Carlo Mattogno: Ringraziamento a Daniela Rana

Carlo Mattogno: Ringraziamento a Daniela Rana

Daniela Rana

Ringraziamento a
Daniela Rana
Alla
fine del 2011 Daniela Rana, all’epoca una studentessa che preparava la tesi di
laurea, mi interpellò, spiegandomi chiaramente il tema che intendeva trattare,
per avere una testimonianza diretta sulla mia attività revisionistica e
chiarimenti su alcune tematiche specifiche. Convinto della sua serietà, risposi
francamente alle sue domande.
Il suo
Dottorato di ricerca in Studi Politici – Storia e teoria” presso l’Università
degli Studi di Torino Dipartimento di Studi Politici
è apparso in rete col
titolo “On n’a gazé que les poux”. Le radici culturali e teorico-politiche
dei negazionismi tra Italia e Francia
[1].
Scorrendo
ciò che Daniela Rana ha scritto su di me, ho avuto piena conferma che la mia
fiducia sulla sua serietà era ben riposta: ella non solo è stata onesta e
obiettiva, ma si è anche sforzata sinceramente di capire e di esporre
correttamente il mio punto di vista, e, devo dire, c’è riuscita benissimo. Ciò
mi stupisce molto, perché, dato l’attuale bombardamento mediatico, è veramente
arduo, soprattutto per una studentessa, sottrarsi al condizionamento
vidal-naquetiano e pisantyano, che procura, per giunta, il facile plauso.
Una tale correttezza, nello squallido panorama
anti-“negazionistico”  italiano, è tanto
eccezionale da giustificare un ringraziamento da parte mia.
Daniela
Rana scrive che Carlo Mattogno è «il maggiore negazionista italiano e uno dei
più famosi a livello internazionale» (p. 12) e parla di «studi numerosi e
rigorosi di Carlo Mattogno» (p. 43).
Più avanti
mi descrive come «di gran lunga il più importante negazionista italiano e uno
dei maggiori a livello mondiale» (p. 133) e dichiara che
«In Italia, al netto delle traduzioni di autori stranieri, il
principale contributo al negazionismo nostrano originale fu dato da Carlo
Mattogno, il quale, tuttavia, non si può annoverare tra i negazionisti
spiritualisti o rosso-bruni né fra i militanti della destra radicale» (p. 158).
E
ancora:
«In effetti, si può sostenere che i veri padri di questo tipo
di negazionismo (che, non a caso, sono riconosciuti a livello internazionale
come i “grandi del negazionismo” tout court) siano Robert Faurisson, in
Francia, e Carlo Mattogno, in Italia» (p. 172).
Indi
fornisce un altro importante chiarimento:
«È vero che ad essi fa riferimento l’IHR, ma senza dubbio i
lavori di Faurisson e Mattogno rappresentano di gran lunga le opere più
significative dell’area. Le loro collaborazioni con gruppi e case editrici di
ispirazione neonazista soprattutto, o di sinistra estrema, sono riconducibili
ad un mero utilizzo strumentale di contatti e case disposte a pubblicare tale
materiale, sicuramente molto più presenti in queste aree, senza implicare
un’adesione degli stessi ai principi ispiratori di tali gruppi e case editrici.
A tale proposito, Mattogno chiarì che l’etichetta di “fascista dichiarato”
affibbiatagli da Vidal-Naquet (e poi ripresa da Germinario) era del tutto
infondata, affermando ironicamente che essa era “desunta, con stringente
logica, dal fatto che i miei primi studi furono pubblicati dalla fascista
Sentinella d’Italia, dato che gli altri editori, anche di sinistra, che avevo
interpellato, non vollero pubblicarli”» (pp. 172-173).
Daniela
Rana sfata inoltre la favola di una ferrea metodica che sarebbe seguita da tutti
i revisionisti, rilevando:
«Spesso, inoltre, si tende a considerare i diversi
negazionismi alla stregua di “scuole”, dando per scontata un’omogeneità interna
in realtà quasi inesistente. A volte, infatti, esponenti anche rilevanti dello
stesso filone non collaborano o arrivano alla rottura accusandosi
reciprocamente di plagio o di incompetenza. In sintesi, molte di queste
categorie coagulano realtà così vaste ed eterogenee da poter essere etichettate
sotto lo stesso nome solo per comodità ed esigenze di comprensione». 
In
nota esemplifica:
«Cfr. Robert Faurisson, Bilan de l’affaire Garaudy-abbé
Pierre
cit., in cui Faurisson accusò Garaudy di aver copiato intere parti
del suo lavoro senza citarlo o Carlo Mattogno, Ancora su Fred Leuchter e il
“denigratore” Mattogno. Aggiornamento della controversia Faurisson-Mattogno sul
rapporto Leuchter
, reperibile in www.studirevisionisti.myblog.it (blog di
Carlo Mattogno)[2], 8
gennaio 2011, in cui Mattogno rispose alle accuse di Faurisson circa una
presunta denigrazione di quest’ultimo ai danni di Fred Leuchter e del suo
rapporto, dopo che Mattogno ne aveva pubblicata una parziale stroncatura» (p.
97).
Successivamente
riprende la questione asserendo:
«Sarebbe, tuttavia, erroneo pensare che esista un accordo
granitico ed un fronte comune perpetuo tra i vari negazionisti fattualisti
rispetto alla ricezione e alla valutazione di determinati documenti e
testimonianze, nonché riguardo al modo di discutere internamente le diverse
opinioni. Ad esempio, emblematica è la querelle che ha visto Robert
Faurisson contrapporsi a Carlo Mattogno (con ogni probabilità, lo studioso più
rigoroso fra i negazionisti), “reo” di aver criticato alcune parti del
“Rapporto Leuchter”» (p. 191).
Quale
contrasto con i puerili luoghi comuni di Valentina Pisanty circa gli «otto
assiomi del negazionismo che tutti i negatori della Shoah sono
tenuti
a rispettare»[3]!
