Scopo e significato dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”

Scopo e significato dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”

I FALSIFALSI PROTOCOLLI
SCOPO E SIGNIFICATO DEIPROTOCOLLI DEI SAVI ANZIANI DI SION

di Carlo Mattogno, 2010

Da quando, nell’agosto 1920, il Times di Londra svelò che i “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” sono tratti in buona misura dalla satira politica di Maurice Joly Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu ou la politique de Machiavel au XIXe siècle[1], essi si trasformarono da “prova” di una “cospirazione” mondiale ebraica, come fu interpretato negli ambienti antisemiti (ma è più corretto dire antigiudaici), a “prova” del “falso antisemita”, interpretazione che è tuttora in auge in quelli filosemiti.
Un’attenta lettura del testo, al di fuori di condizionamenti ideologici e di pregiudizi culturali, mirante ad individuare nei “Protocolli” ciò che realmente c’è, non conferma tuttavia né l’una né l’altra interpretazione.

1) CRITICA DEL LIBERALISMO
I “Protocolli” costituiscono essenzialmente una filosofia politica e una filosofia della storia: essi sono da un lato una requisitoria contro il liberalismo e un’apologia dell’autocrazia, dall’altro la spiegazione della causa che (per l’autore dello scritto) ha prodotto la rovina della forma di governo autocratica e la nascita di quella repubblicana.
Prima di analizzare questi aspetti dei “Protocolli”, è opportuno formulare schematicamente le chiavi di interpretazione di questo saggio.
Dal punto di vista dell’azione politica, “noi”, cioè i “Savi di Sion”, rappresentano i liberali e tutti i nemici della monarchia assoluta (capitalisti, socialisti, massoni ecc.).
I “Gentili”, i “Cristiani” simboleggiano le monarchie assolute di diritto divino e i loro popoli come oggetto dell’azione disgregatrice liberale. In tale prospettiva “noi abbiamo fatto” significa “i liberali hanno fatto”; “noi faremo” significa “i liberali faranno o hanno intenzione di fare”.
Dal punto di vista dottrinario, “noi” esprime i princìpi del liberalismo e “noi abbiamo fatto” e “noi faremo” si riferiscono alle conseguenze presenti e future di tali princìpi.
Di tanto in tanto però la prospettiva si inverte: laddove i “Savi di Sion” esprimono il loro veemente biasimo per il popolo traviato dal liberalismo e gli oppongono le proprie virtù, essi rappresentano gli aristocrati fautori della monarchia assoluta. Ciò, naturalmente, vale soprattutto per la serie di passi in cui i “Savi di Sion” espongono una stucchevole apologia dello zarismo russo.

Mettendo ordine nella grande confusione di temi che vi regna, si possono individuare nei “Protocolli”, per quanto riguarda la dottrina antiliberale e antimodernista, tre direttive di confutazione:
1) una critica generale e specifica dei princìpi e delle istituzioni del liberalismo;
2) una esposizione degli effetti deleteri – in campo politico, economico, culturale, sociale e morale – dei suddetti princìpi;
3) una critica della forma di governo repubblicana nella sua concreta attualizzazione.
Esaminiamo il primo punto.
Anzitutto i princìpi e le teorie liberali hanno una «falsità assoluta» (IX, p. 87[2]), sono dei «princìpi brutali» (XXIII, p. 174); il liberalismo è un «veleno» e una «malattia mortale» (X, p. 92), che non dà «il regno della ragione» (III, p. 62). Infatti «il concetto della libertà non è realizzabile, perché nessuno sa adoperarla con discrezione» (I, p. 42). Essa implica delle «contraddizioni» (III, p. 63) ed è «il simbolo della forza bestiale che trasforma le popolazioni in belve assetate di sangue» (III, p. 64).
L’eguaglianza «non esiste nella natura, la quale crea calibri diversi e disuguali di mente, carattere, capacità» (I, p. 50), perciò «la vera eguaglianza non può esistere, data la natura diversa delle varie qualità di lavoro» (III, p. 60).
Le «parole d’ordine» di «libertà, uguaglianza, fratellanza» sono «astratte» e non solo non si accordano, ma si contraddicono addirittura (I, p. 49).
L’idea del progresso nasconde «una deviazione dalla verità, eccezione fatta dei casi in cui la parola libertà si riferisce alla materia delle scoperte scientifiche. Giacché esiste soltanto una vera dottrina ed in essa non vi è posto per il “progresso”: Il progresso, come qualunque altro falso concetto, serve a nascondere la verità» (XIII, p. 116).
La libertà di religione e l’eguaglianza sono «princìpi perniciosi» (XXII, p. 171). Inoltre «non vi è nulla di più dannoso dell’iniziativa individuale» (V, p. 73) e il suffragio universale fa ottenere «la maggioranza assoluta», la quale «non si potrebbe ottenere dalle classi educate o da una società divisa in caste» (X, p. 90).
Passiamo al secondo punto.
«Il liberalismo fece nascere i governi costituzionali» (X, p. 93), minando il fondamento della sovranità delle monarchie assolute: «Il significato astratto della parola libertà rese possibile di convincere le turbe che il Governo non è altro che un gerente rappresentante il possessore – vale a dire la nazione –; e pertanto può essere messo da parte come un paio di guanti usati» (I, p. 52). Infatti i diritti liberali indussero le popolazioni che li propugnarono «a considerare i Re come semplici mortali» (V, p. 69).
Dal punto di vista politico, il liberalismo indebolisce partiti, Stati e monarchi: è più facile eliminare un partito avversario «se questo rivale diventa infetto da idee di “libertà” – dal cosiddetto liberalismo – e se per questo ideale cede una parte del suo potere» (I, p. 42), ed è più facile impadronirsi dello Stato nel quale si propaghi tale «infezione»: allora «il nuovo Governo non fa che sostituire il vecchio, indebolito dal suo liberalismo» (I, p. 42). Le «tendenze liberali verso l’indipendenza» non sono altro che il «cattivo uso» che gli amanti del potere fanno dei loro diritti (III, p. 57).
In campo politico-costituzionale, «le leggi e la personalità del regnante sono rese inefficaci dal continuo liberalismo invadente» (I, p. 45) e le «idee liberali» minano il prestigio delle leggi (XV, p. 127).
In campo sociale, il liberalismo ha «distrutto il funzionamento dell’esistenza naturale» (I, p. 45); le idee del diritto e della libertà «hanno distrutto tutte le organizzazioni sociali», svolgendo «un’azione nefasta» (XXIII, p. 175).
Per quanto riguarda il popolo, i princìpi liberali hanno creato cattivi sudditi: «Quando la massa del popolo ha delle idee politiche sbagliate, si volge a concezioni utopistiche con il risultato di diventare un insieme di pessimi sudditi» (XVI, pp. 135-136).
Le costituzioni degli Stati liberali contengono «molti diritti che per le masse sono puramente fittizi. Tutti i cosiddetti “diritti del popolo” possono esistere solo in teorie le quali non sono praticamente attuabili». Un «operaio del proletariato, curvato dalle sue dure fatiche e oppresso dal destino», non riceve nessun vantaggio «dal fatto che un cialtrone ottiene il diritto di parlare, od un giornalista quello di stampare qualsiasi sciocchezza». La costituzione non giova a nulla al proletariato, mentre «i diritti repubblicani sono un’ironia per il povero, perché la dura necessità del lavoro quotidiano gli impedisce di ricavare qualsiasi beneficio da diritti di tal genere e non fa che togliergli la garanzia di uno stipendio fisso e continuo rendendolo schiavo degli scioperi, di chi gli dà lavoro e dei suoi compagni» (III, p. 58).
Infine il liberalismo ha dato al popolo diritti fittizi: «Quando la plebe si avvide che in nome della libertà le venivano concessi diritti di ogni genere, si immaginò di essere la padrona e tentò di assumere il potere. Naturalmente si imbatté, come un cieco qualsiasi, in ostacoli innumerevoli» (III, p. 62).
La libertà conduce ad una guerra ad oltranza contro ogni ordinamento: «La parola “libertà” porta la società a lottare contro tutte le potenze, persino contro le potenze della Natura di Dio» (III, p. 64). Essa tollera inoltre il consumo illimitato delle bevande alcoliche (I, p. 47).
Le «parole d’ordine» di «libertà, uguaglianza, fratellanza», poi, «tolsero al mondo la prosperità ed all’individuo la vera libertà personale» (I, p. 49). Esse corrosero «come altrettanti vermi, il benessere dei Cristiani [= delle monarchie assolute]» e distrussero «la loro pace, la loro costanza, la loro unione, rovinando così le fondamenta degli Stati» (I, p. 51).
Il progresso, infine, «conduce direttamente all’utopia, da cui nacquero l’anarchia e l’odio verso l’autorità» (XII, pp. 106-107).
Veniamo ora al terzo punto.
