Kurt Vonnegut: il sangue di Dresda

Kurt Vonnegut: il sangue di Dresda

IL SANGUE DI DRESDA[1]

Di Kurt Vonnegut

Lo scrittore Kurt Vonnegut fu prigioniero di guerra a Dresda durante i bombardamenti alleati e fu in seguito costretto a estrarre cadaveri dalla città in rovina. Nelle carte scoperte da suo figlio dopo la sua morte l’anno scorso [nel 2007], egli fornisce una sconvolgente testimonianza oculare dell’”oscena brutalità” che ispirò il suo romanzo Mattatoio n°5.

Era un discorso di routine che sentivamo il primo giorno del nostro addestramento base, fatto da un piccolo tenente muscoloso: “Soldati, finora siete stati buoni, puliti, ragazzi americani con l’amore americano per la sportività e il fair play. Siamo qui per cambiare.

“Il nostro compito è fare di voi il mucchio di bastardi più sporco e cattivo della storia del mondo. D’ora in avanti, scordatevi le regole da Marchesa del Queensberry e ogni altra regola. Tutto è permesso.

“Non colpite mai un uomo sopra la cintura quando potete colpirlo sotto. Fate urlare il bastardo. Uccidetelo ogni volta che potete. Uccidete, uccidete, uccidete – capite?”.

Il suo discorso venne accolto con risate nervose e con l’idea generale che aveva ragione. “Non hanno detto Hitler e Tojo che gli americani erano un mucchio di debolucci? Ha! Lo scopriranno”.

E naturalmente la Germania e il Giappone lo scoprirono: una democrazia indurita tirò fuori una furia ribollente che non poteva essere fermata. In apparenza fu una guerra tra la ragione e la barbarie, con questioni in gioco talmente alte che i nostri scatenati combattenti non avevano idea del perché stessero combattendo – oltre a ciò i nemici erano un mucchio di bastardi. Era un nuovo tipo di guerra, in cui era approvata ogni distruzione, ogni uccisione.

Molti approvarono l’idea della guerra totale: essa aveva a disposizione un ring moderno, al passo con la nostra tecnologia spettacolare. Per costoro era come una partita di football.

[Tornato a casa, in America], tre mogli di negozianti di una piccola città, grassocce e di mezza età, mi diedero un passaggio mentre facevo l’autostop per tornare a casa da Camp Atterbury. “Hai ucciso molti tedeschi?”, chiese la conducente, facendo graziosa conversazione. Le dissi che non lo sapevo.

Ciò venne preso per modestia. Mentre uscivo dalla macchina, una delle signore mi diede un buffetto sulla spalla, in modo materno: “Scommetto che vorresti farla finita e uccidere adesso qualcuno di quegli sporchi giapponesi, non è vero?”

Ci scambiammo una strizzatina d’occhio. Non dissi a quelle anime semplici che ero stato catturato al fronte dopo una settimana; e soprattutto quello che sapevo, e che pensavo, sull’uccidere gli sporchi tedeschi, sulla guerra totale. La ragione della mia amarezza, allora e adesso, ha a che fare con un incidente che ebbe un’attenzione superficiale dai giornali americani. Nel Febbraio del 1945, Dresda, in Germania, venne distrutta, e con essa oltre 100.000 esseri umani. Io ero lì. Non molti sanno quanto fu brutale, l’America.

Ero in un gruppo di 150 soldati di fanteria, catturati nello sfondamento di Bulge, e messi a lavorare a Dresda. Dresda, ci venne detto, era la sola città tedesca importante a essere finora scampata ai bombardamenti. Era il Gennaio del 1945. Doveva il suo destino benigno alla sua fisionomia pacifica: ospedali, fabbriche di birra, fabbriche di alimentari, aziende di forniture sanitarie, ceramiche, fabbriche di strumenti musicali, e così via.

Da quando era iniziata la guerra, gli ospedali erano diventati il suo primo impegno. Ogni giorno giungevano in questo tranquillo rifugio centinaia di feriti, da est e da ovest. Di notte, sentivamo il rombo monotono di lontani raid aerei. “Chemnitz è sotto tiro stanotte”, dicevamo tra noi, e giocavamo a metterci nei panni dei giovani uomini brillanti, con i loro quadranti e i loro mirini.