Daniela
Rana si è inoltre soffermata con perspicacia su temi fondamentali che altri
autori hanno sempre liquidato con spocchiosa sufficienza:
«L’elemento della buona fede di chi, con tali argomentazioni,
difendeva i negazionisti, richiama direttamente quello della buona fede dei
negazionisti stessi. In questo lavoro, la presunzione di buona fede dei
negazionisti fattualisti, ossia la convinzione che le loro ricerche siano
animate solo dalla volontà di perseguire la verità storica e non siano legate a
rigurgiti neonazisti e/o antisemiti, è accettata e data per scontata (a
differenza che per i negazionisti di matrice ideologica). Il dibattito sui negazionisti
e sulla loro presunta buona fede è fervido e vede molti studiosi autorevoli
schierarsi su posizioni che rifiutano la professione di buona fede (per
esempio, solo per citarne alcuni, Anna Foa, Francesco Germinario, Georges
Wellers, che la rifiuta in parte, ecc.). Altri emeriti studiosi, come
Pierre-André Taguieff e Valentina Pisanty, invece, si dicono convinti della
buona fede solo fino ad un certo punto della discussione (tipicamente, fino
alla pubblicazione del doppio lavoro di Jean-Claude Pressac, farmacista,
inizialmente negazionista poi convertitosi durante una ricerca su documenti
tecnici relativi ai crematori di Auschwitz-Birkenau, la cui ricerca fu ritenuta
talmente completa ed esaustiva dal punto di vista tecnico da poter
rappresentare il muro contro cui si sarebbe infranta ogni obiezione
negazionista). Dopo tale soglia, secondo questi studiosi, entra in gioco la
teoria del complotto: sostanzialmente, se con Pressac non ci si convince, è
perché, più o meno consciamente, si crede che gli ebrei siano gli artefici del
complotto che ha creato il “mito di Auschwitz”, o per fini concreti (tra cui,
tipicamente, l’estorsione di ingenti riparazioni di guerra alla Germania) o
perché si dà per scontato che essi siano, per loro stessa natura, menzogneri.
Questa convinzione viene riassunta da Mattogno, il quale, parlando delle
presunte ragioni dei negazionisti, afferma che, secondo gli storici, “un
revisionista deve avere per forza retro-pensieri, secondi fini, pulsioni
malsane, antisemite, naziste, ecc. ecc.”» (pp. 187-188).
Qui è
necessaria una precisazione. Se realmente i sostenitori della buona fede
condizionata dei revisionisti pongono come discrimine o muro infrangibile i due
studi di Jean-Claude Pressac, la cosa si può ritorcere facilmente contro di
loro. Poiché a mia volta ritengo di aver redatto una critica delle due opere di
Pressac completa ed esaustiva sotto
il profilo storico-tecnico (Le camere a gas di Auschwitz. Effepi,
Genova, 2009), a tal punto da poter rappresentare il muro contro cui si
infrange ogni obiezione degli storici olocaustici, se costoro non sfondano
questo muro con un altro studio che dimostri che la mia critica è storicamente
e tecnicamente infondata, si dovrà dubitare seriamente della loro buona fede,
ancor più se fingono che tale critica non esista. A beneficio dei volenterosi,
riporto in appendice la struttura dell’opera, in modo che abbiano un’idea
dell’impresa che li attende.
Quanto
a Pressac, se gli storici olocaustici considerano le sue opere di valore così
eccezionale, c’è da chiedersi per quale ragione la sua morte, avvenuta il 23
luglio 2003, passò vergognosamente inosservata nei mezzi di informazione ed io
fui l’unico a scrivere un ricordo della sua figura (in tutto il mondo
occidentale si associarono a me solo due “negazionisti”, J. Graf e a R.
Countess). Il mio “Ricordo di Jean-Claude Pressac” fu ripubblicato nel
quaderno “I Gasprüfer di Auschwitz” (Effepi, Genova, marzo 2004) dopo
essere apparso in tedesco nel numero di settembre-dicembre 2003 dei Vierteljahreshefte
für freie Geschichtsforschung
.
Questi
storici saranno senza dubbio sorpresi dall’apprezzamento che Pressac, fin da
allora, nutriva per i miei studi, testimoniati anche dalle dediche che appose
alle due sue opere maggiori che mi donò personalmente. Ormai sono passati molti
anni ed è forse tempo di rendere note queste dediche.
La
prima si riferisce ad Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers,
che mi donò quando fui ospite a casa sua, a La Ville du Bois, nel marzo 1990 (Immagine
1
).
La
seconda riguarda Les crématoires d’Auschwitz (1993), che mi inviò
per posta. In precedenza io gli avevo mandato il mio studio “Auschwitz: La
prima gasazione
” (Edizioni di Ar, 1992).
Il
testo dice:
«Grazie per la “Prima gasazione”.
Ho adottato la vostra conclusione, tranne che per la parte
negativa. Attendo con impazienza il seguito delle vostre opere e vi auguro buon
lavoro per l’avvenire» (Immagine 2).
Grazie
al mio studio, infatti, Pressac aveva spostato la datazione della “prima
gasazione” ad Auschwitz dal canonico 3-5 settembre 1941 (da lui accettata
in  Auschwitz: Technique and operation
of the gas chambers
, p. 132) a «tra il 5 e la fine di dicembre»  (Les crématoires d’Auschwitz, p.
34);  successivamente a Valérie Igounet
dichiarò che «se questa prima gasazione ha avuto luogo (si
ce premier gazage a eu lieu
), si colloca nel dicembre 1941, ovvero nel
gennaio 1942 e non ha alcun legame col massacro degli Ebrei»[4].
In “Auschwitz: La prima gasazione” (pp. 154-159) avevo dimostrato che la
datazione asserita da Danuta Czech nel suo Kalendarium di Auschwitz era
infondata perfino nel caso in cui l’evento fosse stato reale, perché, in tal
caso, non avrebbe potuto verificarsi se non dopo la conclusione dell’attività
della commissione Mildner, cioè, appunto, non prima del dicembre 1941.
Tornando
a Daniela Rana, ella ha illustrato in modo ineccepibile la mia posizione su uno
dei punti fondamentali dell’interpretazione revisionistica. Il passo è molto
lungo e merita di essere riportato integralmente, anche per mostrare che, chi
giudica obiettivamente, non teme di dare ampio spazio al “negazionista”:
«La nascita del mito di Auschwitz dal punto di vista del
negazionismo fattualista è ben spiegata da Carlo Mattogno, il quale
immediatamente esclude qualsiasi ipotesi di complotto o di costruzione
eterodiretta o, in qualche modo, manovrata da un centro intelligente: “Da parte
mia, non credo affatto né in un “complotto”, né in una falsificazione
intenzionale da parte della storiografia olocaustica. Credere che un solo
storico olocaustico sia consapevole dell’irrealtà dell’Olocausto e nonostante
ciò, per qualunque fine, ne affermi falsamente la realtà, mi sembra a dir poco
puerile”.
