La lezione di Murray Rothbard

La lezione di Murray Rothbard

UN REVISIONISMO PER IL NOSTRO TEMPO

Di Murray Rothbard (1966)[1]

Il revisionismo, per come si applica alla seconda guerra mondiale e alle sue origini (e anche alle guerre precedenti), ha la funzione generale di proporre la verità storica ad un pubblico, americano e internazionale, che è stato drogato dalle menzogne e dalla propaganda del tempo di guerra. Questa, considerata in sé stessa, è una virtù. Ma alcune verità storiche, naturalmente, possono avere un interesse meramente antiquario, di poca importanza per le ansie del tempo presente. Questo [tuttavia] non è vero per il revisionismo della seconda guerra mondiale, la cui importanza è decisamente cruciale per il mondo di oggi.

La più piccola delle lezioni che il revisionismo può fornire in proposito è stata già abbondantemente appresa: e cioè che la Germania e il Giappone non erano soltanto degli aggressori, predestinati dalla nascita a minacciare la pace del mondo. Le lezioni più importanti però, devono ancora essere apprese.

Gli Stati Uniti sono di nuovo soggetti a quel “complesso della paura e della vanagloria” (secondo la brillante frase di Garet Garrett) che ci ha portato, e insieme a noi l’Occidente, dentro altre due guerre disastrose del nostro secolo. Ancora una volta, l’opinione pubblica americana è sottoposta a un fuoco di fila praticamente unanime di propaganda di guerra e di isterismo bellico, cosicché solo gli individui più penetranti e razionali non perdono la testa. Ancora una volta, scopriamo che è comparso sulla scena un Nemico, un Cattivo, con le stesse caratteristiche da cattivo che sentimmo in precedenza; un Nemico diabolico, monolitico, che molto tempo fa decise, in qualche “sacro testo” (per ragioni che rimangono oscure) di “conquistare il mondo”.

Da allora il Nemico, oscuramente, segretamente, diabolicamente, ha “complottato”, in modo cospirativo, per conquistare il mondo, costruendo una macchina militare grande, potente e travolgente, e una “quinta colonna” internazionale potente e sovversiva, che funziona come un esercito di semplici fantocci, di agenti del quartier generale del Nemico, pronti a commettere spionaggio, sabotaggio, e ogni altro atto di “destabilizzazione” di altri stati. Il Nemico, quindi, è “monolitico”, guidato esclusivamente e strettamente dall’alto, da pochi capi, ed è sempre dominato dal solo scopo di conquistare il mondo. Il modello da tenere presente è il dr. Fu Manchu, presentato come uno spauracchio internazionale.

Il Nemico, quindi, secondo la propaganda di guerra, è guidato da un solo scopo: la conquista del mondo. Non tradisce mai emozioni umane come la paura – la paura che potremmo attaccarlo – o la volontà di agire a scopo difensivo, o per amor proprio o per il desiderio di salvarsi la faccia di fronte a sé stesso o di fronte ad altri. Non possiede neppure attributi umani come la ragione.

No, c’è solo un emozione che può farlo vacillare: la forza superiore che lo costringerà a “cedere”. E’ così perché, oltre a essere un Fu Manchu, è anche come il Cattivo dei film western: si accuccerà davanti al Buono, se il Buono è forte, armato fino ai denti, risoluto ecc. Di qui, il complesso della paura e della vanagloria: paura del complotto presuntamente implacabile e permanente del Nemico; vanagloria dell’enorme potenza militare dell’America e delle sue ingerenze in tutto il mondo per “contenere”, “respingere”, ecc., il Nemico, o per “liberare” le “nazioni oppresse”.

Ora, il revisionismo ci insegna che questo mito, così diffuso all’epoca – e anche ora – su Hitler, e sui giapponesi, è un intreccio di convinzioni errate, dall’inizio alla fine. Ogni argomento di questa visione da incubo, o è completamente falso o, almeno, non è interamente vero. Se le persone capissero questa frode intellettuale sulla Germania di Hitler, allora inizierebbero a fare domande – e a esplorare i problemi – sulla versione corrente dello stesso mito applicato alla terza guerra mondiale. Nulla fermerebbe più velocemente la corsa precipitosa in atto verso la guerra o spingerebbe più sicuramente le persone a ragionare di nuovo sulla politica estera, dopo una lunga orgia di emotività e di luoghi comuni.

