Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria III

Vincenzo Vinciguerra: Nemici della patria III

Truman e De Gasperi

GOVERNI DEBOLI E…

Il 10 dicembre 1945 si forma, a Roma, il primo governo guidato da un
esponente della Democrazia cristiana, l’ex bibliotecario vaticano Alcide De
Gasperi.

Il governo è ancora espressione dei Comitati di liberazione na­zionale e
dei partiti che li hanno composti, così che democristia­ni, comunisti,
socialisti, rappresentanti dei tre partiti di massa, sono ancora insieme
impegnati nella difficile ricostruzione del Paese uscito distrutto dalla
guerra.

Ma, pochi mesi più tardi, nel corso del 1946, gli Stati uniti decidono di
rompere gli indugi e di passare all’offensiva contro l’Unione sovietica.

A rivelarlo è una figura storica del servizio
segreto civile, il prefetto Umberto Federico D’Amato che, nel corso di
un’intervista pubblicata dalla rivista “Il Borghese”, diretta da
Mario Tedeschi, il 12 luglio 1987, ricorda come James Jesus Angleton, uno dei
prin­cipali responsabili dello spionaggio statunitense in Italia, gli disse all’epoca
che il nemico da combattere non era più il fasci­smo ma il comunismo:

“Prese il discorso alla larga – ricorda D’Amato
– poi arrivò alla sostanza: fino a quel momento ci eravamo occupati di
fascisti; ma adesso il fascismo era finito, sconfitto mentre il vero perico­lo era
il comunismo. Bisogna cambiare obiettivo…”

Ora, coincidevano e si fondevano armoniosamente le
esigenze del Vaticano, ispiratore della politica di Alcide De Gasperi, e quel­le
degli Stati uniti che obbligavano i democristiani ad andare al­la guerra.

Per fare quest’ultima, però, serve coraggio e questo i democri­stiani non
l’hanno mai avuto, di conseguenza il loro agire politi­co è stato dettato
sempre dalla paura alla quale, successivamente, si è coniugato l’interesse di
mantenere in vita un Partito comuni­sta che, con la sua minacciosa presenza,
rendeva la Democrazia cri­stiana indispensabile per qualsiasi interlocutore
interno e, soprat­tutto, internazionale.

Ai “deboli” governi democristiani si affiancano, però, i poteri
forti, quello bancario ed
industriale e quello militare.

La resa democristiana al primo porta la data del 30 aprile 1947, quando
nel corso di una riunione del Consiglio dei ministri, Alci­de De Gasperi
riconosce l’esigenza di cedere alle pretese avanza­te dal potere finanziario ed
economico che non esita a definire il “quarto partito”:

“È innegabile – dice il presidente del Consiglio – che noi di­sponiamo
di una forte maggioranza all’Assemblea; ed è pure innega­bile che nel complesso
i partiti che partecipano al governo riscuotono un crescente numero di suffragi
dal corpo elettorale.

Ma i voti non sono tutto.

Possiamo godere, sì, della
fiducia della grande maggioranza degli elettori, ma le leve di comando decisive
in un momento economico così grave non sono in mano né degli elettori né del
governo. Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i
miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situa­zione.

Oltre ai nostri partiti, vi è in Italia un quarto partito, che può non
avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni
nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali,
l’aumento dei prezzi e le campa­gne scandalistiche.

L’esperienza mi ha convinto – conclude De Gasperi – che non si governa
oggi in Italia senza attrarre nella nuova formazione di governo oggi, in una
forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto partito, del partito di
coloro che dispongono del de­naro e della forza economica”.

La Democrazia cristiana rinuncia, in questo modo e per queste ragioni, a
fare una politica sociale in grado di allontanare la massa dei lavoratori dal
Partito comunista, per impegnarsi esclu­sivamente nel mantenimento e
nell’esercizio del potere con il so­stegno del capitalismo interno ed
internazionale.

     La grande borghesia italiana ha capitali e
privilegi da difendere e non ha scrupoli nei mezzi da impiegare per farlo,
siano essi leciti o meno, scaturiti dalle decisioni del governo e del Parlamento
o prodotti da sicari prezzolati.

Il 13 dicembre 1946, l’ex sottosegretario agli Interni della Rsi, Giorgio
Pini, aveva annotato in una sua relazione:

“I grossi borghesi non sperano più di salvarsi facendo il dop­pio
gioco e finanziando i sovversivi. Presi alla gola, essi vorrebbero alimentare
un nuovo squadrismo della vecchia impronta. Promettono soldi ma chiedono sangue!”.

E il sangue viene versato.

Dopo l’esito delle elezioni
regionali in Sicilia, svoltesi il 20-21 aprile 1947, che hanno visto il
“Blocco del popolo”, formato dai partiti comunista, socialista ed
azionista, aumentare i pro­pri voti in modo consistente (100 mila in più
rispetto al 2 giu­gno 1946) e la Democrazia cristiana perderne quasi 250 mila,
la risposta è affidata alle armi, a quelle della mafia palermitana.

Il 1° maggio 1947, il mafioso Salvatore Giuliano fa sparare con una
mitragliatrice sui “rossi” convenuti con le loro famiglie a Portella
della Ginestra per la festa del lavoro, provocando 12 morti e 33 feriti.

Nella notte fra il 22 ed il 23 giugno 1947, Salvatore Giuliano ed i suoi
uomini compiono un raid contro le sedi delle sezioni co­muniste di Partinico,
San Giuseppe Jato, Carini, Borgetto, Monrea­le e Cinisi, provocando altri morti
ed altri feriti.

La grande borghesia siciliana che si riconosce nella massoneria e vede
nella Democrazia cristiana il partito chiamato a protegger­ne gli interessi,
utilizza la mafia, forza borghese e di polizia ausiliaria a disposizione dello
Stato, per lanciare un monito che travalica i confini dell’isola e si propone
come modello valido per l’intero territorio nazionale.

Le azioni di Salvatore Giuliano, bandito fantomatico e mafioso effettivo,
sono frutto di un gelido e cinico calcolo politico per­ché sono prossime le
elezioni politiche dapprima previste per il 20 giugno 1947, poi posticipate ad
ottobre ed infine fissate per il 18-19 aprile 1948.

La possibilità che i partiti di estrema sinistra possano conse­guire
sull’intero territorio nazionale un risultato altrettanto positivo di quello
ottenuto in Sicilia, con un forte aumento di voti al quale potrebbe
corrispondere un secca perdita di consensi da par­te della Democrazia
cristiana, è concreta ed è segnalata con preoccupazione anche dall’agente
americano Barret che, in un rapporto del 22 aprile 1947, scrive

“I comunisti emergeranno come il partito italiano più forte a meno
che a posporre la data delle elezioni non intervengano even­ti
imprevedibili”.

La grande borghesia italiana si pone, quindi, all’avanguardia della lotta
contro il comunismo condizionando l’operato del go­verno che ha perso, come
abbiamo visto, l’illusione di comandare nel Paese prescindendo da quel
capitalismo che, dopo aver sostenu­to il regime fascista, aveva finanziato
l’antifascismo ed ora in­tende dirigere l’anticomunismo.

Sarebbe improprio definire le Forze armate il
“quinto partito”, ma è corretto considerarlo uno dei “poteri
forti” di una Nazione, in stretto collegamento con quello capitalista con
il quale stabilisce un rapporto simbiotico.