Mattogno ribalta qui la presunzione di buona fede,
concedendola agli “storici di professione”. In questo modo, si escludono il
complotto e anche la volontaria falsificazione di prove, documenti, ecc. da
parte degli storici, in favore della costruzione del mito. Tuttavia, Mattogno
non ribalta solo la presunzione di buona fede, ma anche l’accusa di errore
metodologico
: “Se in tale contesto ha senso parlare di “menzogna”, ciò
riguarda soltanto i mezzi, cioè la metodologia, per mezzo della quale questi
storici torturano i documenti e le testimonianze per dimostrare
“scientificamente” una tesi preconcetta”. Insomma, convinto della buona fede
degli storici e del fatto che i loro errori derivino da falle metodologiche,
Mattogno crea una lettura storiografica speculare a quella della storiografia
accademica, raggiungendo una convinzione ultima diametralmente opposta (il non
avvenuto sterminio ebraico), ma facendo costantemente riferimento a tutte le
tappe fondamentali della storiografia, sia pure lette alla luce di una
prospettiva opposta.
La “tesi preconcetta” sopraccitata non deriva però da una
volontaria mistificazione, ma nasce e si costruisce in un gioco di rimandi e di
specchi: una volta gettate le basi di tale impalcatura, gli storici -e l’errore
metodologico, secondo Mattogno, risiede esattamente qui- hanno forzato e letto
le fonti alla luce di una tesi già accettata: quella dell’avvenuto sterminio
ebraico. Gli storici, insomma, muovono dall’aprioristica convinzione
dell’avvenuto olocausto e, di conseguenza, anche senza rendersene conto,
leggono e interpretano le fonti in quella direzione.
Il nodo cruciale della questione risiede proprio nella
comprensione e nella ricostruzione dei modi in cui tale convinzione, poi
trasformata in “verità storica”, si sia formata. Sempre secondo Mattogno, che,
fra tutti i negazionisti, è quello che si è occupato meglio e più a fondo di
questo aspetto centrale, il mito delle camere a gas e dello sterminio
sostanzialmente nacque come “propaganda nera di cui fu preso
atto d’ufficio da parte delle Corti Marziali dei vincitori come “fatto
generalmente noto”. Questo “fatto generalmente noto” fu poi travasato nella
nascente storiografia olocaustica, che affonda le sue radici nell’attività
processuale di tali Corti marziali”. Per “propaganda nera”, Mattogno intende la
propaganda di guerra, che consisteva nella diffusione di notizie (quasi
completamente inventate) riguardanti le atrocità commesse dai nemici, insomma
un’intenzionale Greuelpropaganda, propaganda dell’orrore. […].
Nella fattispecie, Mattogno si riferisce alla propaganda che
nacque “in Polonia nel corso della seconda guerra mondiale da vari centri
clandestini specializzati in storie di atrocità e [che] fu diffusa dalla
Delegatura, la rappresentanza del governo polacco in esilio a Londra. Finita la
guerra, questa propaganda fu imposta con la forza delle armi dai Tribunali
militari alleati”. La propaganda, elaborata soprattutto dai centri di
resistenza ebraici e polacchi, tuttavia, come tutte le leggende, conserva,
secondo Mattogno, un fondo di verità, quale ad esempio il fatto innegabile dei
massacri operati dalle Einsatzgruppen sul fronte orientale. Nonostante
il riconoscimento di tali massacri, Mattogno non si spinge a considerarli alla
stregua di prove generali dello sterminio, come la storiografia generalmente li
legge -insieme all’Aktion T4-, ma li considera atrocità di guerra paragonabili a
molte altre.
All’interno dei campi le voci si diffusero e si rafforzarono a
vicenda e, per capire come esse hanno avuto origine dentro i campi, bisogna
fare riferimento al ruolo fondamentale giocato dai cosiddetti “Protocolli di
Auschwitz”. Essi rivestirono un ruolo cruciale nelle genesi delle storia sulle
camere a gas. I Protocolli consistono di diversi rapporti redatti da alcuni
detenuti ebrei slovacchi a Birkenau, che tra l’aprile e il maggio del 1944
riuscirono ad evadere (dapprima Rudolf Vrba e Alfred Wetzler, poi Czeslaw
Mordowicz e Arnost Rosin, che completarono il rapporto steso dai primi due).
Nel novembre dello stesso anno, il War Refugee Board -creato da Roosevelt nel
1944- pubblicò questi rapporti, aggiungendo la testimonianza di un maggiore polacco
-Jerzy Wesolowski, alias Tabeau-, evaso da Auschwitz poco prima. Lo scopo delle
evasioni era la diffusione di ciò che accadeva ad Auschwitz (dal 1943, era
attivo un movimento di resistenza clandestino interno al campo che lavorava a
quello scopo): i deportati evasi affermarono di aver redatto i rapporti -con le
relative mappe dei forni crematori- grazie a notizie di prima mano che
pervenivano loro direttamente da membri dei Sonderkommando, con cui
erano in contatto. Mattogno afferma, invece, che la pianta e la descrizione dei
crematori II e III del rapporto “sono pura fantasia”, concludendo che: “la
storia dello sterminio ebraico in camere a gas omicide riferito da Vrba e
Wetzler nel loro rapporto non proveniva dal Sonderkommando, ma fu
elaborata in ambienti estranei al Sonderkommando e all’insaputa di
questo. In altri termini, tale storia fu creata dal movimento di resistenza del
campo, senza neppure interpellare il Sonderkommando, come mera Greuelpropaganda”.
La propaganda assurse allo statuto di verità (prima
giudiziaria e solo dopo storica) grazie soprattutto al processo di Norimberga,
durante il quale vari segmenti propagandistici si contesero il primato: lo
sterminio tramite vapore, folgorazione, gas, ecc. Fu solo nel 1947, dichiara
Mattogno, che gli inquirenti polacchi scelsero il metodo del gas di scarico di
un motore, iniziando ad avallare la verità così come ci è giunta: lo sterminio
tramite gas. Più tardi, “questa propaganda menzognera, previamente filtrata e
rinvigorita dalle varie «commissioni di inchiesta» sovietiche,
polacco-sovietiche e polacche e dagli «accertamenti» di giudici istruttori,
entrò nelle aule dei Tribunali Militari, uscendone con la nuova veste di
«verità giudiziaria»”.