“Grazie a Dio stiamo in una “città aperta”, pensavamo, e così pensavano i migliaia di profughi – donne, bambini e anziani, che affluivano derelitti dalle rovine fumanti di Berlino, Lipsia, Braslau, Monaco. Inondavano la città fino al doppio della sua popolazione normale.

Non c’era guerra a Dresda. E’ vero, gli aerei arrivavano quasi ogni giorno e le sirene ululavano, ma gli aerei andavano sempre altrove. Gli allarmi fornivano un momento di sollievo in una noiosa giornata di lavoro, un’occasione di socialità, la possibilità di spettegolare nei rifugi antiaerei. I rifugi, in realtà, non erano molto più di un gesto, del riconoscimento casuale dell’emergenza nazionale, cantine di vini e seminterrati con banchi e sacchetti di sabbia che bloccavano le finestre, per lo più. C’erano pochi bunker all’altezza, nel centro della città, vicini agli uffici governativi, ma niente di paragonabile alla fidata piazzaforte sotterranea che rendeva Berlino indifferente al suo martellamento quotidiano. Dresda non aveva ragione di prepararsi a un attacco – c’è una storia al riguardo.

Dresda era sicuramente tra le città più deliziose del mondo. Le sue strade erano ampie, fiancheggiate da alberi ombrosi. Era cosparsa da innumerevoli piccoli parchi e statue. Aveva vecchie chiese meravigliose, biblioteche, musei, teatri, gallerie d’arte, giardini, uno zoo e un’università rinomata.

Era anche un paradiso per i turisti. Sarebbero molto più informati di me sulle bellezze della città. Ma l’impressione che ho è che a Dresda – nella sua presenza fisica – vi fossero i simboli della vita buona: era piacevole, onesta, intelligente. Questi simboli stavano ad aspettare, all’ombra della svastica, come monumenti alla verità. Come un tesoro accumulatosi in centinaia di anni, Dresda esprimeva in modo eloquente l’eccellenza della civiltà europea, di cui nel profondo siamo debitori.

Ero un prigioniero, affamato, sporco, e pieno di odio per chi ci aveva catturato, ma amavo questa città, e vedevo la meraviglia benedetta del suo passato e la ricca promessa del suo futuro.

Nel Febbraio del 1945, i bombardieri americani ridussero questo tesoro in pietre frantumate e carboni ardenti; la sventrarono con esplosivi ad alto potenziale e con bombe incendiarie.

La bomba atomica può rappresentare un progresso favoloso, ma è interessante notare come il tritolo e la termite riuscissero a sterminare in una sola notte sanguinosa più persone di quante ne morirono in tutto il blitz di Londra. La piazzaforte di Dresda esplose una dozzina di colpi contro i nostri aviatori. Una volta rientrati alla base e sorbendo una tazza di caffè, probabilmente dissero: “Una contraerea insolitamente leggera stanotte. Bene, immagino che è ora di andare a letto”. I piloti inglesi catturati dalle unità tattiche di combattimento (che coprivano le truppe in prima linea) rimproveravano quelli che avevano guidato i bombardieri pesanti nei raid sulle città con: “Come diavolo avete sopportato la puzza dell’urina bollente e delle carrozzine bruciate?”

Ecco un frammento di notizia di assoluta routine: “La notte scorsa i nostri aerei hanno attaccato Dresda. Tutti gli aerei sono ritornati incolumi”. Il solo tedesco buono è il tedesco morto: oltre 100.000 uomini, donne e bambini malvagi (quelli abili erano al fronte) hanno scontato per sempre i loro peccati contro l’umanità. Per caso, incontrai un bombardiere che aveva preso parte all’attacco”. “Odiammo farlo”, mi disse.

La notte che arrivarono, la passammo nel ripostiglio di carne sotterraneo di un mattatoio. Fummo fortunati, perché era il miglior rifugio della città. I giganti percorrevano la terra sopra di noi. All’inizio venne il mormorio leggero della loro danza sopra le periferie, poi il brontolio della loro avanzata verso di noi, e infine il fragore assordante dei loro passi sopra di noi; e da lì di nuovo sulle periferie. Dilagavano avanti e indietro: era il bombardamento a saturazione.

