è quel non conoscere abbastanza i tempi che correvano, navigando in un mare, e credendo di essere in un altro. Credevano in somma entrambi di passeggiare sul dorso di un vulcano, e non si avvedevano ch’eran già nel cratere. Entrambi avevano o ostentavano di avere troppa fidanza nei loro mezzi, più adatti forse ai tempi tranquilli che a quelli procellosi. La caduta del Guizot, e la fine del Rossi, di che avremo a parlare in seguito[7], vengono a convalidare la nostra opinione che questi due uomini eminenti fossero più adattati a dominare la rivoluzione nelle assemblee legislative, di quel che sulla piazza; e quelli eran tempi in cui la piazza dominava e tiranneggiava l’andamento delle cose umane.

[1] Dal catalogo OPAC (http://opac.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/base.jsp ) non risultano riedizioni novecentesche delle sue due opere principali (il “Trattato di diritto penale” e il “Corso di economia politica”). L’unica edizione italiana del Novecento, mi pare, è quella delle “Lezioni di diritto costituzionale alla Sorbona”, edita da Colombo nel 1992. 
[2] Giuseppe Spada, STORIA DELLA RIVOLUZIONE DI ROMA E DELLA RESTAURAZIONE DEL GOVERNO PONTIFICIO DAL 1 GIUGNO 1846 AL 15 LUGLIO 1849, Firenze, 1869, Volume Secondo, pp. 466-471. D’ora in avanti, le note, tranne l’ultima, sono quelle originali dello Spada.
[3] Vedi le Addizioni di Piero Maroncelli alle Mie prigioni di Silvio Pellico, edizione di Torino del 1859, pagina 204.
[4] Vedi il Sommario, n. 37.
[5] Vedi il nostro volume di Documenti sull’impresa murattiana, n. 205, non che l’opera di monsignor Gazola intitolata: Il prelato italiano monsignor Carlo Gazola ed il vicariato di Roma sotto papa Pio IX, 1849-1850 ec., Torino, 1850, in-12. pag. 38.
[6] Vedi la lettera dei cattolici di Francia pubblicata nel 1847 e sottoscritta dal conte Regnon, nel vol. II, documenti, n. 26.

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