I «princìpi brutali» del liberalismo costituiscono una legalizzazione dei furti e della violenza: «Al momento attuale questi concetti prevalgono con grande successo, e le conseguenze sono i furti e la violenza compiuti sotto lo stendardo del diritto e della libertà» (XXIII, pp. 174-175). E infatti i liberali sono in realtà degli anarchici: «Tutti i cosiddetti liberali sono in realtà degli anarchici, se non per le loro azioni, certamente per le loro idee» (XII, p. 106).
Il regime costituzionale «non è altro che una scuola di dissensioni, disaccordi, contese e inutili agitazioni di partito: in breve, essa è la scuola di tutto ciò che indebolisce l’efficienza del governo» (X, p. 93).
Lo stato repubblicano nasce dalla violenza e di essa si alimenta: «Ogni Repubblica attraversa varie fasi. La prima fase è rappresentata dai primi giorni di furia cieca, quando le turbe annientano e distruggono a destra e a sinistra. La seconda è il regno del demagogo, che promuove l’anarchia ed impone il potere assoluto. Questo dispotismo non è ufficialmente legale ed è, pertanto, irresponsabile: esso è nascosto ed invisibile, ma nel medesimo tempo si fa sentire. Esso è generalmente controllato da una organizzazione segreta la quale agisce dietro le spalle di qualche agente ed è conseguentemente tanto più audace e senza scrupoli. A questa forza segreta non importerà di mutare gli agenti che la mascherano. Questi mutamenti aiuteranno persino l’organizzazione, la quale con questo mezzo si sbarazzerà dei suoi vecchi servitori, ai quali avrebbe dovuto dare un forte premio, data la durata del loro servizio» (IV, p. 65).
Oltre che di una organizzazione segreta, i regimi liberali sono anche schiavi dell’oro: «Oggi giorno la potenza dell’oro ha sopraffatto i regimi liberali» (I, p. 42).
I presidenti delle repubbliche parlamentari sono «una caricatura» del sovrano autocratico (X, p. 93), mentre i «Presidenti dei Consigli dei Ministri» sono dei «dittatori» che commettono impunemente «abusi per il più piccolo dei quali» i popoli liberali «avrebbero ucciso cento re» (III, p. 63).
I governi liberali sono «arene dove si combattono le guerre di partito». Le istituzioni parlamentari sono in preda all’anarchia: «Chiacchieroni irrefrenabili trasformano le assemblee parlamentari ed amministrative in riunioni di controversia. Giornalisti audaci, e sfacciati scrittori di opuscoli, attaccano continuamente i poteri amministrativi. L’abuso del potere preparerà definitivamente il crollo di tutte le istituzioni e tutto cadrà sotto i colpi della popolazione inferocita» (III, p. 57).
I funzionari repubblicani sono delle semplici marionette intercambiabili, mentre «la tribuna, come pure la stampa, hanno contribuito a rendere i governi deboli ed inattivi, rendendoli in tal modo inutili e superflui; ed è per questo motivo che in molti paesi vennero destituiti» (X, p. 93).
Le università sfornano «giovani inesperti, imbevuti di idee circa nuove forme costituzionali, come se queste fossero commedie o tragedie; oppure dediti ad occuparsi di questioni politiche che neppure i loro padri comprendevano» (XV, p. 135).
I giudici «sono indulgenti verso tutti i delinquenti, perché non hanno il giusto concetto del loro dovere, ed anche per il semplice fatto, che i governanti, quando nominano i giudici, non imprimono in essi il concetto del dovere, come sarebbe necessario» (XV, pp. 130-131). Gli avvocati sono crudeli e immorali: «La professione di giureconsulto rende coloro che la esercitano freddi, crudeli e ostinati, li priva di tutti i princìpi e li obbliga a formarsi un concetto della vita che non è umano, ma puramente legale. Si abituano anche a vedere le circostanze soltanto dal punto di vista di quanto si può guadagnare facendo una difesa, senza badare alle conseguenze che essa può avere sul benessere pubblico. Un avvocato non rifiuta mai di difendere una causa. Egli farà di tutto per ottenere l’assoluzione a qualunque costo, attaccandosi ai più meschini cavilli della giurisprudenza, e con questi mezzi egli demoralizza il tribunale» (XVII, p. 140).
Il popolo, nei regimi liberali, è schiavo come mai lo è stato nei regimi autocratici: «Il popolo è assoggettato nella miseria dal sudore della sua fronte in un modo assai più formidabile che non dalle leggi della schiavitù. Da quest’ultima i popoli poterono affrancarsi in un modo o in un altro, mentre nulla li potrà liberare dalla tirannide della completa indigenza» (III, p. 57).
«Oggi giorno il popolo, avendo distrutto i privilegi dell’aristocrazia, è caduto sotto il giogo di furbi sfruttatori e di gente venuta dal nulla» (III, p. 58).
I «popoli Cristiani», cioè i popoli infettati dal liberalismo, «nella loro immensa bassezza» si presternano davanti alla forza, sono senza pietà per i deboli, crudeli per le colpe e indulgenti per i delitti, e infine «sono pazienti fino al martirio nel sopportare la violenza di una tirannide audace» (III, p. 63). Le masse sono illogiche, perché i «despoti» (= i liberali) «persuadono il popolo, per mezzo dei loro agenti, che l’abuso del potere con evidente danno allo Stato è compiuto per uno scopo elevato, vale a dire per ottenere la prosperità della popolazione e per l’amore della fratellanza internazionale, dell’unione e dell’uguaglianza». La popolazione, in regime repubblicano, condanna gli innocenti e assolve i colpevoli (III, p. 63). La massa ha un carattere distruttore e anarchico: «La plebe, data questa sua condizione mentale, distrugge tutto ciò che è stabile e crea lo scompiglio ovunque» (III, pp. 63-64).
In conclusione, le società liberali sono in sfacelo: «Che genere di governo si può dare ad una società nella quale il subornamento e la corruzione sono penetrate ovunque; dove le ricchezze si possono ottenere solamente di sorpresa e con mezzi fraudolenti; dove il dissenso prevale in tutto, e la moralità si mantiene unicamente per mezzo del castigo e di leggi severe, e non in conseguenza di princìpi volontariamente accettati; dove il sentimento patriottico e religioso affoga nelle convinzioni cosmopolitiche?» (V, p. 68).

2) APOLOGIA DELL’AUTOCRAZIA
L’apologia dell’autocrazia si svolge mediante una puntuale contrapposizione dei princìpi e degli effetti della monarchia assoluta a quelli del regime liberale.
I diritti liberali indussero i popoli a considerare i re come semplici mortali, ma «allorquando i popoli consideravano i loro sovrani come l’espressione della volontà di Dio, si sottomettevano tranquillamente al dispotismo dei loro monarchi» (V, p. 69).
L’autocrazia è il fondamento della civiltà: «Senza il dispotismo assoluto la civiltà non può esistere, perché la civiltà può essere promossa solamente sotto la protezione del regnante, chiunque egli sia, e non dalla massa» (I, p. 47). Essa è dunque «l’unica forma sana di governo» (X, p. 93). Solo l’autocrate è un vero politico: «Solamente chi è stato educato alla sovranità autocratica può leggere le parole formate con l’alfabeto politico» (I, p. 46).
«Soltanto un autocrate può concepire piani più vasti, assegnando la sua parte a ciascun ente del meccanismo della macchina statale» (I, p. 47).
Al regime parlamentare viene contrapposto il regime dinastico: «Il padre soleva istruire il figlio nel significato e nello svolgimento delle evoluzioni politiche, in maniera tale che nessuno, fuorché i membri della dinastia, potesse averne conoscenza e che pertanto nessuno potesse svelarne i segreti al popolo governato. Col tempo il significato dei veri insegnamenti politici, i quali erano trasmessi nelle dinastie da una generazione all’altra, andò perduto», e ciò contribuì al trionfo del liberalismo (I, p. 50).
L’aristocrazia era «l’unica difesa che le Nazioni ed i paesi» (monarchici) possedevano contro i princìpi liberali (I, p. 51). Essa difendeva il popolo, sicché «oggi giorno il popolo, avendo distrutto i privilegi dell’aristocrazia, è caduto sotto il giogo di furbi sfruttatori e di gente venuta dal nulla» (III, p. 58). Essa difendeva anche le classi operaie e salvaguardava la libertà personale: « L’aristocrazia, la quale – per diritto – spartiva il guadagno delle classi operaie, si interessava perché queste classi fossero ben nutrite, sane e robuste» (III, p. 59). Ma i liberali fautori dei princìpi della rivoluzione francese «tolsero al mondo la prosperità ed all’individuo la vera libertà personale, che prima era stata così bene salvaguardata»(I, p. 49).
Non manca l’apologia delle caste: «la sola vera e più importante di tutte le scienze» è quella «della vita dell’uomo e delle condizioni sociali, le quali richiedono entrambe la spartizione del lavoro e conseguentemente la classificazione degli individui in caste e classi. È assolutamente indispensabile che tutti sappiano che la vera eguaglianza non può esistere, data la natura diversa delle varie qualità di lavoro; e che pertanto coloro i quali agiscono a detrimento di tutta una casta incorrono in una responsabilità ben diversa, davanti alla legge, di quelli che commettono un delitto nocivo soltanto al loro onore personale». La vera scienza sociale «convincerebbe il mondo che il lavoro e gli impieghi si dovrebbero assegnare a caste ben distinte, allo scopo di evitare le sofferenze umane derivanti da un’educazione non rispondente al lavoro che gli individui sono chiamati ad eseguire». La conoscenza di questa scienza indurrebbe il popolo a sottomettersi «volontariamente ai poteri governativi e alle caste di governo classificate da essi» (III, pp. 60-61).