“Urlavo e piangevo e mi aggrappavo ai muri del nostro rifugio”, mi disse una vecchia signora. “Pregavo Dio dicendo: “Ti prego, ti prego, ti prego, buon Dio, fermali”. Ma non mi ascoltava. Nessuna forza poteva fermarli. Arrivavano, ondata dopo ondata. Non c’era possibilità di arrenderci; né di dire loro che non ce la facevamo più. Non c’era nient’altro da fare che stare seduti e aspettare il mattino”. Sua figlia e suo nipote rimasero uccisi.

La nostra piccola prigione fu incenerita dalle fondamenta. Dovemmo essere evacuati in un campo lontano occupato da prigionieri sudafricani. I nostri guardiani erano un mucchio di volkssturmer tristi e attempati e di veterani invalidi. La maggioranza erano cittadini di Dresda e avevano amici e famiglie coinvolti nell’olocausto. Un caporale, che aveva perso un occhio dopo due anni sul fronte russo, aveva appreso prima che partissimo che sua moglie, i suoi due figli, ed entrambi i genitori erano stati uccisi. Aveva una sigaretta. La divise con me.

La nostra marcia verso i nuovi quartieri ci portò al confine della città. Era impossibile credere che qualcuno in centro fosse sopravvissuto. In circostanze normali, il giorno sarebbe stato freddo, ma folate saltuarie dall’inferno colossale ci facevano sudare. E, in circostanze normali, il giorno sarebbe stato chiaro e luminoso, ma una nube opaca e opprimente aveva trasformato il giorno in crepuscolo.

Una sinistra processione ostruiva le vie d’uscita; persone con facce annerite solcate da lacrime, qualcuno che portava dei feriti, altri dei morti. Si raccolsero nei campi. Non parlava nessuno. Qualcuno, con la fascia della Croce Rossa, faceva quello che poteva per le vittime.

Raggruppati con i sudafricani, passammo una settimana senza lavorare. Alla fine, vennero ristabiliti i contatti con il comando e ci venne ordinato di percorrere sette miglia verso la zona colpita più duramente.

Nel distretto nulla era scampato alla furia. Una città di edifici ridotti a gusci frastagliati, di statue frantumate, di alberi spaccati; ogni veicolo era immobile, rugoso e bruciato, ridotto ad arrugginire o a marcire dal passaggio della forza furibonda. I soli suoni oltre ai nostri erano quelli dell’intonaco che cadeva e delle sue eco.

Non posso descrivere la desolazione in modo adeguato, ma posso dare un’idea di come ci faceva stare, con le parole di un soldato inglese che delirava in un ospedale di fortuna per prigioneri: “Ti dico che è spaventoso. Camminavo in una delle loro strade insanguinate e sentivo mille occhi dietro di me, quelli dei morti. Li sentivo sussurrare dietro di me. Mi giravo a guardarli e non c’era un anima. Li puoi sentire e li puoi ascoltare ma non c’è mai nessuno, lì”. Sapevamo che quello che diceva era vero.

Per il lavoro di “salvataggio” fummo divisi in piccoli gruppi, ognuno con un guardiano. Il nostro macabro compito era di cercare i corpi. Fu una caccia abbondante, quel giorno e gli altri che seguirono. Iniziammo su scala ridotta – qui una gamba, lì un braccio, e un neonato occasionale – ma scoprimmo un filone importante prima di mezzogiorno.

Ci facemmo strada attraverso un muro seminterrato per scoprire un guazzabuglio puzzolente di oltre 100 esseri umani. Doveva essere penetrato il fuoco prima che il crollo dell’edificio ostruisse le uscite, perché la carne di quelli che stavano dentro ricordava la consistenza delle prugne. Il nostro compito, ci venne spiegato, era di farci strada in mezzo al disastro e di portare via i resti. Incoraggiati da sberle e insulti, ci mettemmo al lavoro. Facemmo esattamente questo, perché il pavimento era ricoperto da una brodaglia nauseabonda fatta di condutture bruciate e di viscere.

Un certo numero di vittime, non completamente morte, avevano cercato di scappare attraverso una stretta uscita di emergenza. C’erano comunque diversi corpi intrappolati nel passaggio. Il loro leader aveva percorso metà strada prima di venire seppellito fino al collo dai mattoni e dall’intonaco caduti. Penso che avesse circa 15 anni.