Non è una novità fare riferimento al complesso militare-industriale, nel
quale esiste un giro vorticoso di miliardi che incide anche nel tessuto sociale
perché offre lavoro a migliaia di persone e sviluppa tecnologie che possono
avere anche impieghi civili.

    I due
poteri forti, quello industriale e quello militare, si ri­troveranno insieme a
combattere contro la Cgil così come, sempre congiuntamente, costituiranno un
servizio informativo parallelo a quelli dello Stato, e svilupperanno un
autonomo rapporto con i corrispettivi “poteri forti” internazionali
collocandosi, nel tempo, in una sfera sovranazionale dall’alto della quale
l’Ita­lia appare la parte di un tutto così che i suoi interessi perdo­no valore
ed importanza dinanzi agli obiettivi strategici che si pone l’impero americano.

Agli Stati uniti non interessiamo come popolo perché
a parte la intelligenza e le furberia non abbiamo nessuna delle qualità che
possono destare la stima e 1’ammirazione del mondo.

Se qualche anno dopo la fine del conflitto, Maurice Bardeche poteva
sottoporre ai vincitori il dilemma se avere “le Ss con noi o contro di
noi”, ponendo in risalto il valore guerriero della stirpe germanica, non
altrettanto si poteva fare con gli italiani che, 8 settembre 1943 e relativa
fuga collettiva parte, aveva­no schierato, con le debite eccezioni, nel corso
della guerra accanto ai ferrei reggimenti tedeschi i fragili battaglioni di
“mam­ma mia” con gli esiti bellici che tutti conosciamo.

Possiamo essere un grande museo all’aperto, possiamo esibire le bellezze
naturali del nostro territorio, o’sole mio, le nostre pia­centi e disponibili
donne, ma è sempre troppo poco perché qualcuno voglia rischiare un conflitto
mondiale per averci al suo fianco.

Siamo una fortezza naturale, una grande base militare aeronava­le dalla
quale si può controllare l’intera area mediterranea, ed è la sola, unica ed
esclusiva ragione per la quale gli Stati uni­ti non ci hanno abbandonati al
nostro destino e non hanno favori­to le secessioni che avrebbero riportato
l’Italia indietro nel tem­po, ad un’epoca anteriore al 17 marzo 1861.

Se l’interesse americano per il nostro Paese è di carattere  esclusivamente militare, non deve destare
sorpresa il fatto che gli americani abbiano sempre diffidato dei politici
italiani ed abbiano di converso stretto legami sempre più forti con
l’establishment militare fino a trasformarlo nella propria guardia pretoriana.

Il vero problema, l’autentico cruccio dei governi americani nel
dopoguerra è stato, difatti, rappresentato dalla inettitudine dei politici
italiani che il National security council segnala fin dal 15 settembre 1947:

“Il governo italiano – scrive – che propende ideologicamente ver­so
le democrazie occidentali, è debole e soggetto ai continui at­tacchi di un
forte partito comunista”.

Il 5 gennaio 1951, il segretario di Stato americano, Dean Acheson, in una
lettera indirizzata al presidente, Dwight Eisenhower, include l’Italia nel
novero dei paesi facenti parte della Nato che “per la loro natura latina
soffrono di instabilità sociale, politica ed emotiva”, mentre la presenza
al loro interno di forti partiti comunisti esercita “un’influenza
corrosiva sul morale nazio­nale” e ne rafforza il “desiderio di
essere neutrali”.

Solo esercitando una forte leadership, conclude Acheson, gli Stati uniti
potranno indurre questi Paesi ad “intraprendere i passi necessari”
per combattere il pericolo comunista.

Il 14 gennaio 1954, su sollecitazione dell’ambasciatrice ameri­cana a
Roma, Clara Booth Luce, il segretario di Stato John Foster Dulles indirizza una
lettera al presidente del Consiglio italiano informandolo minacciosamente che
gli Stati uniti rivedranno “il proprio atteggiamento politico nei
confronti dell’Italia, se da parte italiana emergesse a sua volta un nuovo e
diverso orientamento” .

Il 19 gennaio 1961, il National security council premette
nella direttiva 6014/1 che la politica condotta dai governi democristia­ni non
è stata in grado di “screditare le pretese comuniste di le­gittimazione
come forza politica democratica e non ha preso adeguate misure per indebolire
il vasto apparato organizzativo comuni­sta”, adottando contromisure sulla
cui gravità torneremo più avan­ti, nel prosieguo della nostra analisi.

Il 12 gennaio 1978, gli Stati uniti reiterano, questa volta in forma
pubblica, il minaccioso avvertimento lanciato da John Foster Dulles il 14
gennaio di ventiquattro anni prima.

A Washington, il portavoce del Dipartimento di stato, John Trattnen,
rende pubblica la dichiarazione approvata il giorno preceden­te dal Consiglio
per la sicurezza nazionale sulla politica di so­stanziale apertura verso il
Partito comunista seguita dal governo italiano.

“La visita dell’ambasciatore Gardner a Washington ha fornito 1’occasione
di un incontro con autorevoli esponenti del Governo per un esame generale delle
direttive politiche. L’atteggiamento del Go­verno nei riguardi dei partiti
comunisti dell’Europa occidentale, compreso quello italiano non è mutato. Non
v’è dubbio tuttavia che i recenti avvenimenti in Italia hanno accresciuto la
nostra preoccupazione. Come il Presidente e altri esponenti del Governo hanno
dichiarato in numerose occasioni, i nostri alleati dell’Europa oc­cidentale
sono paesi sovrani e, com’è giusto e appropriato la decisione su come
governarsi spetta esclusivamente ai loro cittadini.

Al tempo stesso – prosegue il portavoce del Dipartimento di sta­to –
riteniamo di avere verso i nostri amici e alleati il dovere di esprimere
chiaramente il nostro punto di vista. Esponenti del Governo hanno ripetutamente
espresso tali vedute sulla questione del­la partecipazione dei comunisti ai governi
dell’Europa occidentale. La nostra posizione è chiara: noi non siamo favorevoli
a tale partecipazione e vorremmo veder diminuire l’influenza comunista nei
paesi dell’Europa occidentale.

Come abbiamo detto in passato, riteniamo che il modo migliore per
conseguire questi obiettivi sia attraverso gli sforzi dei par­titi democratici
per soddisfare le aspirazioni popolari di un go­verno efficiente, giusto e
aperto alle istanze sociali”.

È un ultimatum.

Lo stesso giorno, il quotidiano
milanese “Il Giorno” non pubblica un articolo scritto da Aldo Moro
che rivendica autonomia per l’Ita­lia sia nei confronti degli Stati uniti che
dell’Unione sovietica:

“A noi – scrive il presidente della Democrazia
cristiana – tocca decidere, in piena autonomia, ma con grande equilibrio e
senso di responsabilità”.

La raffica di mitra sparatagli da un cialtrone prezzolato come Mario
Moretti, il 9 maggio 1978, dirà ad Aldo Moro che si stava sba­gliando .

Del resto, gli americani conoscono la pavidità dei politici de­mocristiani
fin dall’immediato dopoguerra.

Il governo presieduto da Alcide De Gasperi tenta in tutti i mo­di di
ritardare la partenza delle truppe d’occupazione americane dall’Italia.