La vera libertà è quella che si realizza in regime autocratico: «La libertà potrebbe non essere dannosa e sussistere nei governi e nei paesi senza pregiudicare il benessere del popolo, se fosse basata sulla religione, sul timore di Dio e sulla fratellanza umana, scevra di quei concetti di uguaglianza che sono in contraddizione diretta con le leggi della creazione che hanno ordinato la sottomissione. Retto da una fede simile, il popolo sarebbe governato dalle parrocchie e vivrebbe tranquillamente ed umilmente sotto la tutela dei suoi pastori spirituali, sottomettendosi all’ordinamento da Dio stabilito sulla terra»(IV, p. 66). In particolare, contrariamente alla concezione liberale, «la libertà non consiste nella dissolutezza, né nel diritto di fare ciò che si vuole»; la vera libertà «consiste unicamente nell’inviolabilità di persona, di domicilio e di proprietà per chiunque aderisce onestamente a tutte le leggi della vita sociale»(XXII, p. 171).
Come la civiltà, neppure il popolo può esistere senza un monarca assoluto, in mancanza del quale esso è una forza cieca e distruttrice: «…perché la forza cieca del popolo non può esistere per un solo giorno senza un Capo che la guidi»(I. p. 142). Il popolo ha un «potere cieco» (III, p. 56); la massa «è una potenza cieca», incapace di autogovernarsi, perché «coloro i quali, emergendo da essa, vengono chiamati al governo, sono ugualmente ciechi in fatto di politica», l’unico vero politico essendo l’autocrate (I, p. 50).
Altri passi insistono sull’incapacità di autogovernarsi del popolo, tanto lodato quando si sottomette «all’ordine da Dio stabilito sulla terra», altrettando denigrato, persino negli appellativi (massa, plebe, folla) quando accetta il liberalismo: «Può una mente sana e logica sperare di governare una massa con successo per mezzo di argomenti e ragionamenti, quando sussiste la possibilità che essi siano contraddetti da altri i quali, anche se assurdi e ridicoli, vengano presentati in guisa attraente a quella parte della plebe, che non è capace di ragionare o di approfondire, guidata come è interamente da piccole passioni e convenzioni, o da teorie sentimentali? Il grosso della plebe, non iniziata e ignorante, assieme a coloro che sono sorti e saliti da essa, vengono avviluppati da dissensi di partito, che rendono impossibile qualsiasi accordo anche sulla base di argomenti sani e convincenti. Ogni decisione della massa dipende da una maggioranza casuale o predisposta la quale, nella sua totale ignoranza dei misteri politici, approva risoluzioni assurde, seminando in questo modo i germi dell’anarchia»(I, pp. 43-44).
«Basta dare l’autonomia di governo ad un popolo, per un periodo brevissimo, perché esso diventi una ciurmaglia disorganizzata. Da quel momento stesso cominceranno i dissidi, i quali presto si trasformano in guerre civili, l’incendio si appicca ovunque e gli stati cessano virtualmente di esistere»(I, pp. 42-43).
«Si deve comprendere, che la forza della folla è cieca e senza acume; che porge ascolto ora a destra ora a sinistra. Se il cieco guida il cieco, ambedue cadono nella fossa[3]. Conseguentemente quei membri della folla che sono venuti su da essa, non possono, anche essendo degli uomini d’ingegno, guidare le masse senza rovinare la nazione». Solo l’autocrate può farlo (I, p. 46).
«È forse possibile che le masse possano giungere tranquillamente ad amministrare senza gelosia gli affari di Stato che non devono confondere con i loro interessi personali? Possono le masse organizzare la difesa contro il nemico esterno? Ciò è assolutamente impossibile, perché un piano suddiviso in tante parti quante sono le menti della massa, perde il suo valore e quindi diventa inintelligibile e ineseguibile».
La conclusione è di nuovo che «soltanto un autocrate può concepire piani più vasti»(I, pp. 46-47).
La plebe è inoltre ignorante e credulona (III, p. 61), stupida (V, p. 79), meschina, incostante, priva di equilibrio morale, incapace di comprendere e di rispettare le condizioni stesse del suo benessere e della sua esistenza (I, p. 46). «La folla è barbara, ed agisce barbaramente in ogni occasione. La turba, appena acquista la libertà, rapidamente la trasforma in anarchia, la quale è per sé stessa la massima delle barbarie»(I, p. 47).
La plebe è anarchica e nemica di ogni ordinamento costituito: «La plebe, data questa sua condizione mentale, distrugge tutto ciò che è stabile e crea lo scompiglio ovunque» (III, pp. 63-64). «Il popolo abbandonato a sé stesso, cioè in balìa di individui saliti su dalla plebe, viene rovinato dai dissensi di partito che hanno origine dall’avidità di potere e dalla bramosia di onori, generatrici di agitazioni e disordini»(I, p. 46).
Quest’aspetto esplicitamente didascalico dei “Protocolli”, fino ad ora inesplorato, è già di per sé sorprendente, ma ancora di più lo è la concezione politica propugnata dai “Savi di Sion”, che è altrettanto esplicitamente un’autocrazia idealizzata, chiamata appunto «la nostra autocrazia» governata dal «nostro autocrate» (X, p. 97) nel quadro di una monarchia di diritto divino.

3) “REGNO EBRAICO” OVVERO AUTOCRAZIA ZARISTA
La filosofia politica dei “Savi di Sion” è esposta in una serie di dichiarazioni sparse in vari “Protocolli” e trattata sistematicamente nell’ultimo. Ciò non toglie che essa rappresenti una parte molto esigua di questo scritto e soprattutto una parte assolutamente inadeguata a quello che dovrebbe essere il fine ultimo della loro “cospirazione”. Essa consiste infatti in un’autocrazia zarista idealizzata maldestramente travestita da Regno ebraico. Come semplice copertura vanno infatti intese espressioni quali «Re d’Israele» (XV, p. 134; XVII, p. 142; XXIII, p. 175; XXIV, p. 178), «dinastia del Re Davide»(XXIV, p. 176) o «germogliato dal Seme Santo di Davide[4]»(XXIV, p. 178), copertura che del resto si tradisce in epiteti pseudogiudaici come «Re Desposta, uscito dal sangue di Sionne»(III, p. 62) o «autocrate del sangue di Sionne»(V, p. 70), mentre altri, come «Patriarca mondiale»(XV, p. 134), «Patriarca della Chiesa Internazionale»(XVII, p. 142) o «vero Papa dell’universo» (idem), sono tratti direttamente dalle gerarchie della Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Altri sono apertamente zaristi.
Il «Re d’Israele» è in effetti un «Imperatore Universale»(XII, p. 105), un «Sovrano Mondiale»(III, p. 60), cioè un monarca assoluto di diritto divino «prescelto da Dio e consacrato dall’alto» (XXIII, p. 174), in pari tempo padre e dio dei suoi sudditi: «Il nostro governo avrà l’aspetto di una fede patriarcale nella persona del suo sovrano. La nostra Nazione ed i nostri sudditi considereranno il sovrano come un padre, il quale si cura di tutti i loro bisogni, si occupa delle loro azioni, sistema le relazioni reciproche dei suoi sudditi, nonché quelle di essi verso il governo. Così che il sentimento di venerazione per il regnante si radicherà tanto profondamente nella nazione, che questa non potrà esistere senza le sue cure e la sua guida. Il popolo non potrà vivere in pace senza il sovrano e finalmente lo riconoscerà come autocrate. Il popolo nutrirà per il sovrano un sentimento di venerazione talmente profondo da avvicinarsi all’adorazione, specialmente quando si convincerà che i suoi dipendenti seguono i suoi ordini ciecamente e che egli solo regna su di essi. Il popolo si rallegrerà vedendoci regolare la nostra esistenza come se fossimo genitori desiderosi di educare la propria prole in un sentimento profondo del dovere e dell’ubbidienza»(XV, p. 133).
Questa concezione politica, che ricalca i temi apologetici precedentemente esaminati, è infatti essenzialmente un’ardente apologia dell’autocrazia zarista, che assume alcuni toni del messinismo russo, come risulta ancor più chiaramente dallo scopo ultimo di questo Regno: «Il nostro Sovrano sarà prescelto da Dio e consacrato dall’alto allo scopo di distruggere tutte le idee influenzate dall’istinto e non dalla ragione, da princìpi brutali e non dall’umanità»(XXIII, p. 174).
In altre parole, il compito affidato da Dio al Sovrano è quello di distruggere le idee liberali in tutti i campi, politico, sociale, morale, economico e finanziario, e di restaurare un’autocrazia ideale fondata sulla successione dinastica non ereditaria (XXIV, p. 176) e sulle caste (XVI, pp. 136-137).