E’ con un certo rammarico che infango la reputazione dei nostri aviatori ma, ragazzi, avete ucciso una quantità spaventosa di donne e bambini. Dovemmo riesumare i loro corpi e portarli in pire funerarie di massa.

La tecnica della pira funeraria venne abbandonata quando si scoprì quanto era grande il numero dei morti. Non c’era sufficiente manodopera per realizzarla bene, così venne mandato giù un uomo con un lanciafiamme, affinché li cremasse dove si trovavano. Bruciati vivi, soffocati, schiacciati – uomini, donne e bambini uccisi indistintamente.

Con tutta l’elevatezza della causa per la quale combattevamo, creammo di sicuro la nostra Belsen. Il metodo era impersonale ma il risultato fu egualmente crudele e spietato. Questa, temo, è la ripugnante verità.

Quando ci abituammo all’oscurità, al fetore e al carnaio, iniziammo a chiederci chi era stato, ognuno di quei cadaveri, quando era ancora vivo. Era un gioco sordido: “Ricco, povero, mendicante, ladro…” Qualcuno aveva borsette gonfie e gioielli, altri avevano preziose cose da mangiare. Un bambino aveva il suo cane al guinzaglio ancora vicino a lui.

Del nostro lavoro, nei rifugi veri e propri, erano responsabili degli ucraini rinnegati in uniforme tedesca. Erano ubriachi fradici per via delle cantine adiacenti e sembravano godere enormemente del loro compito. Era redditizio, perché strappavano a ogni corpo gli oggetti di valore prima che li portassimo sulla strada. La morte era diventata un tale luogo comune che potevamo scherzare sui nostri lugubri fardelli e sceglierli in mezzo a così tanta spazzatura.

Non fu così con i primi, specialmente i giovani: li avevamo messi sulle barelle con cura, deponendoli con una certa parvenza di dignità funebre nel loro ultimo luogo di riposo prima della pira. Ma il nostro ritegno spaventato e doloroso cedette, come ho detto, al cinismo vero e proprio. Alla fine di un giorno orribile, fumammo e contemplammo l’impressionante mucchio di morti che si era accumulato. Uno di noi gettò il mozzicone della sua sigaretta sul mucchio: “Le campane dell’inferno”, disse, “Sono pronto per la Morte ogni volta che voglia venire a prendermi”.

Pochi giorni dopo il raid, le sirene urlarono di nuovo. Ai sopravvissuti apatici e affranti vennero gettati dei volantini. Ho perso la mia copia del proclama ma ricordo che diceva pressappoco così: “Al popolo di Dresda: siamo stati costretti a bombardare la vostra città a causa del pesante traffico militare che le vostre installazioni ferroviarie stavano sostenendo. Ci rendiamo conto di non aver sempre colpito i nostri obbiettivi. La distruzione di ogni altra cosa rispetto agli obbiettivi militari appartiene alle vicende della guerra involontarie e inevitabili”.

Questo spiegava il massacro per la soddisfazione di tutti, ne sono sicuro, ma suscitò non poco disprezzo. E’ un fatto che 48 ore dopo che l’ultimo B-17 era sciamato verso ovest per un meritato riposo, i battaglioni dei genieri giunsero presso le ferrovie danneggiate e le riportarono ad un’attività quasi normale. Nessuno dei ponti ferroviari sull’Elba fu messo fuori uso. I fabbricanti dei dispositivi di puntamento dovrebbero arrossire nell’apprendere che i loro meravigliosi congegni sganciavano le bombe fino a tre miglia fuori bersaglio rispetto a quello che l’esercito affermava di voler colpire.

Il volantino avrebbe dovuto dire: “Abbiamo colpito tutte le chiese, gli ospedali, i musei, i teatri, la vostra università, lo zoo, e ogni edificio civile in città, ma onestamente non volevamo. C’est la guerre. Ci dispiace molto. Inoltre, il bombardamento a saturazione è molto di moda questi giorni, lo sapete”.