I tribunali militari, d’altro
canto, sono considerati lo strumento che permise agli alleati di continuare la
guerra con altri mezzi: Mattogno, ad esempio, riporta una dichiarazione di
Robert H. Jackson, il procuratore capo statunitense, alla seduta del 26 luglio
1946 del processo di Norimberga, in cui affermava che gli alleati erano
tecnicamente ancora in guerra contro la Germania, poiché non era stato firmato
-né c’era ancora accordo su- alcun trattato di pace e che quindi, in quanto
tribunale militare, la corte di Norimberga poteva ritenersi una continuazione degli
sforzi bellici degli alleati.
Insomma, si pone l’accento sulla funzione ideologica e
politica giocata dal processo di Norimberga.
All’inizio degli anni Cinquanta, quindi, la storiografia sulla
Shoah (grazie a storici del calibro di Leon Poliakov, ad esempio), secondo i
negazionisti, fece uscire la verità giudiziaria dalle aule di tribunale
travasandola nei libri di storia, ma dando già per scontato ciò che i
tribunali, a loro volta, avevano già dato per scontato: l’avvenuto sterminio
(“i processi precedenti alimentarono quelli successivi in una perversa spirale
che ad ogni nuova sentenza consolidava la “verità giudiziaria” che era già
presupposta fin dall’inizio”).
Dopo che avvenne il travaso del “mito di Auschwitz” da verità
giudiziaria (sanzionata prevalentemente da Norimberga) a verità storica (grazie
ad una ricezione acritica della verità giudiziaria da parte degli storici),
“decenni di martellamento storico-mediatico”, una sorta di riedizione dei
metodi di manipolazione delle masse, completarono l’opera.
Stridono, in questo quadro, le testimonianze di ex deportati e
le confessioni delle SS. Per quanto riguarda queste ultime, secondo Mattogno,
dato il clima, esse hanno assunto “le strategie difensive meno pericolose per
loro”, ammettendo lo sterminio, poiché la contestazione di questo “fatto
generalmente noto” sarebbe equivalsa ad un “suicidio processuale”. La
confessione era, cioè, più conveniente della negazione che, invece, sarebbe
stata indicata come il sintomo di un’aderenza impenitente al nazismo. Come
trattare, invece, le testimonianze e le memorie di ex deportati? In questi
casi, “la stragrande maggioranza dei testimoni è in buona fede, ma non ha visto
nulla”, secondo quello speciale statuto ossimorico del testimone integrale del
campo di sterminio, l’unico ad aver raggiunto la camera a gas e che, proprio
per questo motivo, non può più testimoniare. Ciò vale, secondo l’autore, anche
per Primo Levi, il quale, recluso a Monowitz, “conobbe la presunta verità su
Birkenau solo per sentito dire”. Paradossalmente, Mattogno si appropria qui
delle parole di Valentina Pisanty attraverso cui la semiologa spiega che parte
delle inesattezze riscontrate in alcune testimonianze o delle discrepanze
presenti tra diverse testimonianze riguardanti lo stesso evento fu dovuta alla
“confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri occhi e
ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento”.
Tuttavia, mentre la studiosa si
riferiva al comune processo di costruzione di una memoria collettiva
condivisa
(affermando che, col tempo, l’immediatezza del ricordo personale
si integra con i ricordi altrui, la lettura di altre opere sull’argomento, ecc.
per giungere ad una “visione più coerente e completa del processo di sterminio”),
Mattogno utilizza tali dichiarazioni per suffragare la propria ipotesi circa la
natura leggendaria delle camere a gas. I testimoni che, invece, mentono
consapevolmente sono pochissimi, nell’ordine di qualche decina ad Auschwitz;
essi mentono non per obbedienza ad un disegno prestabilito, ma per
comprensibili ragioni di vendetta e risentimento nei confronti delle SS,
facendo propria la propaganda nera che, all’interno dei campi, era creata e/o
diffusa dai movimenti di resistenza. Inoltre, la possibilità, per gli ex deportati,
di dichiarare testimonianze a volte al limite dell’assurdo, secondo Mattogno,
fu dovuta alla sostanziale impunità che Norimberga garantì nei confronti del
reato di falsa testimonianza commesso da ex deportati.
Un’ultima considerazione meritano le testimonianze di ex
membri dei Sonderkommando, reparti speciali costituiti da ebrei
destinati a sgomberare le camere a gas dopo le gasazioni, raccogliere i corpi
(in alcuni casi, perquisirli nuovamente alla ricerca di oggetti di valore),
aerare le camere, condurre i cadaveri ai forni crematori, bruciarli e smaltirne
le ceneri. Mentre Mattogno, come si chiariva in precedenza, è convinto che essi
non abbiano a che fare con le testimonianze contenute dei “Protocolli di
Auschwitz”, redatte, a suo avviso, all’insaputa dei membri dei Sonderkommando,
le testimonianze dirette degli stessi sono da lui ritenute tra i pochi falsi
consapevoli. In particolare, egli si è occupato di decostruire le testimonianze
di Shlomo Venezia (ultimo membro italiano di Sonderkommando sopravvissuto)
e i disegni di David Olère, (ex Sonderkommando e pittore, il quale,
scampato ad Auschwitz, disegnò e pubblicò ciò che aveva vissuto), ritenendoli
sostanzialmente dei falsi, smascherabili grazie ad incoerenze interne e scarti
rispetto alla realtà delle camere a gas e dei forni da loro descritta.
In conclusione, Mattogno così riassume la genealogia del “mito
di Auschwitz e delle camere gas”:
“Tutte le parti in causa si trovarono a sostenere, per ragioni
diverse, il dogma delle “camere a gas”, non già in virtù di un complotto, ma
perché questa era ormai la “verità” giudiziaria e mediatica. Per quanto
riguarda i testimoni, non c’è affatto bisogno di presupporre che fossero tutti
dei mentitori intenzionali; la cerchia di questi è numericamente insignificante.
La stragrande maggioranza dei testimoni ha semplicemente ripetuto e abbellito
ciò che aveva ascoltato da altre fonti, in un processo che David Irving ha
chiamato “cross-pollination”» (pp. 191-198).
Questa
esposizione è un modello di obiettività cui tutti dovrebbero ispirarsi.