Con ciò l’autore dei “Protocolli” scopre le sue carte: egli è un nostalgico dell’Ancien Régime che vede crollare il principio delle monarchie assolute di diritto divino ad opera del liberalismo e del parlamentarismo e che cerca di contrastarli descrivendo il volto nefasto, a suo modo di vedere, reale, del liberalismo, contrapponendogli la grandezza idealizzata, a parer suo altrettanto reale, dell’autocrazia.
I “Savi di Sion” sono dunque una finzione letteraria che esprime il suo giudizio sul liberalismo laddove essi criticano aspramente questa dottrina, e in pari tempo la sua concezione dell’autocrazia laddove essi elogiano fervidamente questa forma politica e la pongono a fondamento del loro Regno venturo.

4) I “SAVI”: ARISTOCRATICI E LIBERALI
Se la parte della “cospirazione” mondiale ancora da realizzare – l’istaurazione del Regno universale – tradisce la filosofia politica e le aspirazioni politico-sociali dell’autore dei “Protocolli”, la parte già realizzata – il dominio occulto tramite l’«infezione» liberale – appare nel suo vero significato proprio grazie a questa chiave di lettura, la quale chiarisce inoltre il significato reale della “cospirazione” e della sua vera funzionalità per ciò che riguarda il suo aspetto propriamente ebraico.
La “cospirazione”, nel suo aspetto da realizzare, non si esaurisce nella monarchia di diritto divino con spiccati caratteri paternalistici già esaminato, ma ne presenta un altro in stridente contraddizione col primo: quello di un dispotismo brutale e terroristico che appare ora già attuato, ora da attuare. In rapporto a questo duplice aspetto della “cospirazione”, i “Savi di Sion” sono l’incarnazione letteraria del dispostismo plebeo che l’autore dello scritto vedeva attuato nei regimi liberali e in pari tempo delle estreme conseguenze o finalità o minacce che egli riteneva di poter individuare in essi.

5) LA “COSPIRAZIONE” MONDIALE: IL LIBERALISMO E LE SUE CONSEGUENZE
Veniamo all’esame del significato effettivo della “cospirazione” mondiale, che è quello di una critica mascherata del liberalismo che riprende e sviluppa la critica aperta già analizzata.
Poiché la vera sovranità viene da Dio, il liberalismo, propugnando il principio della sovranità popolare, fonda lo Stato sulla forza bruta: «Il nostro [dei liberali] diritto sta nella forza»(I, p. 44).
«Il nostro [dei liberali] motto deve essere: “Qualunque mezzo di forza ed ipocrisia”. In politica vince soltanto la forza pura, specialmente se essa si nasconde nell’ingegno indispensabile per un uomo di Stato. La violenza deve essere il principio; l’astuzia e l’ipocrisia debbono essere la regola di quei governi che non desiderano di deporre la loro corona ai piedi degli agenti di una potenza nuova. Il male è l’unico mezzo per raggiungere il bene. Pertanto non dobbiamo arrestarci dinanzi alla corruzione, all’inganno e al tradimento, se questi mezzi debbono servire al successo della nostra causa»(I, p. 48). Per distruggere il fondameto stesso della vera sovranità, il liberalismo ateo ha attaccato il cristianesimo (cattolico e ortodosso), sia affermando la libertà di religione, sia favorendo il principio del libero esame del protestantesimo, sia screditando il clero, in particolare i Gesuiti, i nemici più temibili dei liberali, e mira finalmente all’ateismo assoluto: «[Noi liberali] abbiamo messo molto impegno a screditare il clero dei Gentili agli occhi del popolo, e siamo così riusciti a nuocere alla sua missione che avrebbe potuto ostacolare il nostro cammino. L’influenza del clero sul popolo diminuisce di giorno in giorno. Attualmente la libertà di religione prevale ovunque, e l’epoca che il Cristianesimo cadrà in frantumi non è ormai troppo distante. Sarà ancora più facile per noi di distruggere le altre religioni. Ma è prematuro per ora di discutere questo argomento. Noi ridurremo il clero e le sue dottrine a tener così poco posto nella vita, e renderemo la loro influenza così antipatica alla popolazione, che i loro insegnamenti avranno risultati opposti a quelli che avevano una volta»(XVII, pp. 141-142).
«Per stabilire l’ordine nella società dei Gentili [cioè nelle monarchie di diritto divino] nella quale abbiamo profondamente inculcato i dissidi ed i dogmi della religione protestante, prenderemo provvedimenti spietati i quali dimostreranno alle nazioni che il nostro potere non può essere violato»(XV, p. 121). «Per questa ragione dobbiamo distruggere tutte le professioni di fede»(XIV, p. 117). «Ed è perciò che [noi liberali] dobbiamo cancellare persino il concetto di Dio dalle menti dei Cristiani, rimpiazzandolo con calcoli aritmetici e bisogni materiali»(IV, p. 66).
Il finto attacco contro i Gesuiti assume toni apertamente apologetici: «L’unica società da noi conosciuta che sarebbe capace di farci concorrenza in queste arti potrebbe essere quella dei Gesuiti. Ma siamo riusciti a screditare i Gesuiti agli occhi della plebe stupida per la ragione che questa società è un’organizzazione palese, mentre noi ci teniamo dietro le quinte, mantenendo il segreto della nostra» (V, pp. 69-70).
Sopprimendo il fondamento della vera sovranità, il liberalismo ha soffocato ogni forma legittima di governo; le monarchie costituzionali hanno una legittimità puramente virtuale, cioè non effettiva: «In realtà noi abbiamo già distrutto tutte le forme di governo [= monarchie assolute di diritto divino] fuorché la nostra, benché esistano ancora in teoria»(IX, p. 83).
Propugnando gli «immortali princìpi» della Rivoluzione Francese, il liberalismo ha inoltre abolito i privilegi dell’aristocrazia, promovendo lo sviluppo della plutocrazia e del capitalismo: «Il nostro appello di: libertà, “uguaglianza, fratellanza”, attirò intiere legioni nelle nostre file dai quattro canti del mondo attraverso i nostri inconsci agenti, e queste legioni portarono i nostri stendardi estaticamente. Nel frattempo queste parole rodevano, come altrettanti vermi, il benessere dei cristiani e distruggevano la loro pace, la loro costanza, la loro unione, rovinando così le fondamenta degli Stati [= monarchie assolute]. Come vedremo in seguito, questa azione determinò il nostro trionfo. Esso ci dette, fra l’altro, la possibilità di giocare l’asso di briscola, vale a dire di ottenere l’abolizione dei privilegi; ossia, in altre parole, l’abolizione dell’aristocrazia dei Gentili, la quale era l’unica difesa che le Nazioni e i paesi possedevano contro di noi. Sopra le rovine di un’aristocrazia naturale ed ereditaria, costruimmo un’aristocrazia a base plutocratica»(I, pp. 50-51). In tal modo i nemici della monarchia assoluta si sono impadroniti del governo sostituendo istituzioni liberali a quelle monarchiche: «Per non distruggere prematuramente le istituzioni dei Gentili, noi vi abbiamo posto sopra le nostre mani esperte impadronendoci delle molle motrici dei loro meccanismi. Questi erano, una volta [= nelle monarchie assolute], congegnati con severità e giustizia; ma noi abbiamo sostituito a tutto ciò amministrazioni liberali e disordinate»(IX, p. 86).
Instaurando il regime parlamentare, i liberali hanno gettato lo Stato nell’anarchia: «I governi li abbiamo trasformati in arene dove si combattono le guerre di partito. Fra poco il disordine ed il fallimento appariranno ovunque»(III, p. 57).
Il liberalismo, essendo fondato su princìpi falsi, solo apparentemente è il regno della libertà. In realtà esso è una dittatura terroristica esercitata “occultamente”: «Il nostro Governo occupa una posizione così eccessivamente forte di fronte alla legge, che quasi possiamo, per designarlo, adoperare la potente parola: dittatura»(IX, p. 84). «Siamo la sorgente di un terrore che esercita la sua influenza a grande distanza»(IX, p. 84).
Il regime parlamentare – continua la critica del redattore dei “Protocolli” – , al tempo stesso dittatoriale e anarchico, non può portare benessere e prosperità al popolo, che per principio è incapace di autogovernarsi, e affoga nel malcostume e nella corruzione. Gli stessi presidenti delle repubbliche parlamentari sono «individui bacati» e tutti i funzionari statali uomini di malaffare, che mirano inevitabilmente al loro tornaconto individuale. I partiti, infine, sono una forza disgregatrice della compagine statale:
«Per ottenere questi risultati predisporremo le cose in modo che siano eletti alla carica presidenziale individui bacati, che abbiano nel loro passato uno scandalo tipo “Panama”, o qualche altra transazione losca e segreta. Un presidente di tale specie temerà di essere denunziato, e sarà sotto l’influenza di questa paura la quale si impadronirà di colui il quale, salito al potere, è ansioso di conservarsi i privilegi e gli onori inerenti alla sua alta carica» (X, p. 94).