C’era un significato tattico: fermare le ferrovie. Un’operazione eccellente, non c’è dubbio, ma la tecnica fu orribile. Gli aerei iniziarono a lanciare dai loro scompartimenti bombe incendiarie e ad alto potenziale ai confini della città, e per tutta la sequenza dei loro colpi devono essere stati istruiti da una tavola Ouija.[2]

Provate a classificare le perdite contro i benefici. Oltre 100.000 civili e una magnifica città distrutti da bombe sganciate fuori degli obbiettivi dichiarati: le ferrovie furono messe fuori uso per circa due giorni. I tedeschi contarono la più grande perdita di vite patita per ogni singolo raid. La morte di Dresda fu un’amara tragedia, attuata in modo gratuito e premeditato. L’uccisione dei bambini – bambini tedeschi o giapponesi, o quelli di qualsiasi nemico il futuro possa riservarci – non può mai essere giustificata.

La replica scontata ai miei lamenti è il più odioso di tutti i clichés: “è la guerra”, oppure: “Se la sono cercata. Tutto quello che capiscono è la forza”.

Chi è che se l’è cercata? Tutto quello che capiscono è la forza? Credetemi, non è facile identificare i campi dove crescono i frutti dell’ira quando si raccolgono neonati nei canestri o si aiuta un uomo a scavare dove pensa si possa trovare la moglie. Certo, l’esercito nemico e le installazioni industriali devono essere colpite tranquillamente, e guai a quelli abbastanza sciocchi da cercare rifugio nei paraggi. Ma la politica dell’”America inflessibile”, lo spirito di vendetta, l’approvazione di ogni distruzione e di ogni delitto, ci hanno guadagnato la nomea di una brutalità oscena.

I nostri leader hanno avuto carta bianca su quello che potevano o non potevano distruggere. Il loro compito era di vincere la guerra il più rapidamente possibile, e mentre furono mirabilmente istruiti ad agire in tal modo, le loro decisioni sul destino di certi cimeli inestimabili del pianeta – come nel caso di Dresda – non furono sempre assennate. Quando, alla fine della guerra, con la Wehrmacht che andava in pezzi su tutti i fronti, i nostri aerei furono mandati a distruggere quest’ultima città importante, dubito che sia stata posta la domanda: “Che vantaggi abbiamo avuto da questa tragedia, e come reggeranno al confronto questi vantaggi con gli effetti negativi nel lungo periodo?”

Dresda, una magnifica città, costruita nello spirito dell’arte, simbolo di un retaggio ammirevole, così antinazista che Hitler la visitò solo due volte durante il suo regno, un centro oggi così amaramente bisognoso di cibo e di ospedali – venne arata e i solchi furono cosparsi di sale.

Non vi può essere dubbio che gli alleati abbiano combattuto dalla parte giusta, e i tedeschi e i giapponesi dalla parte sbagliata. La seconda guerra mondiale è stata combattuta per motivi quasi sacri. Ma rimango convinto che per la spada della giustizia con la quale abbiamo combattuto, i bombardamenti indiscriminati delle popolazioni civili sono stati blasfemi. Che il nemico li abbia effettuati per primo, non ha niente a che fare con il problema morale. Quello che ho visto della nostra guerra aerea, mentre il conflitto europeo stava per finire, ha avuto il marchio irrazionale della guerra per la guerra. Delicati cittadini della democrazia americana hanno imparato a colpire un uomo sotto la cintura e a far urlare il “bastardo”.

Le truppe russe di occupazione, quando hanno scoperto che eravamo americani, ci hanno abbracciato e si sono congratulati con noi per la rovina totale portata dai nostri aerei. Abbiamo accettato i loro complimenti con buona grazia e compunta modestia, ma sentivo allora, come sento ora, che avrei dato la vita per salvare Dresda per le generazioni future. Questo è quello che ognuno dovrebbe provare per ogni città del pianeta.

[1] By Permission of Donald G. Farber, Trustee of the Kurt Vonnegut, Jr. Copyright Trust, owner of the copyright. All inquiries should be addressed to Donald G. Farber at 14 East 75th Street, New York, NY 10021, or to [email protected] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://entertainment.timesonline.co.uk/tol/arts_and_entertainment/books/book_extracts/article4038905.ece
[2] La tavola Ouija è una “tavola parlante” utilizzata nelle sedute spiritiche: http://it.wikipedia.org/wiki/Ouija . L’autore in questo modo sottolinea la ferocia irrazionale di quei bombardamenti.

2 Comments
    • Anonimo
    • 15 Ottobre 2010

    Ne parla in Mattatoio 5

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