Lo prova il telegramma che l’assistente segretario di Stato, Robert A. Lovett,
invia il 28 novembre 1947 al segretario delle Forze armate americane, Royall:

“Come è noto il presidente ha approvato oggi la richiesta del
premier italiano De Gasperi per un rinvio della partenza delle forze degli
Stati uniti in Italia fino al 14 dicembre. Si deside­ra che vengano date le
istruzioni relative dal Dipartimento del­le forze armate al Comando generale
Usa in Italia”.

La paura democristiana e clericale che invoca la protezione del­le
baionette straniere è confermata il 5 dicembre 1947, dal tele­gramma che
l’ambasciatore americano, James Clement Dunn, invia al segretario di Stato,
George Marshall, nel quale segnala i timori di Alcide De Gasperi per
l’imminente ritiro delle truppe america­ne dall’Italia, ed il suo consiglio di
acquartierare i contingenti in Austria in modo che possano intervenire subito
in caso di ne­cessità.

De Gasperi, segnala l’ambasciatore, chiede anche che il governo americano
faccia una dichiarazione “per ricordare alla opinione pubblica il proprio
dovere ed il proprio diritto ad intervenire non appena l’integrità territoriale
dell’Italia oppure il gover­no democratico ed antitotalitario del paese
risultassero in peri colo”.

Due giorni più tardi, il 7 dicembre 1947, l’ambasciatore ameri­cano,
James Clement Dunn, trasmette via radio al Dipartimento di Stato un dispaccio
contenente l’elenco degli articoli militari richiesti dal governo italiano (25
mila armi leggere per la Pub­blica sicurezza e i carabinieri) che viene
immediatamente inoltrato al Dipartimento delle forze armate.

Spendere milioni di dollari per acquistare armi in
un Paese ancora alla fame, con la gente che si fa ammazzare nelle strade e
nelle piazze dalle forze di polizia per chiedere, con giusta veemenza, un
miglioramento delle proprie condizioni di vita, nuoce­rebbe all’immagine che
Alcide De Gasperi ed i suoi collaboratori vogliono offrire di sé stessi agli
italiani, così l’addetto mili­tare presso l’ambasciata americana a Roma, il 9
dicembre 1947, in merito alla richiesta di armi avanzata dal governo italiano,
infor­ma il suo governo che “faremo un accordo informale, poiché gli ita­liani
non desiderano mettere niente per iscritto”.

Dopo quasi trent’anni, uno dei più stretti
collaboratori di Al­cide De Gasperi, Giulio Andreotti, si sentirà autorizzato a
nega­re la richiesta di armi al governo americano avanzata dall’allora
presidente del Consiglio, affermando di aver sentito quest’ultimo chiedere agli
americani solo pane per gli italiani.

A smentire Andreotti c’è la documentazione
americana.

Il 13 dicembre 1947, in un
memorandum inviato al segretario di Stato dal generale D. H. Arnold della
divisione Piani e operazioni, è elencato il materiale militare destinato
all’Italia su richiesta del governo presieduto da Alcide De Gasperi:

“Il Dipartimento delle Forze armate – è scritto nel memorandum – è
preparato a fornire al governo italiano le seguenti partite di armi e
munizioni:

Proiettili US cal. 30 M 1903 – 50.000.

Pistole auto cal. 45 M 1911 – 5.000.

Fucili mitragliatori cal. 45
Thompson – 20.000

Cartucce Ball cal. 30 –
30.000.000.

Cartucce Ball cal. 45 – 20.175.000.

Il 21 aprile 1947, a Washington, il Comitato di
coordinamento delle Forze armate americane presenta il rapporto redatto su ri­chiesta
del sottosegretario di Stato, Dean Acheson, sui mezzi mi­gliori per fermare il comunismo.
Il metodo che i militari america­ni
ritengono più idoneo è quello di utilizzare “bread and ballots rather than
bullets”, cioè pane e voti piuttosto che pallottole.

    I cristianissimi
politici democristiani, al contrario, preferi­scono prima le pallottole e poi,
se avanza, il pane.

Il 14 dicembre 1947, a Washington, il presidente Harry Truman autorizza
la Cia a”compiere operazioni psicologiche clandestine per neutralizzare le
attività sovietiche” in Europa e, contestual­mente, rilascia la pubblica
dichiarazione invocata da Alcide De Gasperi.

“Nonostante gli Stati uniti stiano ritirando le loro truppe dal­l’Italia
in base agli obblighi assunti con il Trattato di pace, il nostro paese continua
ad avere un interesse nel mantenimento di un’Italia libera e indipendente. Se
lo sviluppo degli avvenimenti dovesse dimostrare che la libertà e
l’indipendenza dell’Italia, che sono le premesse su cui sono basati gli accordi
di pace, sono minacciate direttamente o indirettamente, gli Stati uniti, in
quan­to firmatari del trattato di pace e in quanto membri delle Nazioni unite,
si sentiranno obbligati a chiedersi quali misure possano essere più idonee al
mantenimento della pace e della sicurezza”.

Il giorno dopo, 15 dicembre 1947, con due mesi di ritardo, le truppe
americane abbandonavano l’Italia dopo oltre quattro anni di occupazione, per
ritornarvi ancora e definitivamente, questa volta come alleate, nelle basi
militari poste a loro disposizione dai governi democristiani, alla metà degli
anni Cinquanta.

Il governo di un Paese militarmente sconfitto e ridotto in ro­vina che
chiede alle truppe di occupazione straniere di restare nel suo territorio per
sparare su quella parte di italiani che non sono allineati con la sua politica,
può apparire come il fon­do del baratro in cui erano caduti l’Italia e gli
italiani.

Ma il peggio deve ancora venire.

Il 18 aprile 1948, il “Fronte
democratico popolare” arretra, perdendo più di un milione di voti, mentre
la Democrazia cristiana ne raccoglie 12.741.299 assicurandosi una maggioranza
che le ga­rantisce l’assoluta governabilità.

Ma, per la “classe digerente” uscita dalle urne il 18 aprile
1948, rimane prioritaria la minaccia rappresentata da quegli 8.137.407 voti
raccolti dal Partito comunista e da quello socia­lista.

Invece di dare avvio ad una politica di pace, la Democrazia cri­stiana
intensifica quella di guerra, pur nella consapevolezza che il Pci, vincolato
dagli ordini di Mosca, non tenterà mai l’assal­to armato al potere.

La prova giunge il 14 luglio 1948, quando Antonio Pallante spara su
Palmiro Togliatti, a Roma, in piazza Montecitorio, riuscendo però solo a
ferirlo.

In serata, il segretario nazionale del Pci fa pervenire ad Alci­de De
Gasperi un messaggio chiaro e conciso:

“Non succederà niente”.

Come rivelerà, il 22 marzo 1950, Matteo Secchia ad un diplomatico
sovietico, quel 14 luglio 1948, su 22 componenti della direzione nazionale del
Pci, 12 votarono contro la proposta di passare al­la fase insurrezionale, 8 a
favore e 2 si astennero.