«Nel frattempo, fintanto che non sarà prudente riempire gli incarichi di governo con i nostri fratelli Giudei, affideremo tali posti importanti a individui la cui fama e il cui carattere siano così cattivi da scavare un abisso fra essi e la Nazione, ed anche gente di tal risma, che abbia timore di finire in galera, se ci disobbedirà»(VIII, p. 82).
In tutto il tessuto dello Stato repubblicano e in tutti i campi della vita pubblica e privata regna la corruzione e l’ipocrisia. Il regime parlamentare confonde il popolo, lo istiga al lusso e alla dissolutezza, lo corrompe con una letteratura sudicia, lo travia con una falsa scienza, lo inganna con la stampa: «Per impadronirci della pubblica opinione dovremo anzitutto confonderla al massimo grado mediante la espressione da tutte le parti delle opinioni più contraddittorie, affinché i Gentili si smarriscano nel labirinto delle medesime. Ed allora essi comprenderanno, che la miglior via da seguire è quella di non avere opinioni in fatto di politica; la politica non essendo cosa da essere intesa dal pubblico, ma riservata soltanto ai dirigenti gli affari»(V, pp. 72-73).
«Allo scopo di rovinare le industrie dei Gentili e di aiutare la speculazione, incoraggiammo l’amore pel lusso sfrenato, che abbiamo già sviluppato»(VI, p. 76).
«I popoli della Cristianità sono fuorviati dall’alcool; la loro gioventù è resa folle dalle orge classiche e premature alle quali l’hanno istigata i nostri agenti – e cioè i precettori, i domestici, le istitutrici, gli impiegati, i commessi e via dicendo –; dalle nostre donne nei loro luoghi di divertimento; ed a queste ultime aggiungo anche le cosiddette “Signore della Società” – loro spontanee seguaci nella corruzione e nella lussuria»(I, pp. 47-48).
Nella sua requisitoria contro il liberalismo, l’autore dei “Protocolli” getta nel calderone anche coloro che ne considera i precursori: Darwin, Marx e Nietzsche:
«Le classi istruite dei Gentili si vanteranno della propria erudizione e metteranno in pratica, senza verificarle, le cognizioni ottenute dalla scienza che i nostri agenti scodelleranno loro allo scopo prefisso di educarne le menti secondo le nostre direttive. Non crediate che le nostre aserzioni siano parole vane: notate il successo di Darwin, di Marx, di Nietsche [sic], che fu intieramente preparato da noi» (II, p. 54).
Persino la scienza è sentita come un pericolo, perché mina il monopolio della cultura cristiana prima detenuto dall’aristocrazia:
«Date le condizioni attuali della scienza, che segue una linea tracciata da noi, la plebe, nella sua ignoranza, crede ciecamente nelle parole stampate e nelle illusioni erronee opportunamente ispirate da noi, ed odia tutte le classi che crede più elevate della sua»(III, p. 61).
D’altra parte la nuova scienza viene biasimata per il suo carattere liberale, cioè anticristiano e antitradizionale:
«Con questa meta in vista e coll’aiuto della nostra stampa, aumentiamo continuamente la loro cieca fiducia in queste leggi»(II, p. 54). «Per giovare al nostro piano mondiale, che si avvicina al termine desiderato, dobbiamo impressionare i governi dei Gentili mediante la cosiddetta opinione pubblica, che in realtà viene dovunque preparata da noi per mezzo di quel massimo fra i poteri che è la stampa, la quale – fatte insignificanti eccezioni di cui non è il caso di tener conto – è completamente nelle nostre mani»(VII, p. 79).
«Nei cosiddetti paesi dirigenti [= liberali] abbiamo fatto circolare una letteratura squilibrata, sudicia e ripugnante»(XIV, p. 119).
Di fronte alla supinità con cui il popolo «crede ciecamente nelle parole stampate e nelle illusioni erronee opportunamente ispirate» dai liberali, l’autore dei “Protocolli” non riesce a trattenere il suo sdegno, che traspare nelle espressioni crude con le quali egli bolla l’ottusità bestiale di esso:
«La mentalità dei Gentili [= del popolo traviato dal liberalismo] essendo di natura puramente bestiale, è incapace di osservare e di analizzare checchessia e più ancora di prevedere le conseguenze alle quali può condurre una causa se presentata sotto una certa luce»(XV, p. 127).
«Ed è precisamente in questa differenza di mentalità tra noi [= aristocratici sostenitori della monarchia assoluta] e i Gentili [= il popolo succube del liberalismo], che possiamo facilmente riconoscere di essere gli eletti di Dio nonché la nostra natura sovrumana [in virtù della sovranità per diritto divino del monarca] , in paragone con la mentalità istintiva e bestiale dei Gentili. Costoro non vedono che i fatti, ma non li prevedono e sono incapaci di inventare qualsiasi cosa, eccetto le materiali»(XV, p. 127).
Ma il popolo è al tempo stesso anche vittima, un branco di pecore davanti ai lupi liberali: «I Gentili sono come un branco di pecore, noi siamo i lupi»(XI, p. 101).
Neanche di fronte ai liberali corruttori del popolo il redattore dei “Protocolli” riesce a trattenere il suo sdegno, che dipinge così: «[Noi liberali] abbiamo un’ambizione senza limiti, una ingordigia divoratrice, un desiderio di vendetta spietato e un odio intenso» nei confronti dei re e degli aristocratici.
Passiamo all’aspetto economico e finanziario della “cospirazione”, ossia a ciò che l’autore dei “Protocolli” ritiene che il liberalismo abbia già fatto ed abbia intenzione di fare in questo campo per scardinare le società tradizionali.
Anzitutto il liberalismo, distruggendo i privilegi dell’aristocrazia, ha generato il capitalismo e la plutocrazia, la quale esercita una dittatura tramite la finanza internazionale. I regimi liberali sono schiavi dell’oro, di cui si sono impadroniti i plutocrati: «Oggi giorno la potenza dell’oro ha sopraffatto i regimi liberali»(I, p. 42). «Nelle nostre mani è concentrata la più grande potenza del momento attuale, vale a dire la potenza dell’oro. In due soli giorni possiamo estrarre qualsiasi somma dai depositi segreti dei nostri tesori»(XXII, p. 170).
I plutocrati liberali hanno ottenuto quest’oro con i prestiti esteri, rendendo schiavi delle loro banche le monarchie europee: «Fin tanto che i prestiti erano interni, i Gentili non facevano che trasferire il denaro dalle tasche dei poveri in quelle dei ricchi; ma quando riuscimmo, corrompendo chi di ragione, a far sostituire prestiti all’estero a quelli all’interno, tutte le ricchezze degli Stati affluirono nelle nostre casseforti, e tutti i Gentili principiarono a pagarci ciò che si può chiamare tributo. A causa della loro trascuratezza nella scienza del governo, o a causa della corruzione dei loro ministri, o della loro ignoranza in fatto di finanza, i sovrani gentili hanno reso i loro paesi debitori delle nostre banche ad un punto tale, che non potranno mai redimere le loro ipoteche»(XX, p. 162).
Con le ricchezze così ottenute, i plutocrati liberali hanno provocato le crisi economiche costringendo gli Stati ad indebitarsi ulteriormente: «Tutte le crisi economiche da noi combinate con tanta astuzia nei paesi dei Gentili, sono state determinate ritirando il denaro dalla circolazione. Lo Stato si è trovato nella necessità per i suoi prestiti di fare appello alle grandi fortune che sono congestionate pel fatto che la moneta è stata ritirata dal governo. Questi prestiti hanno imposto dei pesanti carichi sui governi, obbligandoli a pagare interessi, e così sono legati mani e piedi»(XX, p. 158).
La critica del «dispotismo capitalista» (I, p. 43) è basata su argomentazioni marxiste: sfruttamento degli operai, plusvalore (il «profitto abusivo»), accumulo del capitale, proletarizzazione delle classi medie, riduzione alla fame del proletariato e rivoluzione finale:
«Determineremo una crisi economica universale con tutti i mezzi clandestini possibili e coll’aiuto dell’oro, che è tutto nelle nostre mani. In pari tempo getteremo sul lastrico folle enormi di operai in tutta l’Europa. Allora queste masse si getteranno con gioia su coloro dei quali, nella loro ignoranza, sono stati gelosi sin dall’infanzia, ne saccheggeranno gli averi e ne verseranno il sangue»(III, p. 61).
«Ma perché la libertà sconnetta e rovini completamente la vita sociale dei Gentili, dobbiamo mettere il commercio su una base di speculazione. Il risultato di ciò sarà che le ricchezze della terra, ricavate per mezzo della produzione, non rimarranno nelle mani dei Gentili, ma passeranno, attraverso la speculazione, nelle nostre casseforti. La lotta per la supremazia e la speculazione continua nel mondo degli affari, produrrà una società demoralizzata, egoistica e senza cuore. Questa società diventerà completamente indifferente e persino nemica della religione e disgustata dalla politica. La bramosia dell’oro sarà l’unica sua guida. E questa società lotterà per l’oro, facendo un vero culto dei piaceri materiali che esso può procacciarle. Allora le classi inferiori si uniranno a noi contro i nostri rivali – cioè contro i Gentili privilegiati [= gli aristocratici] – senza neppure fingere di essere animate da un motivo nobile, e neppure per amore delle ricchezze, ma unicamente per il loro odio schietto contro le classi più elevate [= aristocratiche] »(IV, pp. 66-67).