Perché la versione attuale del mito è basata sugli stessi vecchi errori. E questo si può constatare dall’uso crescente che i Guerrieri della Guerra Fredda stanno facendo del “mito di Monaco”: l’accusa continuamente ripetuta che fu la politica di “accomodamento” verso l’”aggressore”, a Monaco, che “alimentò” la sua aggressione (di nuovo il paragone con il Fu Manchu, o la Bestia Feroce), e che spinse l’”aggressore”, inebriato dalle sue conquiste, a scatenare la seconda guerra mondiale. Questo mito di Monaco è stato utilizzato come cavallo di battaglia contro ogni forma di negoziato razionale con le nazioni comuniste, e per condannare come “accomodamento” la ricerca di accordi più inoffensiva. E’ per questa ragione che il magnifico libro di A. J. P. Taylor – Le origini della seconda guerra mondiale – ha probabilmente ricevuto la recensione più deformante e forsennata sulle pagine della National Review.

E’ tempo che gli americani capiscano: che i Cattivi (nazisti o comunisti) non vogliono o desiderano necessariamente la guerra, o la “conquista” del mondo (la loro speranza di conquista può essere squisitamente ideologica e niente affatto militare); che anche i Cattivi possono temere il nostro uso della nostra enorme forza militare e la nostra aggressività; che sia i Cattivi che i Buoni possono avere interessi comuni che potrebbero rendere possibili dei negoziati (sulla base del fatto che nessuno vuole essere annientato dalle armi nucleari); che nessuna entità è un “monolite” e che gli “agenti” sono spesso, semplicemente, degli alleati ideologici che possono dissociarsi dai loro presunti “ispiratori”; e che, infine, possiamo apprendere la più profonda delle lezioni: che la politica interna di un governo spesso non è in alcun modo indicativa della sua politica estera.

Stiamo ancora soffrendo, in ultima analisi, del chiodo fisso di Woodrow Wilson: che le “democrazie”, per sé stesse, non inizieranno mai una guerra, e che le “dittature” sono sempre pronte a scatenarla. Per quanto possiamo e dobbiamo indignarci per i comportamenti interni della maggior parte dei dittatori (e certamente dei nazisti e dei comunisti) questi non hanno necessariamente relazione con la loro politica estera: in realtà molte dittature sono state inerti e passive nel corso della storia e, al contrario, molte democrazie hanno promosso e scatenato guerre. Il revisionismo può riuscire, una volta per tutte, a distruggere questo mito wilsoniano.

C’è solo una differenza sostanziale tra la capacità di una democrazia e quella di una dittatura di scatenare una guerra: le democrazie si impegnano molto di più nella propaganda menzognera, per suscitare e ottenere il consenso. Le democrazie che scatenano la guerra hanno bisogno di produrre molta più propaganda per convincere i propri cittadini, e allo stesso tempo di camuffare molto di più la propria politica sotto una cappa di moralismo ipocrita per ingannare gli elettori. L’assenza di questa necessità da parte delle dittature spesso fa sembrare la loro politica più bellicista, e questa è una delle ragioni per cui godono di “cattiva stampa”.

Il compito del revisionismo è stato quello di addentrarsi, sotto la superficie e l’apparenza, nella cruda realtà sottostante – realtà che mostra, in questo secolo sicuramente, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia – le tre grandi “democrazie” – come peggiori di ogni altro schieramento nel fomentare e nello scatenare guerre aggressive. Capire questa verità avrebbe un’importanza incalcolabile nello scenario attuale.

Non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare ai conservatori la fragilità del mito “democratico”: conosciamo bene, adesso, il concetto di “democrazia totalitaria”, la propensione abituale delle masse a tiranneggiare le minoranze. Se i conservatori riescono a vedere questa verità nella politica interna, perché non anche nella politica estera?

Vi sono molte altre, più specifiche ma parimenti importanti, lezioni che il revisionismo può darci. La Guerra Fredda, come già la prima e la seconda guerra mondiale, è stata intrapresa dalle democrazie occidentali per immischiarsi negli affari dell’Europa Orientale. La grande verità sull’Europa Orientale è che le nazioni più piccole sono destinate a sottostare al dominio, amichevole o meno, della Germania e della Russia.