Le proteste dei militanti comunisti per l’attentato contro Palmiro
Togliatti si conclusero nell’arco di due giorni con un bilan­cio ufficiale,
secondo i dati forniti dal ministro degli Interni Mario Scelba al Parlamento,
il 16 luglio 1948, di 7 morti e 120 feriti fra le forze di polizia e di 7 morti
e 86 feriti tra i ma­nifestanti.

Ma i 14 morti e i 206 feriti seguiti all’attentato contro Palmiro
Togliatti non sono il frutto di un tentativo insurrezionale.

Lo riconosce il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Fedele De
Giorgis, che il 5 agosto 1948, in una sua relazione scri­ve:

“Non sono nel giusto secondo me coloro i quali hanno voluto ve­dere
negli ultimi fatti, o una generale prova delle forze sovver­titrici, per ogni
evenienza futura, o la realizzazione parziale di un coordinato progetto
insurrezionale…Fin dal primo momento ebbi la sensazione che ci si trovasse di
fronte a iniziative lo­cali, slegate fra loro, spesso non orientate verso
obiettivi pre­cisi, talora assurde, che finirono per concludersi in danno degli
stessi promotori”.

Lo segnala un dettagliato rapporto della Cia del 18 agosto 1948, redatto
sulla base di informazioni provenienti dall’interno dei vertici del Pci, che
informa come “verso le ore 23,30 di merco­ledì (14 luglio – Ndr)
l’ambasciata russa ha fatto sapere per te­lefono che lo sciopero doveva essere
revocato giovedì mattina. Grieco si è recato presso l’ambasciata russa per poi
tornare molto ab­battuto al quartiere generale del Pci. Ha quindi informato i
suoi colleghi che Mosca aveva condannato l’azione del partito e aveva impartito
ordini perché per nessun motivo venissero provocati at­ti di violenza in
Italia. A causa della delicata situazione inter­nazionale in atto, aggravata
dalla crisi di Berlino e da quella jugoslava, Mosca non desiderava che i
partiti comunisti di Italia e Francia si compromettessero troppo. Il Cremlino, infatti,
non vo­leva al momento una guerra civile in Italia e in Francia, dal momento
che la Russia era impossibilitata ad intervenire per soste­nere i
comunisti”.

Sulla volontà sovietica di imporre ai partiti comunisti italiano e
francese di mantenersi nei limiti della legalità le segnalazioni erano
molteplici. Così l’8 agosto 1948, anche il prefetto di Tori­no, in una nota
inviata al ministero degli Interni, scrive che “il Cominform avrebbe
rinunciato ad una azione rivoluzionaria in Italia, dove bisogna attuare grandi
agitazioni di massa con pre­testi economici”.

La certezza, confermata da fatti concreti, che il Pci
non ha al­cuna intenzione di giungere al potere con un’insurrezione induce i
dirigenti democristiani a disporre la smobilitazione sia pure par­ziale del
proprio apparato militare.

Lo ricorda Paolo Emilio Taviani che, nel suo diario, alla data del 20
settembre 1948, scrive:

“Ci siamo riuniti oggi a piazza del Gesù. C’erano Martiri Mauri,
Ferrari Aggradi, Marcora, il comandante Scrivia (Aurelio Ferrando), Chiri,
presidente dei Volontari del Lazio e il colonnello Ferralasco di Genova. Ho
detto che è giunto il momento di disarmarci. La Repubblica ha saputo dimostrare
di sapere mantenere l’ordine, il popolo è in maggioranza con noi. Ho proposto
di cedere le armi all’esercito.

Mattei ha osservato che il nuovo esercito è abbastanza ben piaz­zato
sull’Adriatico, ma non altrettanto sui versanti occidentali.

A farla breve, abbiamo deciso di consegnare ai Carabinieri tutte le armi,
ad eccezione delle pistole che saranno trattenute e denunciate”.

È una verità parziale, perché don Gianni Baget Bozzo rivelerà che “un’organizzazione
paramilitare cattolica Dc ci fu anche du­rante la guerra di Corea, altro periodo
di forte tensione in Italia”.

Un fatto emerge con chiarezza dall’esame dei comportamenti dei dirigenti
democristiani: che, al loro interno, il sentimento pre­valente è la paura, non
solo politica ma anche fisica dei comunisti.

Una paura che viene attenuata solo dalla consolante certezza di poter
fare affidamento sulla potenza militare degli Stati uniti che, da parte loro,
passato il timore di una vittoria elettorale del “Fronte popolare” in
Italia il 18 aprile 1948, non ritengono che questa sia al primo posto nelle
esigenze difensive che, via via, si prospettano.

Lo segnala, al ministro degli Esteri Carlo Sforza, il segretario generale
del ministero degli Esteri, Guido Zoppi, con una nota del 22 luglio 1948, nella
quale scrive:

“È stato comunque detto da parte americana che la messa in atto di
difesa della Groelandia, Irlanda, Islanda costituisce il primo obiettivo da
raggiungere fuori dalle frontiere degli Stati uniti. Ciò risponde del resto a esigenze tecniche e militari ben com­prensibili
ed è da ritenersi che l’eventuale difesa dell’Europa verrà presa in
considerazione in tempi successivi estendendola progressivamente dall’estremo
occidente europeo e nord Africa, via via, verso est a seconda dei progressi del
riarmo americano e delle disponibilità offerte da tale riarmo. In queste condizioni è da ritenersi che l’Italia non
potrebbe venire compresa nell’area di una effettiva difesa americana che in un
secondo o terzo tempo”.

Per una classe dirigente che vive nel terrore di una vittoria comunista
sul piano elettorale, la prospettiva di essere esclusa, per un tempo indefinito
dall’area di difesa degli Stati uniti ap­pare spaventosa.

Cosi il governo italiano muove i primi cauti passi per convincere gli
Stati uniti ad aggiungere anche l’Italia al novero dei Pae­si che dovranno far
parte della costituenda Alleanza atlantica, nella quale per la nostra posizione
geografica non abbiamo alcun titolo per partecipare.

Il 3 settembre 1948, a Washington, un funzionario del Diparti­mento di
stato, rimasto ufficialmente anonimo, suggerisce all’in­caricato d’affari
italiano, Mario Di Stefano, in assenza dell’am­basciatore Alberto Tarchiani,
che il governo italiano si unisca ai Paesi che stanno progettando un’alleanza
difensiva nel Nord Atlantico.

È quanto il governo italiano intende fare.

Il 13 ottobre 1948, il ministro
degli Esteri Carlo Sforza scrive al segretario di Stato americano, George
Marshall, per definire una “formula vana” la neutralità e garantirgli
una adesione “sen­za condizioni” dell’Italia alla futura alleanza.

Il 22 ottobre1948, l’ambasciatore americano a Roma, James Cle­ment Dunn,
può segnalare al segretario di Stato, George Marshall, che il presidente del
Consiglio, Alcide De Gasperi, si è impegna­to a condurre l’opinione pubblica
“fuori dalla illusione della neutralità verso la necessità di un
allineamento occidentale”.

In un Paese devastato dalla guerra conclusa solo tre
anni pri­ma, la neutralità appare la sola opzione possibile, la più logi­ca,
quella che consente di fare una politica di equidistanza fra i due blocchi che
consentirebbe, fra l’altro, di avere il vantaggio di poter scegliere quale
posizione assumere sui problemi in­ternazionali contrattando, di volta in
volta, con le due potenze entrambi desiderose di averne il sostegno.

