La testimonianza di un tedesco fuggito dalla Silesia

La testimonianza di un tedesco fuggito dalla Silesia

In riferimento alla pulizia etnica dei Sudeti, porgiamo ai nostri lettori il messaggio di un tedesco settuagenario sopravvissuto ai disastri del 1945 che ha inviato alla nostra amica Bocage la seguente lettera scritta in francese, lettera che spiega molte cose…:

Avendo io stesso subìto, in una certa misura, il destino di essere espulso, mi sono posto sovente la stessa domanda. Dico “in una certa misura” poiché, se ho fatto parte dei tedeschi che sono fuggiti davanti ai russi durante l’inverno 1944/45, sono lo stesso arrivato più o meno sano e salvo a Berlino, mia città natale, da dove ero partito due anni prima per vivere presso mia nonna in Silesia, a causa dei bombardamenti. Ho dunque vissuto le difficoltà dell’esodo durante tre settimane, ma non ho perduto la mia Heimat [patria], come invece tanti altri; ho solo perduto i contatti con la Silesia e la Prussia orientale, regione dei miei progenitori.

La sola risposta che trovo in ciò che concerne il silenzio assordante sulle espulsioni e sulla distruzione sistematica delle città tedesche (la casa dei miei genitori non è stata risparmiata) è che gli stessi tedeschi preferiscono accettare le spiegazioni dei vincitori e si mettono sulle spalle i peccati del mondo intero. I tedeschi accettano Auschwitz, accettano Coventry, accettano le stesse Hiroshima e Nagasaki perché hanno paura, in caso contrario, di trovarsi di fronte a un mondo senza fede né legge.

E’ quella che io chiamo anche la sindrome di Stoccolma – vi fu, nel corso degli anni ’70, una presa di ostaggi nell’ambasciata tedesca e si potè constatare che gli ostaggi, dopo un certo tempo, si schierarono a favore dei loro rapitori e difesero le loro idee. […]
Per tutto ciò, i tedeschi sono stati ricompensati dopo la guerra con un livello di vita molto confortevole, ma – poiché un pranzo gratuito non esiste – il prezzo è stato esorbitante: hanno venduto la loro anima.

Non so se vi ricordate del film americano “All that money can buy” (di René Clair, mi sembra[1]); è la storia di un uomo che vende la sua anima al diavolo per riuscire, nel corso di sette anni, ad avere tutto quello che si può comprare col denaro – ma l’Amore non è evidentemente compreso in questo contratto.

Il film è basato su un romanzo di Stephen St. Vincent Benet, “The Devil and Daniel Webster”. Quando, alla fine del settimo anno, il diavolo arriva per incassare il dovuto, l’uomo resiste e reclama un processo formale. Il diavolo accetta, ma forma la giuria con gli individui più abietti; alla fine, è il famoso avvocato e oratore Daniel Webster che prende la difesa dell’imputato e giunge a commuovere a tal punto questa banda di stronzi che essi decidono in favore di quest’ultimo e annullano il contratto.

Per il momento, i tedeschi non hanno ancora il coraggio di chiedere un processo di questo tipo, e ho paura di ciò che potrebbe accadere se mai lo facessero…

Io stesso ho creduto per molto tempo alle spiegazioni classiche; i miei genitori votavano per i socialisti e detestavano Hitler e il suo regime; avevano molti amici ebrei; ma a poco a poco sono stato roso dal dubbio per tutta una serie di ragioni e la bella facciata dell’edificio è finalmente crollata.

Quello che mi stupisce, è che dopo un certo numero di anni vi siano dei libri di autori anglosassoni che si chiedono perché l’Inghilterra abbia fatto la guerra nel 1939, e se la vittoria del 1945 sia stata per gli inglesi davvero una vittoria. Le risposte sono piuttosto negative.

Resta da spiegare perché gli altri paesi non si pongano delle domande sulle espulsioni ecc. Anche in questo caso, è un po’ come in un film di Hitchcock: credo che sia in “Assassinio sull’Orient Express” che un uomo viene ucciso non da qualcuno che ha agito da solo ma da una dozzina di persone che, tutte, avevano una ragione personale per farlo. Dunque, nessun altro paese solleverà la questione delle espulsioni.

Non si può non ricordare la sorte della prima Cecoslovacchia, quella del 1939, della quale tutti si sono presi un pezzo, compresi i polacchi – che si sono impadroniti della regione di Teschen – per non dire dei russi che nel 1945 non hanno mollato la Carpato-Ucraina.

Ma tutto ciò è talmente complicato, il che fa sì che “sopportiamo i mali che abbiamo per paura di gettarci in quelli che non conosciamo” [Shakespeare: monologo d’Amleto].
[1] In realtà, è di William Dieterle.

One Comment
  1. Ma non si dice Slesia?

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