Per l’autore dei “Protocolli” il liberalismo porta dunque capitalismo, che strangola gli Stati e i lavoratori:
«Il dispotismo capitalista, che è interamente nelle nostre mani, gli tenderà un fuscello al quale lo Stato dovrà inevitabilmente aggrapparsi per evitare di cadere inevitabilmente nell’abisso»(I, p. 43).
«La fame conferirà al capitalismo dei diritti sul lavoratore infinitamente più potenti di quelli che il legittimo potere del sovrano potesse conferire all’aristocrazia»(III, p. 59).
Viceversa, la critica del marxismo si basa su argomentazioni “borghesi”: esso finge di desiderare la liberazione del proletariato dal giogo del capitalismo, ma in realtà mira ad asservirlo e ad opprimerlo:«Per evitare che i Gentili comprendano prematuramente il vero stato delle cose, nasconderemo il nostro piano sotto l’apparente desiderio di aiutare le classi lavoratrici alla soluzione dei grandi problemi economici: questa nostra propaganda viene aiutata in tutto e per tutto dalle nostre teorie economiche»(VI, p. 77), cioè dalle teorie marxiste, il cui successo «fu intieramente preparato da noi»( II, p. 54), cioè fu una conseguenza dei princìpi liberali.
«Noi abbiamo l’intenzione di assumere l’aspetto di liberatori dell’operaio, venuti per affrancarlo da ciò che lo opprime, quando gli suggeriamo di unirsi alla fila dei nostri eserciti di socialisti, anarchici e comunisti»(III, p. 59).
«La nostra forza consiste nel tenere continuamente l’operaio in uno stato di penuria ed impotenza, perché, così facendo, lo teniamo assoggettato alla nostra volontà e, nel proprio ambiente, egli non troverà mai la forza e l’energia di insorgere contro di noi»(III, p. 59). «Noi [= i capitalisti liberali] governiamo le masse [proletarie] mediante sentimenti di gelosia ed odio fomentati dall’oppressione e dalla miseria»(III, p. 59).

6) PERCHE’ I “SAVI” SONO “EBREI”?
Resta infine da spiegare la funzionalità antisemitica della “cospirazione” mondiale, cioè la sua attribuzione a “Savi” ebrei.
Nella filosofia politica autocratica, antiliberale e antimodernista che si esprime nei “Protocolli”, l’antisemitismo ha una valenza secondaria e derivata, quasi di ripiego, rispetto al tema centrale della “cospirazione mondiale” liberale, antimonarchica e anticristiana che costituisce il fulcro della loro filosofia della storia. La “cospirazione” vi viene infatti introdotta per spiegare la ragione della decadenza della monarchia di diritto divino e del trionfo del liberalismo. Come ha potuto il «veleno» e la «malattia mortale» del liberalismo intaccare l’organismo perfetto dell’autocrazia? In virtù, appunto, di una “cospirazione”.
Idea del resto suggerita già nel “Dialogue” di Maurice Joly, da cui l’autore dei “Protocolli” attinse notoriamente a piene mani:
«È così che i diversi popoli dell’Europa sono passati, attraverso trasformazioni successive, dal sistema feudale al sistema monarchico, e dal sistema monarchico puro al regime costituzionale. Questo sviluppo progressivo, la cui unitarità è così imponente, non ha nulla di fortuito; esso si è verificato come conseguenza necessaria del movimento che si è realizzato nelle idee prima di tradursi nei fatti»[5]. Questa spiegazione, inammissibile per un fautore della monarchia di diritto divino, contiene tuttavia lo spunto per la soluzione del problema: la distruzione dell’Ancien Régime «non ha nulla di fortuito», esso è dunque la «conseguenza necessaria» di una “cospirazione”.
Ma chi mettere in scena nel ruolo di “cospiratori”? Per giungere alla soluzione di quest’altro problema l’autore dei “Protocolli” ha semplicemente proceduto per esclusione. Risulta evidente che la sua filosofia politica non gli consentiva di attribuire questa “cospirazione” ai suoi nemici naturali, i liberali, perché in tal caso non avrebbe potuto realizzare la finalità critico-apologetica che costituisce l’essenza dei “Protocolli”. In effetti, dei “cospiratori” liberali, nella finzione letteraria, non avrebbero potuto non criticare aspramente la monarchia assoluta di diritto divino ed esaltare entusiasticamente il liberalismo, mentre l’intento dell’autore era esattamente il contrario.
Per la stessa ragione il risultato della “cospirazione” non poteva essere una democrazia universale, veementemente aborrita dall’autore dei “Protocolli”. Donde la necessità che essa tendesse all’istaurazione di una monarchia assoluta di diritto divino idealizzata, da lui considerata l’unica forma di governo legittima e naturale, il che si traduce per di più in un’apologia supplementare dell’autocrazia.
Parlo di “necessità” perché una semplice dittatura terroristica, indubbiamente assai più consona alle caratteristiche ferine attribuite all’avversario liberale, sarebbe stata in troppo flagrante contraddizione con la finalità critico-apologetica dei “Protocolli”: chi crede fermamente – come i “cospiratori” dei “Protocolli” – nell’origine divina della sovranità, non può ammettere una forza di governo fondata sulla forza bruta. Questa è infatti la concezione che attribuisce al nemico liberale.
Con ciò, nel panorama delle forze agenti in Europa alla fine dell’Ottocento, il campo dei probabili “cospiratori” si restringeva alla Massoneria e all’Ebraismo.
La massoneria, propugnatrice degli “immortali princìpi” dell’ 89 e perciò stesso incarnazione dei princìpi liberali, non poteva svolgere un ruolo cospiratore per lo stesso motivo per cui non potevano svolgerlo i liberali. Ma ciò vale anche per le società segrete dell’Ottocento, che tendevano per di più al radicalismo democratico e rivoluzionario.
La scelta non poteva dunque cadere che sull’ebraismo, realizzando così l’obiettivo supplementare di attirare l’odio sugli Ebrei, che già nel “Dialogue” di Joly vengono presentati come i modelli di coloro che non hanno altro culto dell’oro e i cui costumi sono mercantili[6] .
Gli Ebrei, per il loro atteggiamente rivoluzionario all’esterno, mirante all’acquisizione dei diritti civili, e il loro atteggiamento conservatore all’interno, teso a preservare l’unità nazionale e religiosa, erano i “cospiratori” ideali. La scelta era pertanto l’effetto necessario delle premesse critico-apologetiche dei “Protocolli”: la “cospirazione” serviva a spiegare la decadenza della monarchia assoluta, i “Savi di Sion” servivano a spiegare la “cospirazione”.
La scelta di “cospiratori” ebrei era talmente obbligata che l’autore dei “Protocolli” non si curò neppure di renderla credibile con riferimenti al Talmud e alla letteratura rabbinica posteriore, e ancor meno di collegare la “cospirazione” al messianismo ebraico e di identificare nel «Re d’Israele» il Messia. Su quest’aspetto fondamentale ritornerò alla fine.
Ciò chiarisce anche perché la descrizione dei risultati di una “cospirazione” ordita da «quasi venti secoli» cominci dalla Rivoluzione Francese, cioè dalla distruzione dell’Ancien Régime e dal trionfo dell’ideologia liberale.
Trovati con scelta obbligata i “cospiratori”, era trovato lo schema, parimenti obbligato, della “cospirazione”; per distruggere l’Ancien Régime i “Savi di Sion” provocarono la Rivoluzione Francese e diffusero i suoi princìpi in tutta l’Europa per mezzo della Massoneria, cieco strumento nelle mani dei “Savi” creato appositamente per esercitare un’azione occulta:
«Ricordatevi della rivoluzione francese, che chiamiamo la Grande Rivoluzione: ebbene, tutti i segreti della sua preparazione organica ci sono ben noti, essendo opera delle nostre mani»(III, p. 62; cfr. XII, p. 102; IX, p. 83; IV, p. 65).
Da quanto esposto sopra è evidente che i “Protocolli” non furono concepiti per servire da “licenza per un genocidio” – secondo la tesi di Norman Cohn –, cioè per catalizzare l’odio verso gli Ebrei e suscitare “evrejskje pogromi”, pogrom contro gli Ebrei. Dal punto di vista della reazione pratica e fattuale, essi invitano invece esplicitamente i popoli europei al rigetto del liberalismo e alla restaurazione della sovranità autocratica. Se il liberalismo è il «veleno», la «malattia mortale» che li ha intaccati, l’unico antidoto, l’unica medicina è la monarchia assoluta di diritto divino.