L’opposizione all’adesione dell’Italia ad un’alleanza militare è forte
nel Paese e nell’ambiente politico, anche quello più filo americano come il
socialdemocratico, dove Giuseppe Saragat esprime la sua netta contrarietà ad
una politica che non si ispiri ad una rigida neutralità.

Il 2 dicembre 1948, il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale
Efisio Marras, si reca in visita negli Stati uniti dove vie­ne ricevuto anche
dal presidente Harry Truman.

Il giorno successivo, 3 dicembre 1948, Giulio Andreotti annota nel suo
diario:

“Saragat illustra al Presidente (Alcide De Gasperi – Ndr) la sua
contrarietà ad accordi militari con gli Stati uniti. Il potente sin­dacalista
Antonini è venuto a parlargli per convincerlo in senso opposto ma ha fallito. Vorrebbe una dichiarazione del governo cir­ca il carattere meramente
esplorativo dei colloqui del generale Marras. De Gasperi lo invita alla
riflessione e alla prudenza”.

A favore della neutralità dell’Italia, non c’è solo Giuseppe Sa­ragat ma
anche il futuro presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, e il futuro
segretario generale della Nato, Manlio Brosio. Pro­prio quest’ultimo, all’epoca
ambasciatore a Mosca, annota, il 15 gen­naio 1949, il contenuto di una
conversazione con Gastone Guidotti, direttore generale per gli Affari politici
del ministero degli Esteri:

“È chiaro – gli dice costui – che bisogna essere satelliti del­l’America
o della Russia. È chiaro che l’America non ci armerà se non siamo nel Patto
atlantico’.

Dunque – commenta stizzito Brosio -, secondo lui, per essere più o meno
bene armati, dobbiamo definire e vincolare la nostra indipendenza. Non è la
politica che stabilisce gli armamenti ma sono gli armamenti che determinano la
politica”.

Intanto, anche il Vaticano si schiera a favore dell’ingresso del­l’Italia
nel Patto atlantico.

L’ambasciatore francese presso la Santa Sede, Wladimir D’Ormesson, il 14
gennaio 1949, invia al proprio ministero degli Esteri un rapporto relativo ad
una conversazione avuta con monsignor Gio­vanni Battista Montini che si è
dichiarato convinto che “l’Italia sarebbe entrata nel Patto
atlantico” e che “la Santa Sede consi­derava che non ci fosse altra
via per l’Italia e si augurava vivamente di vederla impegnarvisi”.

Il ministro degli Esteri Carlo Sforza ha premesso che l’Italia non porrà
condizioni per la sua adesione al Patto atlantico, ma non sa nemmeno cosa sarà
questa alleanza che gli Stati uniti stan­no costituendo per il proprio
esclusivo tornaconto.

Lo prova un’annotazione di Giulio Andreotti che, alla data del 26 gennaio
1949, nel suo diario, scrive :

“Il Segretario di Stato Acheson nella sua prima
conferenza stam­pa ha illustrato il progetto per un Patto atlantico. Via via,
attraverso i rapporti del generale Marras e le carte diplomatiche cono­sciamo
il modello che si sta costruendo”.

È un’alleanza nella quale il governo italiano vuole entrare ad ogni costo
senza conoscere le condizioni e gli obblighi che essa potrà comportare,
costituendosi come un caso senza precedenti nel­la storia della diplomazia
mondiale, non solo del XX secolo ma an­che di quelli precedenti.

Il presidente americano, Harry Truman, il 24 febbraio 1949 comu­nica al
segretario di Stato, Dean Acheson, di non avere ancora “al­cuna opinione
definitiva” sull’ingresso dell’Italia nella Nato e di preferire un
“rinvio della decisione”.

Ancora il 28 febbraio 1949, allo stesso Acheson dice che prefe­rirebbe
“non avere l’Italia fra i primi firmatari e forse neanche nel Patto,
ritenendo più opportuno inserirla insieme a Grecia e Turchia in ‘qualche intesa
mediterranea’ “.

Per superare l’opposizione del presidente americano,
su consi­glio del Dipartimento di stato, il 1° marzo 1949 il governo ita­liano
presenta richiesta formale di adesione al Patto atlantico.

Il 2 marzo, di conseguenza, il segretario di Stato, Dean Ache­son,
ripropone a Truman la questione dell’adesione dell’Italia al­la Nato, sostenuta
anche da Canada, Olanda, Belgio, Lussemburgo e Francia, mentre Gran Bretagna,
Norvegia, Islanda e Danimarca comu­nicano di aver ritirato la loro opposizione.

Al presidente americano, Dean Acheson fa presente che l’Italia dispone “della
terza maggiore Marina dell’Europa occidentale… e di una delle principali
flotte mercantili europee, con un surplus di marinai addestrati”, e che
“in termini di guerra marittima non vi è questione circa la potenzialità
strategica, critica rispetto al controllo del Mediterraneo” e che, ancora,
“è di grande impor­tanza negare al nemico di usare l’Italia, come base per
il control­lo      marittimo e aereo del
Mediterraneo centrale”.

Argomentazioni, come si vede, di natura esclusivamente militare che hanno
la capacità di far recedere il presidente Harry Truman dalla sua decisione di
non accettare l’Italia fra i Paesi fondato­ri dell’Alleanza atlantica.

Dopo il consenso di Truman, la situazione si evolve rapidamente. L’8
marzo 1949, John Hickerson consegna all’ambasciatore italiano a Washington,
Alberto Tarchiani, l’invito ufficiale del governo americano a quello italiano
di entrare a far parte del Patto atlan­tico come
membro fondatore.

Lo stesso giorno, a Roma, il Consiglio dei ministri approva la decisione
di accettare l’invito rivolto all’Italia di entrare a far parte della nuova
alleanza, nonostante che il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, abbia
dovuto premettere che “le trat­tative sono ancora nella fase preparatoria.
Nessuno conosce esatta­mente la portata del Patto atlantico. Ignoriamo quali siano
le con­dizioni poste agli altri Paesi, quali a noi. Abbiamo svolto un’azio­ne
solo per evitare di essere tenuti fuori”.

Neanche una prostituta si vende senza conoscere le prestazioni che le
saranno richieste.

L’Italia di Alcide De Gasperi lo fa, calpestando l’indipendenza della
Nazione e la dignità di 50 milioni di inconsapevoli italia­ni che pagheranno a
carissimo prezzo l’adesione dell’Italia alla Nato.

L’11 marzo 1949, Alcide De Gasperi convoca in seduta
straordinaria il Consiglio dei ministri che decide all’unanimità “per l’ac­cessione
in via di massima al Patto atlantico”.

Il 16 marzo 1949, il segretario di Stato americano Dean Acheson trasmette
all’ambasciatore americano a Roma, James Clement Dunn, il testo del Trattato
del Nord Atlantico fino a quel momento sco­nosciuto al presidente del Consiglio,
Alcide De Gasperi, ed ai componenti del governo.

Il 18 marzo 1949, il testo del Trattato viene reso
di pubblico dominio, debitamente depurato da quelle clausole che ancora oggi
sono mantenute segrete.

Lo stesso giorno, la Camera dei deputati approva
l’adesione al Patto atlantico con 342 voti favorevoli, 170 contrari e 19 aste­nuti
.

