Vincenzo Vinciguerra: Depistaggio

Vincenzo Vinciguerra: Depistaggio

Dal sito I volti di Giano:
 
DEPISTAGGIO
di Vincenzo
Vinciguerra, 27 LUGLIO 2016
Sono passati 23 anni dal mese di luglio 1993, quando il
giudice istruttore di Milano Guido Salvini, propose l’introduzione nel codice
penale del reato di depistaggio.
La rivista “L’Espresso”, nel numero del 1° agosto 1993,
rilanciò la proposta e al giudice giunsero congratulazioni, complimenti e
assicurazioni che la nuova norma sarebbe stata approvata in tempi rapidi.
Lo Stato italiano ed il suo regime politico, in realtà, non
potevano permettersi all’epoca di introdurre questa nuova fattispecie di reato
nel codice penale.
Erano ancora aperti i processi per la strage di Brescia del
28 maggio 1974, per quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, per quella
di Ustica del 27 giugno 1980, per la struttura denominata “Gladio”, solo per
ricordare i principali.
La proposta del giudice istruttore che, unico e solo fra i
magistrati, aveva aperto la via che portava alla verità sull’eccidio di Milano
del 12 dicembre 1969, invano osteggiato da Felice Casson e dai suoi colleghi
milanesi Gerardo D’Ambrosio e Grazia Pradella, venne archiviata insieme alle
promesse ed ai complimenti.
Poi, arriverà alcuni anni più tardi il governo presieduto da
Massimo D’Alema che disporrà la distruzione di tutti i documenti dei servizi
segreti non strettamente attinenti alla sicurezza nazionale, cancellando
ufficialmente tutte le note informative relative ai rapporti dei dirigenti
comunisti con l’Unione sovietica e, con esse, tutti i reati, dall’alto
tradimento, allo spionaggio, al sabotaggio, al finanziamento illecito del
partito.
Insieme ai documenti relativi ai comunisti, i servizi
segreti provvederanno di conseguenza ad eliminare quelli relativi all’estrema
destra italiana di cui si erano serviti come braccio operativo per tutto il
periodo del dopoguerra.
Nessuno protestò.
Il tentativo di Massimo D’Alema, incoraggiato da Francesco
Cossiga, di cancellare la verità eliminando le prove ha ottenuto un esito solo
parziale perché, grazie all’impegno profuso da Guido Salvini, un agente della
Cia e militante di Ordine nuovo, Carlo Digilio, è stato riconosciuto colpevole
di concorso nella strage di piazza Fontana, poi lo stesso, insieme ad un
secondo agente della Cia e militante di Ordine nuovo, Marcello Soffiati, è stato
indicato con sentenza passata in giudicato come corresponsabile della strage di
Brescia per la quale è stato, infine, condannato anche Carlo Maria Maggi,
ispettore triveneto di Ordine nuovo.
Solo la complicità di un asservito sistema mediatico ha
impedito agli italiani di comprendere appieno il significato di quelle condanne
che chiamano direttamente in causa lo Stato italiano ed i suoi alleati
internazionali.
Fra i condannati, però, non ci sono i diretti responsabili
della struttura clandestina denominata “Ordine nuovo”, sia italiani che
americani ed israeliani.
La mancata introduzione nel codice penale del reato di
depistaggio ha vanificato ogni tentativo di giungere alla verità sul conto
degli ufficiali e dei funzionari degli apparati dello Stato che hanno protetto
e garantito impunità ai loro subalterni dell’estrema destra.
Nell’estate del 2016, solo grazie all’impegno di Paolo
Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della
strage di Bologna del 2 agosto 1980, la legge che permetterà di introdurre nel
codice penale il reato di depistaggio è in dirittura di arrivo, pronta per
essere approvata nell’arco di qualche settimana.
Nessuno ne parla.
Non si enfatizza il riconoscimento implicito, ma chiarissimo,
della responsabilità degli uomini dello Stato e del regime nell’azione di
mistificazione della verità, nella scomparsa di prove, nel sostegno ai
colpevoli, nell’eliminazione anche fisica dei testimoni scomodi, nel loro
linciaggio morale.
Siamo l’unico paese nel mondo intero, che deve riconoscere
l’esistenza di operazioni di depistaggio nei fatti più gravi della storia del
dopoguerra.
Esistenza non riferita solo al passato ma ancora attuale
perché è costante la presenza di uomini degli apparati dello Stato e dei loro
responsabili politici nella protezione dei mafiosi, ieri come oggi.
Non solo, ma un paese nel quale la giustizia è parola vana,
svuotata di ogni significato, il depistaggio è possibile e corrente anche nelle
indagini per fatti comuni perché in un mondo senza onestà si falsificano le
prove o si cancellano per ambizioni di carriera, per smania di protagonismo,
per proteggere confidenti.
Il reato di depistaggio conserva, quindi, anche oggi la sua
capacità di deterrenza, con buona pace di quanti hanno fatto trascorrere 23
anni prima di approvarlo.
E, forse, la sua introduzione nel codice penale potrà
servire per aprire qualche porta del passato rimasta ancora chiusa per
l’impegno congiunto contro la verità di ex comunisti ed ex democristiani.
Nella storia, il “troppo tardi” non esiste.

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