Nella prima guerra mondiale, gli Stati Uniti e l’Inghilterra entrarono in guerra anche per aiutare la Russia a espandersi nella zona dell’Europa Orientale allora dominata dall’Austria-Ungheria e dalla Germania. Quest’ingerenza da parte nostra, che comportò un costo inenarrabile di vite umane, sia in Occidente che in Oriente, e una crescita interna enorme del militarismo, dello statalismo, e del socialismo, provocò una situazione nell’Europa Orientale che trascinò gli Stati Uniti e l’Inghilterra nella seconda guerra mondiale, per impedire alla Germania di dominare quella parte d’Europa.

Non appena la seconda guerra mondiale finì (comportando, negli Stati Uniti, una crescita enorme del militarismo, dello statalismo e del socialismo) gli Stati Uniti e l’Inghilterra sentirono di dover lanciare una Guerra Fredda per estromettere la Russia dal dominio sull’Europa Orientale, ottenuto come naturale conseguenza della duplice sconfitta della Germania. Per quanto ancora giocheranno gli Stati Uniti con il destino del popolo americano, o anche della stessa razza umana, per imporre una soluzione di nostro gradimento all’Europa Orientale? E se dovessimo scatenare un Olocausto per “distruggere il comunismo” e non dovesse sopravvivere, ecco il dubbio, neanche un americano, in cosa sarebbe distinguibile in realtà il sistema americano dal comunismo?

Vi sono due aspetti principali nella Guerra Fredda: l’obbiettivo di stabilire l’egemonia degli Stati Uniti e dell’Inghilterra sull’Europa Orientale, e quello di sopprimere le rivoluzioni nazionali che porterebbero le nazioni sottosviluppate fuori dell’orbita dell’imperialismo occidentale. In questo caso, di nuovo, il revisionismo della seconda guerra mondiale può fornirci delle lezioni importanti. Perché nella prima guerra mondiale, l’Inghilterra, sostenuta dagli Stati Uniti, entrò in guerra contro la Germania per ostacolare un importante rivale commerciale che era entrato tardi nella partita dell’imperialismo. Prima delle due guerre mondiali, l’Inghilterra e la Francia cercarono di mantenere la loro supremazia imperialista contro le nazioni senza impero, come la Germania e il Giappone, che erano entrate tardi nella corsa coloniale.

E ora, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno ricevuto lo scettro dell’imperialismo dalle mani indebolite dell’Inghilterra e della Francia. Il revisionismo perciò ci fornisce la chiave per capire che l’America è diventata ormai il colosso mondiale dell’imperialismo, nel suo sostenere regimi servitori e fantoccio in tutte le aree sottosviluppate del mondo, e nel suo sforzo feroce di soppressione di quelle rivoluzioni nazionali che porterebbero questi paesi fuori dell’orbita americana.

Come ha detto Garet Garrett: “Abbiamo oltrepassato il confine posto tra la repubblica e l’impero”. Poiché il comunismo si è alleato con i movimenti di liberazione nazionale contro l’imperialismo, che sono enormemente popolari, gli Stati Uniti, sotto l’appellativo ipocrita di “libertà”, sono ora impegnati nella logica conclusione della loro politica della Guerra Fredda: cercare di sterminare in Vietnam un’intera nazione per assicurarsi che [i vietnamiti] siano morti, piuttosto che rossi – e per conservare il dominio imperiale americano.

Queste sono tutte lezioni che il revisionismo può insegnarci. Perché il revisionismo, in ultima analisi, è basato sulla verità e sulla razionalità. La verità e la razionalità sono sempre le prime vittime di ogni frenesia di guerra e sono perciò, ancora una volta, una merce assai rara nel “mercato” attuale. Il revisionismo porta sulla frenesia artificiale degli avvenimenti quotidiani e della propaganda giornaliera la luce fredda, ma in definitiva splendida, della verità storica. Di tale verità, nel mondo di oggi, c’è un bisogno quasi disperato.
[1] Traduzione di Andrea Carancini. Il testo originale è disponibile all’indirizzo: http://www.lewrockwell.com/rothbard/rothbard158.html

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