Chiudo
con una notazione generale diretta a tutti i critici del revisionismo.
Se il
termine “negazionismo” vuole definire l’atteggiamento di chi “nega” ciò che è
ritenuto un dato storico  documentato e
dimostrato,   ossia  di chi si limita a rifiutare questo dato
senza apportare il minimo contributo positivo nella discussione relativa a
questo dato storico, l’appellativo di “negazionista” non mi compete
minimamente, perché – anche lasciando da parte il fatto che non ho mai “negato”
alcunché, ma ho sempre documentato e dimostrato che una certa
interpretazione di un certo documento o presunto evento è errata, presentandone
positivamente l’interpretazione corretta – ho redatto studi
eminentemente positivi, in particolare:
La
“Zentralbauleitung der Waffen-SS und Polizei Auschwitz”
(Edizioni di
Ar,1998), 221 pp. 53 documenti, che, come ho ricordato più volte, è l’unico
testo di un Italiano
che appaia nella bibliografia storica in varie lingue
(oltre 180 titoli) della prestigiosa opera Standort- und Kommandanturbefehle des Konzentrationslager Auschwitz
1940-1945
.  A cura di Norbert Frei, Thomas Grotum, Jan
Parcer, Sybille Steinbacher e Bernd C. Wagner. Institut für Zeitgeschichte.
K.G. Saur, Monaco, 2000 (p. 570). L’unico italiano ritenuto degno di menzione
dal comitato redazionale tedesco per il suo contributo storiografico
positivo  sarebbe dunque un  “negazionista”?
Auschwitz: assistenza sanitaria,
“selezione” e “Sonderbehandlung” dei detenuti immatricolati
. Effepi,
Genova, 2010, 233 pagine, 60 documenti. La Parte Prima espone un quadro
positivo, in base a documenti spesso ignoti alla storiografia olocaustica, su
condizioni di vita dei detenuti, ospedale per i detenuti, Häftlingslazarett
del BA III di Birkenau,  sorte dei detenuti
immatricolati inabili al lavoro; il capitolo 7 della Parte Seconda fornisce
una interpretazione alternativa dei documenti sulla “Sonderbehandlung”  dei detenuti immatricolati.
I forni
crematori di Auschwitz. Studio storico-tecnico con la collaborazione del dott.
ing. Franco Deana.
Effepi, Genova, 2012, 2 volumi, 523 pagine di
testo, 688 pagine di documentazione, costituita da 300 documenti e 370
fotografie.
Si può immaginare un’opera più positiva di questa?
I verbali degli interrogatori
sovietici degli ingegneri della Topf
, Effepi, Genova, 2014, 203 pagine,
11 documenti.
La prima
presentazione al mondo del testo completo di tutti gli interrogatori da
parte dei Sovietici degli ingegneri della ditta Topf, Kurt Prüfer, Karl
Schultze, Fritz Sander e Gustav Braun (1946-1948), tradotti dal russo da Jürgen
Graf (il testo tedesco non esiste) con analisi storico-tecnica e annotazioni al
testo mie. Questi documenti sono in possesso del Museo dell’Olocausto di
Washington dal 2000 e del Gedenkstätte Buchenwald dal 2003: chi li ha
pubblicati può sensatamente essere definito “negazionista”?
È
tempo per gli antirevisionisti di lasciare da parte le interpretazioni
semiotiche pisantyane e di cominciare a seguire seriamente l’esempio di Daniela
Rana.
                                                                                                          Carlo
Mattogno
Appendice
Le camere a gas
di Auschwitz
Studio
storico-tecnico sugli «indizi criminali» di Jean-Claude Pressac e sulla
«convergenza
di prove
» di Robert Jan van Pelt
Indice
Prefazione
Parte
Prima
Gli
«indizi criminali» sulle camere a gas omicide. Discussione
storico-critica delle tesi di Jean-Claude Pressac e di Robert Jan van Pelt
Prefazione
(p. 13)
Introduzione
(p. 17)
Capitolo
1 – Gli «indizi criminali» (p. 20)
1.1.
Gli antecedenti storici
1.2.
L’archivio della Zentralbauleitung di Auschwitz
1.3.
Premessa metodologica
1.4.
I 39 «indizi criminali»
1.4.1.
Indizi per il crematorio II
1.4.2.
Indizi per il crematorio III
1.4.3.
Indizi per i crematori IV e V
1.4.4.
Indizi supplementari (crematori II e III)
1.4.5.
Altri indizi
1.5.
Considerazioni preliminari
1.6.
Determinazione cronologica degli indizi e suo significato
1.6.1.
Indizi relativi al crematorio II
1.6.2.
Indizi relativi al crematorio III
1.6.3.
Indizi relativi ai crematori IV e V
1.7.
Contraddizioni di fondo
1.8.
Il sistema di ventilazione dei Leichenkeller 1 e 2 dei crematori II e
III
1.9.
I montacarichi dei crematori II e III
1.9.1.
Storia dei montacarichi dei crematori II e III
1.9.2.
I montacarichi al processo Irving-Lipstadt
Capitolo
2 – Gli «indizi criminali» per il crematorio II (p. 46)
2.1. – «Vergasungskeller»
2.1.1. Il
valore dell’indizio
2.1.2. Il
contesto storico
2.1.3. Il
significato del documento
2.1.4.
La funzione del «Vergasungskeller»
2.1.5. Obiezioni e risposte
2.1.6.
I commenti e le obiezioni di van Pelt
2.1.7.  «Gaskeller»
2.2. – «Gasdichtetür»,
«Gastür»
2.3.
– «Auskleideraum», «Auskleidekeller» e baracca davanti al crematorio II
2.3.1.
«Auskleideraum» 
e  «Auskleidekeller»
2.3.2. Origine e funzione dell’ «Auskleideraum»
del crematorio II di Birkenau
2.3.3.
La baracca davanti al crematorio II
2.3.4. Van Pelt e l ‘«Auskleidekeller»
2.4. «Sonderkeller»

2.5. – «Drahtnetzeinschiebevorrichtung»
e «Holzblenden»

2.5.1. La scoperta degli indizi

2.5.2.
Significato dei termini e localizzazione dei congegni

2.5.3. La testimonianza di Michał Kula

2.5.4.
Che cosa non erano i «Drahtnetzeinschiebevorrichtungen»
2.5.5.