Il 27 marzo 1949, è il Senato ad approvare
l’adesione dell’Ita­lia alla Nato con 118 voti favorevoli, 112 contrari e 19
astenuti.

Il 4 aprile 1949, a Washington, i rappresentanti di Stati uniti, Canada,
Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Porto­gallo, Italia,
Norvegia, Danimarca e Islanda firmano il Trattato dell’Atlantico del nord che
ha validità ventennale ed è tacitamen­te rinnovabile in caso di mancato
recesso.

Non ci volevano: il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, ed il
suo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, hanno brigato, im­plorato, supplicato,
utilizzato anche le amicizie massoniche del ministro, fino ad ottenere l’assenso
per entrare nel Patto dell’Atlantico settentrionale.

Il 5 aprile 1950, a Washington, nelle pagine del suo diario, Egidio
Ortona annota:

“Telegramma di Sforza ad Acheson per l’anniversario del Patto
atlantico. Patto – dice Sforza – ‘che noi creammo’. Non possiamo non farci
qualche buona risata con l’ambasciatore se pensiamo al­la fatica improba che ci
è costata entrare, accettati alquanto a malincuore come buoni ultimi, nel Patto
atlantico.

Ma la faccia di Sforza – prosegue Ortona – è più che tosta e può
permettergli di atteggiarsi a creatore di un qualcosa in cui siamo riusciti a
penetrare solo dopo sforzi inenarrabili”.

Se la paura aveva indotto il governo diretto da Alcide De Gasperi a
ritardare la partenza delle truppe americane dall’Italia, ed ora ad umiliare la
Nazione rendendola partecipe ad un’alleanza militare ricercata a tutti i costi,
senza porre condizioni e sen­za conoscerle, aveva mantenuto però il punto fermo
di non concedere basi militari agli americani.

Ma, il 7 gennaio 1952, mentre a capo del governo è lo stesso Al­cide De
Gasperi, iniziano le trattative per l’installazione di basi militari
americane sul territorio nazionale.

Il 7 ottobre 1953, in un documento americano riferito all’apertura di
basi militari in Italia, è scritto:

“Taviani preferirebbe evitare qualsiasi riferimento ad appendici o addendum
nel testo dell’accordo-ombrello poiché pensa che quest’ul­timo finirà in
qualche modo col circolare in Parlamento. Se ci fosse­ro riferimenti o
documenti aggiuntivi, i parlamentari vorrebbero si­curamente vederli”.

Come già per le armi acquistate in totale segretezza
nel dicembre del 1947, come per l’adesione alla Nato cercata senza condizioni
all’insaputa della pubblica opinione e dello stesso Parlamento, anche per
1’installazione delle basi militari americane in Italia si pro­cede con il
medesimo metodo della segretezza assoluta.

La conferma giunge, puntuale, il 27 febbraio 1954, quando il fun­zionario
dell’ambasciata americana, Elbridge Durbrow, riporta in un rapporto il
contenuto di una conversazione avuta con il ministro della Difesa, Paolo Emilio
Taviani:

“Quando ho posto la questione dell’accordo
sullo stato delle for­ze, il ministro Taviani si è dimostrato sorpreso e ha
risposto che l’Italia ha già firmato quell’accordo. Gli ho allora fatto notare
che nonostante sia stato firmato, l’accordo non è stato ratificato dal
Parlamento. Il ministro ha sostenuto che a suo parere non è es­senziale che lo
sia.

Ha fatto notare che abbiamo già un numero considerevole di trup­pe
americane stanziate in Italia e che la mancata ratifica non ha creato
difficoltà di sorta. Ha poi aggiunto che, visto l’attuale schieramento politico
in Parlamento, adesso la ratifica sarebbe a suo parere difficile da
ottenere”.

Durbrow rileva, ancora, che Taviani “ha nuovamente sottolineato il
fatto che se si optasse per un accordo-ombrello e 1’opposizio­ne in Parlamento
venisse a sapere una qualche sua parte, il governo si troverebbe costretto a
rivelare il fatto che molte basi e strutture di vario tipo sono state accordate
dal governo alle for­ze Usa”.

E, infine, che “se invece l’accordo fosse
diviso in sei o sette lettere segrete, il governo potrebbe limitarsi a
divulgare il te­sto solo di quelle parti di cui l’opposizione viene a
sapere”.

Il 9 aprile 1954, il presidente del Consiglio Mario Scelba con­cede il
definitivo ed ufficiale benestare per l’installazione del­le basi militari
americane in Italia.

Paura e disprezzo per quelle regole della democrazia di cui si proclamano
alfieri, sono alla base di quanto riferisce il diplo­matico americano Durbrow
in merito alla questione del comando e del controllo delle forze militari
americane di stanza in Italia, al Dipartimento di stato:

“Il ministro Taviani ritiene che – nel caso il testo di questo
documento venga pubblicato (e lui spera che non lo sia) – il lin­guaggio debba
essere tale da non far pensare che l’Italia abbia in alcun modo rinunciato alla
propria sovranità territoriale. Ha sottolineato che si tratta di una questione
puramente formale e non di sostanza”.

Con perfidia democristiana,
Taviani annota l’8 agosto 1954 nel suo diario i nomi dei suoi complici in
un’operazione che fa dell’Ita­lia una colonia, a tutti gli effetti, degli Stati
uniti: Mario Scelba, Gaetano Martino, Amintore Fanfani, Ugo La Malfa, e gli ex
neutrali­sti Giuseppe Saragat e Giovanni Gronchi.

L’arrendevolezza dei democristiani dinanzi ad ogni richiesta avanzata
dagli Stati uniti, la loro ricerca costante della rassi­curazione sulla
disponibilità americana ad intervenire militarmen­te in Italia contro i
comunisti in caso se ne presenti la necessi­tà segni inequivocabili di una
paura a stento dominata contrasta però con il rifiuto caparbio degli stessi
esponenti democristiani di assumere contro il Partito comunista quel
provvedimento di mes­sa fuori legge che risolverebbe una volta per sempre il
problema, facendo dei comunisti una mera questione di polizia politica.

Gli Stati uniti non riusciranno mai a comprendere questa contraddizione.

Già il 15 marzo 1948, la messa fuori legge del Pci l’aveva suggerita il
direttore del Policy Planning Staff, George Kennan, al se­gretario di Stato,
George Marshall, ma all’epoca l’apparato milita­re del Partito comunista nel
nord Italia faceva prevedere una resi­stenza armata tale da degenerare in un
nuova guerra civile di in­certa durata e con alte perdite.

Il 18 giugno 1951, a Washington, la Division of
research of western european affairs (Drw), in un suo documento, afferma che in
Italia “la soppressione del partito comunista se applicata con efficacia,
eliminerebbe i comunisti come seria forza della politica italiana. Esperienze
in altre realtà hanno evidenziato che azioni repressive di questo tipo
funzionano bene. Il problema è la capacità dello Stato di liquidare
un’organizzazione politica numerosa, e ben organizzata come quella comunista
senza diventare esso stesso un semplice Stato di polizia”.

La proposta non avrà seguito.