7) SPUNTI INTERPRETATIVI FILOSEMITICI RIVELATORI (MA NON TROPPO)
L’interpretazione dello scopo e significato dei “Protocolli” proposto dai vari studiosi di questo argomento è piattamente superficiale e insulsa, essendo schiacciata sul preconcetto del “falso antisemita”. Norman Cohn, in un barlume di lucidità, ha osservato che gli antisemiti russi che egli riteneva autori dei “Protocolli”, «spesso attribuivano paradossalmente i propri valori e le proprie aspirazioni all’immaginario governo ebraico»[7], ma ha lasciato immediatamente cadere questo spunto fondamentale, accecato dai suoi pregiudizi filosemitici.
Anche Sergio Romano ha intravisto questa contraddizione di fondo:
«Le pagine più russe dei Protocolli, quelle che maggiormente denunciano le intenzioni e la destinazione del libro, concernono il “Re d’Israele”, il potente sovrano che governerà il mondo non appena i Savi avranno completato, con l’aiuto della massoneria e degli ideali rivoluzionari, la distruzione e l’eversione dell’ordine esistente. Le loro riflessioni e le loro massime possono dividersi infatti in due parti: da un lato quelle in cui gli strateghi del complotto ebraico descrivono minuziosamente i mezzi di cui si valgono per la conquista del potere; dall’altro quelle in cui descrivono, direttamente o indirettamente, il regime politico e sociale di cui preparano l’avvento. Quanto i mezzi sono diabolici tanto il regime finale è positivo, desiderabile. I Protocolli si presentano quindi come un catechismo composito in cui sulla bocca degli stessi protagonisti l’astuzia si alterna alla saggezza, la rivoluzione alla restaurazione, il male d’oggi al bene di domani. Quando usano scaltramente i principi trinitari della rivoluzione francese, quando alternano capitalismo e socialismo per corrodere le società organiche e gerarchiche delle grandi monarchie, i Savi sono personaggi infidi e malefici; quando annunciano il regno ebraico o descrivono il regime ideale contro il quale le loro stesse armi sarebbero inefficaci, sono sovrani paterni e sapienti, degni d’imitazione».
Ma poi è stato anch’egli abbagliato dalla tesi del “falso antisemita”:
«Il messaggio indirizzato a Nicola II è quindi duplice: stroncare il complotto ebraico e realizzare sin d’ora ciò che gli ebrei intendono fare dopo la conquista del potere. Per quanto ciò possa sembrare paradossale vi sono passaggi in cui il libro è oggettivamente “filosemita”; e sono quelli, per l’appunto, in cui si descrive il regime paterno e autocratico del “regno d’Israele”».
Romano ha sfiorato il vero significato dei “Protocolli”, asserendo giustamente che «in altri passaggi il ritratto del re d’Israele è in realtà il positivo ritratto dello zar, quale era auspicato da quei settori dell’opinione russa in cui i Protocolli trovavano lettori più attenti», sicché «fra il regno giudaico temuto e l’impero zarista sognato corre una straordinaria somiglianza»; egli nota anche che «il re d’Israele non è altri che l’autocrate di tutte le Russie»[8], ma finisce poi coll’irretirsi di nuovo nella tesi del “complotto ebraico”.
Il giudizio di Romano contiene una incongruenza palese: il messaggio rivolto (anche) a Nicola II non poteva essere quello di «stroncare il complotto ebraico» se questo era una invenzione dei “giudeofobi” autori dei “Protocolli”: essi desideravano invece stroncare il liberalismo e restaurare l’autocrazia assoluta.
In un brillante studio dedicato ai “Protocolli” che supera per metodologia critica quelli apparsi in precedenza su tale argomento, Cesare G. De Michelis affronta questa tematica da un punto di vista basilare, ma sorprendentemente nuovo, perché trascurato fino ad allora dagli studiosi: il punto di vista filologico. Egli precisa giustamente che
«la questione dell’origine dei PSM [Protocolli dei Savi di Sion] non può essere studiata separatamente dalla definizione del testo e dalla sua corretta lettura. Altrimenti, com’è capitato, di fronte all’impossibilità di procedere oltre nei problemi insoluti s’impone l’idea che, tutto sommato, è più importante la storia dell’uso del testo che il testo stesso, e ciò ha finito per far accettare passivamente, almeno in parte, le trappole della mistificazione»[9].
De Michelis respinge l’
«ipotesi – in sé plausibile, ma mai dimostrata – della compilazione [dei Protocolli] a Parigi, attorno al 1897, a cura di P.I.Račkovskij e con lui della sezione estera dell’ Oxrana»[10],
e suppone che la loro origine sia da ricercare in ristretti circoli dell’estrema destra russa “giudeofoba”; egli accoglie l’ipotesi dello storico polacco Janusz Tazbir che attribuisce a due personaggi ad essi appartenenti – P. Kruševan e G. Butmi – la paternità dei Protocolli, spiegando:
«si tratta pur sempre di un’ipotesi in un “processo indiziario”, ma assai più corrispondente ai dati disponibili della tesi del falso fabbricato a Parigi dall’ Oxrana»[11].
Per quanto concerne l’esegesi del testo, C. De Michelis plaude ai «punti di vista» interpretativi proposti da Pierre-André Taguieff, ma li ritiene «non pienamente soddisfacenti», precisando:
«Taguieff indica bensì i nodi essenziali dei PSM (complotto, antisemitismo, falso, anti-teologia) ma, muovendo da un’ottica più ideologica che filologica, offre a mio avviso una grata non adeguata alla loro esegesi. Tuttavia compie un passo avanti rispetto al “modello interpretativo” di [Norman] Cohn […] che, assumendo come fondante la categoria della “psicopatologia collettiva”, finiva per trasferire sul terreno psicoanalitico una intricata questione critico-testuale e storico-culturale».
Indi egli espone il proprio criterio esegetico:
«Procederemo in maniera analoga, ma riformulando le “questioni” in modo da porre al centro dell’attenzione il testo più che gli ideologemi, le convinzioni scrittorie e le peculiarità “letterarie” più che la psicologia, individuale (del mittente) o collettiva (del destinatario). Ciò ovviamente in relazione al testo ricostruito, lasciando sullo sfondo sia la storia della costituzione del mito, sia quella della sua fruizione tramite le varie redazioni o traduzioni dei PSM, che hanno già avuto i loro studiosi»[12].

8) TALMUD E “PROTOCOLLI”
Ma anche De Michelis, concentrandosi sul singolo albero, ha perso di vista la foresta ed è ricaduto nella trita tesi secondo la quale all’origine di questo scritto ci sarebbe la “giudeofobia” dei suoi autori[13], perciò esso, di nuovo, sarebbe un “falso antisemita”.
In un altro studio egli ha confermato:
«Nel decennio successivo fu lo stesso Talmud (spesso letto male e peggio inteso) a essere posto al centro della polemica antiebraica, secondo uno schema che si venne delineando sempre più chiaramente: in fondo la religione mosaica sarebbe ancora accettabile, ancorché gravemente invalidata dal mancato riconoscimento del Messia in Gesù (cosa che ha lasciato gli Ebrei sordi alla Grazia), ma oggi in realtà non è più la religione della Torah, bensì quella del Talmud, che non avrebbe “spiegato”, ma “sostituito” il Vecchio Testamento. Nascono così opere di stampo giudeofobo e di indirizzo già antisemita, quali Talmud i evrei (Il Talmud e gli ebrei, 1879) di I. Ljutostanskij, o Tajny talmuda i evrei (I segreti del Talmud e gli ebrei, 1880) di V. Mordvinov, che si riallacciano alle tesi esposte da A. Rohling (TalmudJude, 1871).
Nel 1892 un prete lituano che insegnava a Pietroburgo, Iu. Pranaitis, pubblicò un saggio “scientifico” sul contenuto anticristiano del Talmud, che trovò eco nel coevo antisemitismo tedesco: i Protocolli provvidero a stabilizzare il topos (citazioni dal Talmud ricorrono nella sedicente “Postilla del traduttore”, a sostegno della tesi che gli ebrei vedrebbero nei goyim solo “bestiame da lavoro”), e da allora la subcultura antisemita considera il Talmud fondamento della “dottrina segreta degli ebrei”»[14].
Questa interpretazione è però in aperto contrasto con la grossolana superficialità con la quale i “Protocolli” dipingono l’essenza del giudaismo. De Michelis stesso riconosce che
«del “punto di vista ebraico” rappresentato nell’apocrifo dalle parole dei “savi”, colpisce non tanto la ripetuta e distorta valenza attribuita al concetto di “popolo eletto” (che si considererebbe destinato a regnare su tutti i popoli della terra, e non già nella sola “terra promessa”), quanto l’assenza di ogni riferimento al Messia»[15],
ma, nella sua prospettiva, dovrebbe colpire ancora di più l’assenza di riferimenti ai testi fondamentali del giudaismo, a cominciare dal Talmud e dallo Schulchan aruch, sebbene, come fa notare De Michelis, i testi di riferimento non mancassero, a cominciare da quelli di Rohling, di Ljutostanskij e di Mordvinov. Qualche anno prima della redazione dei “Protocolli”, nel 1892, a San Pietroburgo apparve il libro di Iustinus Bonaventura Pranaitis Christianus in Talmude Iudaeorum sive rabbinicae doctrinae de Christianis secreta[16] che non poteva essere ignoto ai “giudeofobi”[17] russi e dal quale avrebbero attinto a piene mani per rendere più credibile il carattere ebraico del “complotto”.