I commenti di van Pelt
2.6. «Gasprüfer» e  «Anzeigegeräte  für Blausäure-Reste»
2.6.1.
L’interpretazione di Pressac
2.6.2.
La destinazione d’uso dei «Gasprüfer»
2.6.3. Il contesto storico
2.6.4. Il contesto burocratico
2.6.5. I problemi lasciati insoluti da
Pressac
2.6.6. Che cos’erano i «Gasprüfer»?
2.6.7. Prüfer e
i «Gasprüfer»
2.7. «Warmluftzuführungsanlage»
2.7.1. Posizione del problema
2.7.2. La spiegazione di Pressac
2.7.3. La spiegazione di van Pelt
2.8. «Holzgebläse»
2.9. Eliminazione
dello scivolo per i cadaveri
2.9.1. La pianta 2003 del 19 dicembre 1942 e
il suo significato
2.9.2. Il mascheramento dello scivolo
Capitolo
3 – Gli «indizi criminali» secondari relativi al crematorio II (p. 125)
3.1.
Origine e definizione degli «indizi criminali» secondari
3.2.
Considerazioni generali
3.3. Il sistema di drenaggio del crematorio II
3.4. L’apertura di un ingresso nel Leichenkeller 2
3.5. La direzione di apertura della porta del Leichenkeller
1
3.6. Sostituzione di una porta a due ante con una ad una sola
anta (a tenuta di gas) nel Leichenkeller 1
3.7.
Eliminazione dei rubinetti nel Leichenkeller 1
3.8.
Eliminazione del Leichenkeller 3
Capitolo
4 – Gli «indizi criminali» per il crematorio III: «Gasdichtetür» e «Brausen»
(p. 135)
4.1. L’interpretazione di Pressac
4.2.
Il contesto storico
4.3.
Le basi di legno delle presunte «docce finte»
4.4.
La «Gasdichtetür»
Capitolo
5 – Gli «indizi criminali» per i crematori IV e V (p. 145)
5.1.
Esposizione degli indizi
5.2. Progettazione dei crematori IV e V: il progetto iniziale
5.3.
Progettazione dei crematori IV e V: il primo progetto operativo
5.4.
Progettazione dei crematori IV e V: il secondo progetto operativo
5.5.
Progettazione dei crematori IV e V: il terzo progetto operativo
5.6. Tecnica di gasazione
5.7.
Sistema di introduzione dello Zyklon B
5.8. Van Pelt e le «12 St. gasdichten
Türen
»
5.9. La ventilazione naturale
5.10. La ventilazione meccanica
5.11.
Analisi della pianta 2006 dell’11 gennaio 1943
Capitolo 6 – Gli «indizi criminali» di carattere generale
(p. 165)
6.1. «Normalgaskammer»
6.2.
Perché le SS non usarono a scopo omicida camere a gas con sistema Degesch-Kreislauf?
6.3. «Verbrennung» e
«Sonderbehandlung»
6.3.1. Il documento
6.3.2.
Il «contesto storico» secondo van Pelt
6.3.3.
Gli errori di van Pelt
6.3.4.
Il vero contesto storico
6.3.5.
Il significato del documento
Capitolo 7 – I presunti «indizi criminali» per i Bunker
di Birkenau (p. 184)
7.1. Precisazione sul titolo
7.2. – «Sonderbehandlung»
7.2.1. La tesi di Pressac
7.2.2. I rapporti esplicativi di Bischoff
7.2.3. Le
quattro baracche «für Sonderbehandlung»
e i Bunker di Birkenau
7.2.4. «Sonderbehandlung» e «Entwesungsanlage»
7.3. Le «Badeanstalten für Sonderaktionen»
7.3.1. Le spiegazioni di Pressac
7.3.2.
Un progetto non realizzato
7.3.3. «Badeanstalten» e forni
crematori
7.3.4. La spiegazione di van Pelt
7.4. «Sperrgebiet»
7.5. «Material für Sonderbehandlung»
7.6.
I «Materialien für Judenumsiedlung» e il «rapporto» Franke-Griksch
7.6.1.
I «Materialien für Judenumsiedlung»
7.6.2.
Il «rapporto» Franke-Griksch e i commenti di Pressac
7.6.3.
Analisi critica dei commenti di Pressac
Parte
Seconda.
I forni crematori di Auschwitz-Birkenau. Struttura,
funzionamento, prestazioni tecniche e implicazioni storiografiche
       
 Capitolo 8 – La prima opera scientifica
sulla cremazione ad Auschwitz (p. 210)
8.1.
Introduzione
8.2.
Struttura dell’opera
8.3.
La cremazione moderna
8.3.1. La tecnologia dei
forni crematori fino alla prima guerra mondiale
8.3.2.
Gli sviluppi tecnici dei forni crematori tedeschi negli anni Trenta
8.3.3. Legislazione e statistiche sulla
cremazione in Germania
8.3.4. La ditta J. A. Topf & Söhne di
Erfurt
8.3.5. Stuttura e funzionamento del forno
crematorio a gasogeno riscaldato con coke degli anni Trenta
8.3.6. Tiraggio del camino e regime di
griglia
8.3.7. Il consumo di
coke di un forno crematorio a gasogeno
8.3.8. La durata del processo di cremazione nei forni a gasogeno
riscaldati con coke
8.4.
I forni crematori Topf di Auschwitz-Birkenau
8.4.1.
I forni crematori Topf per i campi di concentramento
8.4.2. Il forno crematorio a 2 muffole
riscaldato con coke
8.4.3.
Il forno crematorio a 3 muffole riscaldato con coke
8.4.4. Il forno crematorio a 8 muffole
riscaldato con coke
8.4.5. Funzionamento e conduzione dei forni
crematori Topf di Auschwitz-Birkenau
8.4.6. I forni crematori delle ditte H. Kori
di Berlino e Ignis-Hüttenbau di Teplitz
8.5. Il consumo di coke dei forni Topf di
Auschwitz-Birkenau
8.5.1. Bilancio termico del forno Topf a 2
muffole del crematorio di Gusen
8.5.2.
Bilancio termico del forno Topf a 2 muffole modello Auschwitz
8.5.3.
Bilancio termico del forno Topf a 3 muffole e a 8 muffole
8.5.4.
Osservazioni sul consumo dei forni a 3 e a 8 muffole
8.6.
La durata del processo di cremazione nei forni Topf di Auschwitz-Birkenau
8.6.1.