Nella primavera del 1954, Josip
Stalin è morto da un anno, i nuovi dirigenti sovietici hanno avviato la fase
della “distensione” in­ternazionale ed il Pci può ormai contare su un
apparato informati­vo e spionistico, poliziesco ma non militare, così che la possibi­lità
di agire esiste con la certezza di dover fronteggiare magari violente
manifestazioni di massa, non mai una guerra civile.

Lo scioglimento per legge del Pci lo suggerisce il questore Ge­sualdo
Barletta ad un agente americano del G-2, nel mese di marzo del 1954, affermando che è possibile
arrestare il segretario nazio­nale del Pci, Palmiro Togliatti, e gli alti
dirigenti del partito applicando la legge sui “reati contro lo Stato”
e che, poi, si po­tevano usare le isole Tremiti e Ponza come luoghi di confino.

Barletta garantisce l’intervento delle forze di polizia ma si dice
dubbioso circa il consenso del presidente del Consiglio, Ma­rio Scelba.

Quest’ultimo, da parte sua, nei suoi colloqui con i diplomatici
americani, non esclude la possibilità di agire legalmente contro il Pci ma per
farlo attende un pretesto valido.

Il 13 aprile 1954, difatti, nel corso di una
riunione del Natio­nal security council, Walter Bedell Smith riporta una
dichiarazio­ne del presidente del Consiglio italiano secondo il quale la rati­fica
del trattato che istituisce la Comunità europea di difesa (Ced) provocherà la
violenta reazione del Pci che, in questo modo, consentirà al governo di
metterlo fuori legge.

Ma è un bluff.

Il 24 gennaio 1955 , il direttore
del Sifar, generale Ettore Musco, consegna al ministro della Difesa, Paolo
Emilio Taviani, la
docu­mentazione dettagliata di un
finanziamento sovietico al Pci, giunto via Zurigo, dell’importo di due miliardi
di lire.

Due giorni più tardi, il 26 gennaio, sull’argomento si svolge una
riunione alla quale prendono parte il presidente del Consi­glio, Mario Scelba,
il ministro degli Esteri, Gaetano Martino, e quello della Difesa, Paolo Emilio
Taviani, il quale nel suo diario annota :

“Riunione a tre al Viminale. Scelba ha preso nota dei nomi ita­liani
di secondaria importanza. Abbiamo sempre detto che il Pci è pagato da Mosca. Ma
dare pubblicità alle carte di quel finanziamen­to comporterebbe necessariamente
mettere al bando il Pci. Dunque la guerra civile”.

Sì decide, pertanto, di mantenere segreta la notizia
per evita­re la reazione del Pci che si pretende affermare che sarà in ogni
caso violenta.

La paura, quindi, si ripropone come il sentimento che domina i politici
democristiani.

Lo prova anche la comunicazione che, a Washington, il 30 ottobre 1954, il
segretario di Stato, John Foster Dulles, trasmette al presidente Dwight
Eisenhower, relativa alla disponibilità del presidente del Consiglio italiano,
Mario Scelba, a rafforzare il con­trasto con il Pci, pretendendo però
l’assicurazione che le Forze armate americane interverranno in Italia per
reprimere 1’insurrezione comuniste che le misure da adottare, a suo avviso,
provo­cheranno.

Eisenhower darà il suo benestare applicando “la
dottrina della protezione e salvaguardia della proprietà, vita e
sicurezza” dei militari americani presenti sul territorio italiano.

Il 23 marzo 1955, a Washington, Arthur Redford, addetto al Joint Chief of
Staff, stila un memorandum relativo al contenuto del colloquio, avvenuto nel
mese di gennaio, fra 1’ammiraglio Carney e il presidente del Consiglio italiano,
Mario Scelba:

“Il governo italiano ci chiede di aiutarlo a ridurre la forza del Pci
attraverso alcune nuove misure. Il signor Scelba ci ha an­ticipato – scrive
Redford – che il Pci potrebbe reagire violentemente contro alcune di queste
misure e potrebbe anche scatenarsi una guerra civile.

Prima di introdurre le misure più drastiche, il primo ministro desidera
assicurarsi l’appoggio degli Stati uniti incluso l’aiuto militare per evitare
una reazione comunista”.

Gli americani credono alla sincerità delle
intenzioni di Scelba. E Redford conclude:

“Obiettivo della politica americana è la
liberazione dell’Ita­lia dalla minaccia di una sovversione o dominazione
comunista. Ciò significa che gli Stati uniti devono sostenere con tutti i mezzi
la riduzione della forza della Pci e dei gruppi che gli sono vicini. In
particolare nell’eventualità di un’insurrezione o di altre azioni illegali che
minaccino il legittimo governo italiano, gli Stati uniti devono rispondere con
l’uso della forza militare”.

Il 16 marzo 1955, gli accordi di Jalta fra le potenze anglo-sassoni e
1’Unione sovietica erano stati resi di pubblico dominio, quindi tutti ormai
erano consapevoli che la liquidazione politica del Partito comunista italiano
non avrebbe provocato altro che proteste verbali da parte dei regimi comunisti
europei, ma questo non bastava a placare le paure dei democristiani al potere.

    La polizia prova a saggiare la
disponibilità della Democrazia cristiana e dei suoi alleati anticomunisti ad
intraprendere una azione legale contro gli esponenti del Pci, seguendo le riservate
direttive del questore Gesualdo Barletta.

Il 15 dicembre 1954, difatti, denuncia il deputato comunista Edoardo
D’Onofrio per “attività antinazionali all’estero”, reato previsto
dall’art. 269 del codice penale, in relazione ad un suo discorso al congresso
del Partito comunista cecoslovacco, ma le speranze poliziesche s’infrangono
contro la decisione della Camera dei deputati che nega l’autorizzazione a procedere.

Sul sentimento di paura che anima i democristiani ed i loro alleati
concorda anche l’ambasciatore italiano a Washington, Manlio Brosio, che nel suo
diario, a commento di un discorso del mini­stro degli Esteri Gaetano Martino,
scrive:

“Drammatizza un po’ troppo le conseguenze di una messa fuori legge del
Partito comunista: secondo lui ne deriverebbe addirittura la guerra mondiale,
secondo me non capiterebbe niente. È la paura”.

La “distensione internazionale” è un paravento dietro il quale
gli Stati uniti e l’Unione sovietica alimentano la guerra fredda che, con
l’accrescersi  della potenza militare di
quest’ultima, di­viene necessariamente sempre più aspra, tanto da indurre
alcuni esponenti democristiani, per la prima volta dal 1945 in modo serio, ad ipotizzare la
possibilità di un “colpo di Stato” legale, ovvero della proclamazione
dello “stato di emergenza”.

La prima segnalazione giunge dal giornalista Vittorio Gorresio che, il 20
giugno 1960, prima che inizino le sanguinose giornate dei tumulti comunisti
contro il governo, prendendo a pretesto la scelta della città di Genova come
sede del congresso nazionale del Msi, scrive che il presidente del Consiglio,
Ferdinando Tambroni, sta progettando un “colpo di Stato” di cui
fornisce anche il nome in codice, “Operazione Ippocampo”.

Non è una mera fantasia giornalistica, se il 13
luglio 1960, a Washington, un documento americano segnala la possibilità che in
Italia si giunga ad una soluzione “autoritaria di destra”.