I documenti
8.6.2.
Gli esperimenti di cremazione dell’ing. R. Kessler
8.6.3.  Le liste delle
cremazioni del crematorio di Westerbork
8.6.4. La lista delle cremazioni del
crematorio di Gusen
8.6.5. La lista delle cremazioni dei forni
crematori Ignis-Hüttenbau A.G. riscaldati con nafta del crematorio di Terezín
8.6.6. Conclusioni
8.7. La capacità di cremazione dei forni
crematori di Auschwitz-Birkenau
8.7.1. Il funzionamento continuativo dei
forni
8.7.2. La cremazione contemporanea di più
cadaveri in una muffola
8.7.3. Le perizie tecniche sovietiche sui
forni crematori Kori di Lublino-Majdanek, Sachsenhausen e Stutthof
8.7.4. La capacità di cremazione dei forni
crematori di Auschwitz-Birkenau
8.7.5. L’ampliamento
degli impianti di cremazione di Birkenau
8.8. Le implicazioni storiografiche
8.8.1. L’attività dei forni dei crematori di
Birkenau
8.8.2. La durata della muratura refrattaria
dei forni crematori
8.8.3. Il numero delle cremazioni nel 1943:
la previsione delle SS
8.8.4. Il numero delle cremazioni nel 1943:
il consumo di coke
8.8.5. Le cremazioni all’aperto nel 1944
8.8.6.
L’eloquente silenzio di van Pelt
8.8.7. I testimoni
Capitolo 9 – Pressac e i forni crematori di
Auschwitz-Birkenau (p. 295)
9.1. L’incompetenza tecnica di Pressac
9.2.
Capacità di cremazione
9.2.1.
Il crematorio I
9.2.2.
I crematori di Birkenau
9.3.
Carico di una muffola
9.4.
Consumo di coke
9.5.
Rapporto muffole/detenuti
9.6. Le nuove interpretazioni di Pressac
9.6.1. Gli argomenti di Pressac su forni crematori
e cremazione
9.6.2. Discussione degli argomenti
9.6.3. Le congetture e le deduzioni di Pressac sui
forni crematori
9.6.4. I disegni tecnici di Pressac
9.7. Storia romanzata dei forni del crematorio I
9.7.1.
Il primo forno crematorio
9.7.2. Il secondo forno crematorio
9.7.3. La «prima gasazione» e il logoramento del
secondo forno crematorio
9.7.4.
Il terzo forno crematorio
9.8.
La ventilazione della camera mortuaria del crematorio I
9.9. I forni a 8 muffole
9.10. I progetti per la
cremazione in massa ad Auschwitz-Birkenau del 1943
Parte
Terza
I
testimoni Henryk Tauber e Rudolf Höss
Capitolo
10 – Analisi critica delle testimonianze di Henryk Tauber (p. 337)
10.1.
Introduzione
10.2.
Forni crematori e cremazione
10.2.1.
Dimensioni delle muffole
10.2.2.
Temperatura della muffola
10.2.3. Sistema di caricamento delle muffole
10.2.4.
Caricamento dei cadaveri: il disegno di David Olère
10.2.5.
Carico delle muffole e durata della cremazione
10.2.6.
L’apertura delle porte delle muffole
10.2.7.
La combustibilità dei cadaveri
10.2.8.
L’ «autocombustione» dei cadaveri
10.2.9.
Le braci dei cadaveri
10.2.10.
I camini fiammeggianti
10.2.11.
Le cremazioni di prova
10.2.12.
Il sacco «refrattario»
10.2.13. Le «fosse di cremazione»
10.2.14. Le «fosse di cremazione» e le
fotografie aeree di Birkenau
10.2.15. La falda freatica dell’area
di Birkenau
10.3. Le gasazioni
10.3.1. La prima gasazione omicida nel
crematorio II
10.3.2.
La baracca-spogliatoio
10.3.3. Le gasazioni successive nel crematorio II
10.3.4.
La porta della presunta camera a gas
10.3.5.
I dispositivi di introduzione dello Zyklon B
10.3.6.
Le docce «finte»
10.3.7.
La suddivisione della presunta camera a gas del crematorio II in due locali
10.3.8.
Il procedimento di gasazione nei crematori IV e V
10.4.
Forza e vicende del Sonderkommando
10.4.1.
La forza del Sonderkommando nel marzo-aprile 1943
10.4.2.
Il Sonderkommando dei Bunker
10.4.3.
La presunta gasazione di 200 detenuti del Sonderkommando
10.4.4.
Il presunto trasferimento a Lublino-Majdanek
10.4.5.
La rivolta del Sonderkommando
10.4.6.
Il mistero della sopravvivenza dei 90 membri del Sonderkommando
10.5.
Propaganda grossolana sulle atrocità delle SS
10.5.1.
Le persone bruciate vive
10.6.
Conclusione
Capitolo
11 – Analisi critica delle testimonianze di Rudolf Höss (p. 384)
11.1. Le contraddizioni
«inesistenti» delle dichiarazioni di Höss
11.2.
Errori, incongruenze e metodiche capziose di van Pelt
11.3.
Le torture inflitte a Höss
Parte
Quarta
Gli
errori tecnici e storici di van Pelt
Capitolo
12 – La «conoscenza peritale»
di van Pelt e i forni crematori di
Auschwitz-Birkenau (p. 398)
12.1.
La competenza di van Pelt sulla cremazione
12.2.
La capacità di cremazione dei crematori di Birkenau
12.2.1.
La lettera della Zentralbauleitung del 28 giugno 1943
12.2.2. Il progetto del forno di Fritz Sander
12.3.
La nota di Kurt Prüfer dell’8 settembre 1942
12.4.
Il consumo di coke per una cremazione
12.5.
Il numero dei cadaveri cremati con le forniture di coke ai crematori
12.6.
Le cremazioni multiple
12.7. Crematori e camere mortuarie
12.8. La capacità «eccessiva» dei
forni crematori
Capitolo
13. Le presunte aperture di introduzione dello Zyklon B sulla copertura del Leichenkeller
1 dei crematori IIe III di Birkenau (p. 433)
13.1. Le congetture di van Pelt
13.2.
Il rapporto di Daniel Keren, Jamie McCarthy e Harry W. Mazal
13.2.1.
Analisi critica delle «scoperte» archeologiche di Keren, McCarthy e Mazal
13.3.