Possibilità, quest’ultima, confermata da un’annotazione dell’am­basciatore
italiano a Washington, Manlio Brosio, che nel suo diario, fra il 20 ed il 26
luglio 1960, commentando la defenestrazione di Ferdinando Tambroni, scrive:

“Bacchetti e Conti mi dicono che si è voluto soprattutto impedi­re
il consolidarsi del crescente potere di Tambroni. Si temeva un colpo di Stato
fra Gronchi e Tambroni: già Tambroni aveva portato alla firma di Gronchi il
provvedimento che dichiarava lo stato di emergenza”.

Ma qualcuno all’interno della stessa Democrazia
cristiana blocca la manovra ritenendo che il distacco del Partito socialista,
ormai in atto, porterà all’indebolimento del Partito comunista senza fa­re dell’Italia
uno Stato di polizia.

Quattro anni più tardi, però, dinanzi al fallimento del centro- sinistra,
i democristiani, questa volta compatti, faranno “tintinna­re le
sciabole” dei generali per indurre il Partito socialista a più miti
consigli, senza ovviamente tradurre in atto la loro mi­naccia.

La leggenda del “colpo di Stato” del luglio 1964, attribuito al
comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo, viene creata
ad arte dagli stessi circoli politico-militari che con essa liquidano un
ufficiale che si opponeva alla trasformazione del­la “guerra non
ortodossa” in “guerra a bassa intensità”.

Ne riparleremo.

Ancora, fra l’estate e l’inverno
del 1969, una parte dello schiera­mento politico anticomunista, questa volta
guidato dai socialdemo­cratici di Giuseppe Saragat, tenta in modo spregiudicato
di creare i presupposti per una “soluzione autoritaria”, ma anche in questa
occasione saranno gli esponenti di maggior rilievo della Democra­zia cristiana
a bloccare l’operazione determinandone il fallimen­to.

Da quel momento in poi, la Democrazia cristiana farà quadrato per non
perdere il controllo politico, gestendo in maniera cini­ca il malumore delle
gerarchie militari e degli ambienti finanziari ed industriali senza mai
ipotizzare la possibilità concreta di ricorrere alla forza per mantenersi al
potere.

Solo un ritorno al passato da parte del Partito socialista, con una
rinnovata edizione del “Fronte popolare” in grado di modifica­re la
maggioranza, elettorale, avrebbe potuto indurre Aldo Moro ed i suoi colleghi ad
agire sul piano della forza, ma questo non è avvenuto anche
perché l’abile regia della “strategia della tensio­ne” lo ha
impedito.

L’inettitudine dell’anticomunismo italiano, in
particolare del partito democristiano che lo ha guidato fin dal 1945, è dato dal numero dei voti
affluiti sulle liste del Partito comunista italiano nel dopoguerra dalle
elezioni referendarie fino a quelle poli­tiche del 1976:

2    
giugno 1946 – 4.356.686 voti;

18
aprile 1948 – 8.137.047 voti, nelle liste del “Fronte popolare”;

7 giugno 1953 – 6.121.551 voti;

25 maggio 1958 – 6.704.706 voti;

28 
aprile 1963 – 7.768.228 voti;

18 maggio 1968 – 8.551.347 voti;

7    
maggio 1972 – 9.072.454 voti;

18 giugno 1976 – 12.614.650 voti.

In trent’anni di dominio democristiano, il Partito comunista ha
triplicato i suoi voti giungendo, con le sue sole forse, nel giugno del 1976,
ad un passo dall ‘ ottenere la maggioranza dei voti.

Il fallimento di un’intera classe
politica si può sintetizzare in tre parole: inettitudine, paura ed interesse.

L’inettitudine è provata dai numeri di voti affluiti al Pci nel corso
degli anni con un aumento progressivo che non ha conosciuto soste nemmeno dopo
la sanguinosa repressione della rivolta unghere­se dell’autunno 1956.

La paura, 1’abbiamo evidenziata nelle pagine precedenti e non riteniamo
utile e necessario aggiungere altro.

Sull’interesse, concordiamo pienamente con quanto
scriveva a suo tempo 1’ambasciatrice americana a Roma, Clara Booth Luce.

In una lettera indirizzata al marito, Henry, il 31 ottobre 1954, la Luce
esprimeva il suo giudizio su quello che considerava il doppiogiochismo democristiano
nei confronti del Pci, la cui presenza in Italia era, a suo avviso, strumentale
all’ottenimento di aiuti finanziari da parte degli americani:

“L’anticomunismo in Italia – scriveva – è un affare assai van­taggioso
– perché procura miliardi di dollari a condizioni di mantenere nel gioco i
comunisti”.

E prosegue:

“Sii anticomunista e gli Stati uniti ti aiuteranno, ma non essere
così anticomunista da liberarti del problema perché a quel punto non ci sarà
più ragione per continuare gli aiuti. Fintanto che non renderanno impossibile
per loro non liquidare il partito (comuni­sta – Ndr) continueranno a tenerselo
come fonte indiretta di dol­lari americani. Dobbiamo cambiare questo stato di
cose”.

Il 1° giugno 1955, l’adirata ambasciatrice americana
scriveva a Cabot Lodge:

“Negli ultimi mesi ho maturato la profonda convinzione che la no­stra
politica di aiuti clandestini ai partiti politici italiani è destinata al
fallimento, per ragioni sia politiche che morali…Dopo cinque anni e mezzo miliardo di dollari di
aiuti ufficia­li, e ingenti quantitativi di aiuti clandestini, i leader di ‘que­sti
partiti’ ci dicono oggi, esattamente come ci dicevano nel ’48, che l’unica alternativa ad una
vittoria comunista alle urne è rap­presentata dal nostro finanziamento a loro
ed ai partiti…Anni di aiuto clandestino ai partiti governativi non hanno
prodotto né una prolungata azione anticomunista né la formazione di un ‘governo
sta­bile’. Essi non sono neppure in vistaIl peggiore aspetto della politica
degli aiuti clandestini è che essi indeboliscono la virtù, principale che noi
vogliamo vede­re in un governo italiano, ossia un vigoroso comportamento antico­munista…un
forte governo anticomunista è impossibile in una si­tuazione in cui il
mantenimento della minaccia comunista è l’unica cosa a disposizione dei
politici per ottenere ampie somme di dena­ro di cui essi non sono tenuti a
rendere conto in pubblico”.

Il disprezzo, legittimo ed ampiamente giustificato,
di Clara Booth Luce nei confronti dei politici anticomunisti italiani
aumenterà, negli Stati uniti, nel corso dei decenni successivi e troverà in­fime
la sua vendetta nell’inchiesta definita “Mani pulite”.

Crollato l’impero sovietico, muovendo le giuste pedine e le im­mancabili
marionette italiane al loro servizio, gli americani si liberano nel 1992 dei
predatori famelici che dell’anticomunismo hanno fatto anche un mezzo per
arricchirsi illecitamente sul pia­no non solo partitico ma anche personale.

L’anticomunismo italiano, democristiano in particolare, sprofon­da nel
fango dell’ignominia, del ladrocinio, delle truffe, delle tangenti, delle
collusioni con le organizzazioni mafiose, ma de­vono ancora rispondere del
sangue che hanno versato, delle miglia­ia di vite spezzate, rovinate, distrutte
per mantenere un potere per il potere, contro gli interessi dell’Italia e degli
italiani.
Le basi Usa oggi in Italia

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