Le testimonianze «convergenti»
13.3.1. Yehuda Bakon
13.3.2. David Olère
13.3.3. Le fotografie aeree del 25 agosto 1944
13.3.4.
La «fotografia del treno»
Capitolo
14 – Lo Zyklon B (p. 453)
14.1. La concentrazione di HCN nelle presunte camere a gas
omicide
14.2. Le forniture di Zyklon B ad Auschwitz
14.3.
Il numero dei gasati potenziali
Capitolo
15 – Il numero delle vittime (p. 467)
15.1.
La Commissione di inchiesta sovietica
15.2.
Nachman Blumental e altri
15.3.
La revisione di G.Wellers e di F. Piper
15.4.
Le statistiche di F. Piper
15.4.1.
Il numero degli Ebrei deportati
15.4.2. Il
numero degli immatricolati, dei non immatricolati (Durchgangslager) e
dei presunti gasati
15.4.3. Il
numero dei morti (detenuti immatricolati)
15.4.4. Conclusioni
15.5.
Significato e valore delle revisioni di J.-C. 
Pressac e di F. Meyer
15.6. La cifra propagandistica dei 4 milioni e
l’attendibilità dei testimoni
Parte quinta
L’origine della «convergenza
di rapporti indipendenti»
Capitolo
16
– La propaganda del movimento
di resistenza clandestino di Auschwitz (p. 492)
16.1. Le storie propagandistiche cadute nell’oblio
16.2.
La storia dello sfruttamento industriale dei cadaveri umani
16.3.
Nascita della storia propagandistica delle camere a gas
16.4. La propaganda si consolida: il contributo dei
Sovietici, dei Britannici e dei Polacchi
Capitolo
17 – Genesi della «conoscenza» delle presunte camere a gas di Auschwitz (p.
512)
17.1. IL «War Refugee Board Report»
17.2.
Le giustificazioni di un falso storico
17.2.1.
Le giustificazioni di van Pelt
17.2.2. Le giustificazioni di Pressac
17.3. L’origine del rapporto e del disegno del crematorio
II/III
17.4.
I Sovietici e il campo di Lublino-Majdanek: prove generali di propaganda
17.4.1.
Le «camere a gas»
17.4.2.
La montagna di scarpe
17.4.3.
I forni crematori
17.5.
L’articolo di Boris Polevoi del 2 febbraio 1945
17.6.
Le perizie e le indagini polacche
17.6.1. Roman Dawidowski
17.6.2. Jan Sehn
17.7. I testimoni Charles Sigismund
Bendel, Miklos Nyiszli e Filip Müller
17.7.1. Charles Sigismund Bendel
17.7.2.
Miklos Nyiszli
17.7.3. I testimoni Bendel e Nyiszli secondo Pressac
17.7.4.
Filip Müller
17.8.
I testimoni minori
17.8.1.
Ada Bimko
17.8.2.
Marie Claude Vaillant-Couturier e Severina Shmaglevskaya
17.8.3.
Janda Weiss
Capitolo 18 – Genesi e sviluppo delle
presunte camere a gas di Auschwitz (p. 558)
18.1. Le
carenze metodologiche di van Pelt
18.2. La presunta «prima
gasazione»
18.3. Le presunte gasazioni nel crematorio I
18.3.1. Infondatezza storico-documentaria
18.3.2. Pery
Broad
18.3.3. Hans
Stark
18.3.4. Storia romanzata della prima gasazione nel crematorio
I
18.4. I Bunker di Birkenau
18.4.1. Totale assenza di prove
18.4.2. La
prima interpretazione di van Pelt
18.4.3. La
seconda interpretazione di van Pelt
18.4.4.
L’interpretazione finale di van Pelt
18.4.5. La
presunta attività omicida dei Bunker
18.4.6. I testimoni
18.4.6.1. Jerzy Tabeau
18.4.6.2.
Szlama Dragon
18.4.6.3. David Olère
18.4.6.4. La «convergenza di prove» sui Bunker
18.4.6.5. Johann Paul Kremer
Capitolo
19 – La metodologia di van Pelt (p. 583)
19.1. La
leggenda del «terribile segreto» di Auschwitz
19.2. Le visite di alti ufficiali SS ad Auschwitz
19.3.
L’illusione della «convergenza di rapporti indipendenti» e della «convergenza
di prove»
Conclusione (p. 610)
Appendice
(p. 612)
Glossario
1) Struttura dell’SS-Wirtschafts-Verwaltungshauptamt (1942)
2) Sezioni (Abteilungen) e struttura del KL Auschwitz
3) Nota esplicativa sulla posizione gerarchica della Zentralbauleitung
di Auschwitz
4) Settori (Sachgebiete) della Zentralbauleitung
di Auschwitz nel gennaio 1943
5) Bauleitungen
dipendenti dalla Zentralbauleitung di Auschwitz nel gennaio 1943
6) Struttura della ditta J.A.Topf & Söhne di Erfurt alla
fine degli anni Trenta
Didascalie dei documenti (p. 625)
Abbreviazioni
degli archivi (p. 631)

Nota sulle fonti polacche
– Nota sulle fonti tedesche conservate a Mosca
Bibliografia
generale (p. 634)
Bibliografia
sulla cremazione (p. 644)
Indice dei
nomi (p. 649)
Documenti
(pp. 659-715).

 


[2]
 È più esatto dire blog su Carlo
Mattogno, dato che non ho alcun blog.
[3]
V. Pisanty, «Sul negazionismo», in: Italia contemporanea, n. 212,
settembre 1998, in rete:
[4]
V. Igounet, Histoire du négationnisme en France. Éd. du Seul, Parigi,
2000, p. 644.
One Comment
  1. Precisazione personale: i lavori di Daniela Rana su quello che lei continua a chiamare "negazionismo" e che io invece mi ostino a definire "revisionismo", pur se presentano la novità positiva di una presentazione corretta del pensiero di Mattogno, continuano ad avere seri limiti storiografici ed interpretativi. Il termine di "negazionismo ideologico" applicato ai revisionisti di sinistra che vorrà mai dire, che costoro negano la realtà delle camere a gas omicide per "partito preso"? Sembrerebbe di sì, nell'interpretazione della dr.ssa Rana, e bene hanno fatto i comunisti internazionalisti a mettere certi puntini sulle "i": http://www.nucleocom.org/archivio/archivionote/questione_ebraica.htm

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