Qualcosa di simile, come osserva De Michelis, appare soltanto nella “Postilla del traduttore”:
«Ed ecco, è stato loro dichiarato profeticamente che sono stati eletti da Dio stesso dal novero degli uomini per possedere la terra in un regno indivisibile. Inoltre s’è inculcato [loro] che solo gli ebrei sono figli di Dio e loro soltanto sono degni del titolo di “uomo”, mentre gli altri sono stati creati come bestiame da lavoro e schiavi degli ebrei, e sono state date loro fattezze umane perché i loro servigi, che si riducono alla creazione del trono di Sion sul mondo intero, non fossero troppo ripugnanti per gli ebrei.
Una volta che è stato ispirato loro che sono esseri superiori, o superuomini, ecco perché non possono unirsi in matrimonio con una stirpe bestiale, con gli altri popoli che rispetto agli ebrei sono bestie. Ritenendo tutti i non-ebrei loro bestiame da lavoro[18] creato per l’esaltazione di Sion, gli ebrei si comportano con loro come tali; ritengono loro patrimonio la proprietà e persino la vita delle popolazioni, e ne dispongono a loro discrezione quando può venir fatto impunemente»[19].
Ma questi commenti di insegnamenti rabbinici sono tratti in massima parte proprio dal libro di Pranaitis e da quello di Rohling.
En passant, tali commenti trovano puntuale riscontro nella letteratura rabbinica, tranne il fatto che i non-ebrei siano considerati «bestiame da lavoro», concetto che peraltro risulta dalla fusione di due serie di testi: quelli che affermano che i non-ebrei sono bestie tout court, come il trattato talmudico Baba meçia, 114b (i popoli del mondo [‘ûmôth hâ’ôlâm] non sono chiamati uomini [‘âdhâm], ma bestie [behêmâh]), e quelli che li considerano bestie in forma umana per servire gli ebrei, come il Sepher midhrâš talpjiôth, scritto da Eliahu ben Abraham Shlomo: «(Dio) li creò in forma d’uomo in onore di Israele; infatti gli Akum[20] non furono creati ad altro scopo che per servirli (gli ebrei) giorno e notte; né possono mai cessare da questo loro servizio. Non si addice infatti al figlio del re (l’israelita) che lo servano bestie in forma di bestie, ma bestie in forma di uomo»[21].
Se dunque l’autore dei “Protocolli” avesse avuto realmente e principalmente intenti “antisemiti”, avrebbe inserito nel testo questi commenti, o le relative citazioni.

9) OPERAZIONE “PROTOCOLLI”: COME CANCELLARE LE CAUSE REALI DELL’ANTISEMITISMO
Lo scopo principale perseguito da Norman Cohn nel suo libro di bassa propaganda, incredibilmente spacciato per opera seria e scientifica, era quello di eliminare le cause reali dell’antisemitismo con ipotesi fallaci e inconsistenti.
Quando si parla di “cause reali” dell’antisemitismo, non si può prescindere dall’interpretazione dello scrittore ebreo Bernard Lazare, che deve costituire il criterio ermeneutico fondamentale di ogni studio serio sull’argomento:
«Se si vuole tracciare una storia completa dell’antisemitismo – senza tralasciare nessuna manifestazione di questo sentimento, seguendone le varie fasi e modificazioni – bisogna esaminare la storia di Israele dalla sua dispersione, o, per meglio dire, dall’epoca della sua espansione al di fuori del territorio della Palestina.
Dovunque gli Ebrei si siano stabiliti, cessando di essere una nazione pronta a difendere la propria libertà e indipendenza, dappertutto è sorto l’antisemitismo, o piuttosto l’antigiudaismo […].
Se questa ostilità, perfino ripugnanza, si fossero esercitate nei confronti degli Ebrei soltanto in una determinata epoca e in un solo paese, sarebbe facile chiarire le cause specifiche di questi scatti d’ira; ma questa razza è stata al contrario esposta all’odio di tutti i popoli in mezzo ai quali si è stabilita. Bisognava dunque, poiché i nemici degli Ebrei appartenevano alle razze più diverse, vivevano in paesi molto lontani gli uni dagli altri, erano retti da leggi differenti, governati da princìpi opposti, non avevano né le stesse usanze, né gli stessi costumi, erano animati da intenti dissimili che non permettevano loro di giudicare tutte le cose allo stesso modo, bisognava dunque che le cause generali dell’antisemitismo fossero sempre state insite in Israele stesso, non in coloro che lo combatterono.
Ciò non per affermare che i persecutori degli Israeliti ebbero sempre il diritto dalla loro, né che non si abbandonarono a tutti gli eccessi che gli odi più violenti comportano, ma per stabilire in via di principio che gli Ebrei causarono – almeno in parte – i loro mali»[22].
L’operazioneProtocolli” inverte completamente il giudizio di Lazare: dovunque gli Ebrei si siano stabiliti, sono sempre stati perseguitati ingiustamente, senza alcuna colpa, essendo vittime di “pregiudizi” irrazionali, sicché la causa dell’antisemitismo risiederebbe soltanto ed esclusivamente in coloro che li combatterono, mai negli Ebrei stessi.
Essendo il tema piuttosto articolato, mi limito ad indicare schematicamente le due direttrici fondamentali dell’operazione.
Il punto di partenza riguarda un travisamento interpretativo: l’antisemitismo nell’antichità non era antisemitismo:
«Chiunque conosca i lavori del reverendo James Parker, del dottor Léon Poliakov, di Jules Isaac e di Joshua Trachtenberg non potrebbe neanche per un solo istante attribuire ad antisemitismo le tensioni che nascevano di tanto in tanto nell’antichità fra i vari governanti egiziani, greci o romani e i loro sudditi ebrei, o le saltuarie persecuzioni di ebrei avvenute nei paesi musulmani (quelle che subirono i cristiani furono molto più gravi)»[23].
Tesi storicamente infondata. Nel suo documentato L’antigiudaismo nell’Antichità classica[24], Gian Pio Mattogno rileva a questo riguardo:
«I principali capi d’accusa formulati contro gli Ebrei dagli autori greco-romani – che corrispondono ad altrettanti temi dell’antigiudaismo classico – possono essere così riassunti:
– particolarismo ed esclusivismo etnico-religioso;
– amixìa (lett. non mescolanza, mancanza di relazioni, asocialità): designa la volontà di “vivere esclusivamente in un ambiente ebraico e al di fuori di ogni relazione con gli idolatri, l’ardente desiderio di rendere tali relazioni sempre più difficili, se non impossibili”:
– empietà/ateismo, termini con cui si indicava “il rigetto giudaico di tutti i culti stranieri, e il rifiuto di parteciparvi”. Empio ed ateo erano perciò sinonimi di malvagio;
– circoncisione, come segno distintivo di elezione e di separazione da tutti gli altri popoli;
– proselitismo, come strumento di giudaizzazione dei costumi romani;
– misoxenìa (= odio verso gli stranieri);
– misantropia/ odium generis humani, che “sembra essere l’accusa definitiva..[…];
– aspirazione al dominio mondiale».
Il passo successivo è che
«la forma originaria di antisemitismo fu l’antisemitismo demonologico, cioè l’idea che il giudaismo sia un’organizzazione di cospiratori uniti al servizio del male, occupati ad ostacolare i piani di Dio per il mondo e a complottare senza sosta per la rovina del genere umano».
Naturalmente «l’antisemitismo demonologico è di origine cristiana»[25].
A questo punto sorge la domanda: perché gli Ebrei furono rappresentati con caratteri “demonologici”? Non è che per caso, come direbbe Lazare, ne furono essi stessi responsabili, almeno in parte? Magari a causa del Talmud?
La risposta di Norman Cohn, con la quale ne vorrebbe escludere anche il più vago sospetto, è penosamente ridicola:
«A mio parere questo avviene perché nei paesi cristiani gli ebrei sono stati idealmente posti in una situazione tale da ricevere le proiezioni negative inconsce associate con il genitore “cattivo”, e in particolare col padre “cattivo”»[26].
Qui si può osservare che se il cristianesimo “demonizzò” il giudaismo, questo lo “demonizzò” ancora di più: dopo tutto, fu il cristianesimo a costituire una pericolosa eresia e apostasia del giudaismo, e non viceversa; fu il cristianesimo a configurarsi come “idolatria” per il giudaismo, che già in Deuteronomio 13,7-11 aveva lo strumento per porvi rimedio: lo sterminio, ordinato da Jahveh, degli istigatori all’apostasia e degli apostati.
Le farneticazioni psicoanalitiche di Norman Cohn mirano a creare un antisemitismo senza cause reali: ormai la sua “causa” sarà soltanto il “pregiudizio”, ovviamente assolutamente infondato. In tal modo, caso unico nella storia mondiale, gli Ebrei diventano l’unico popolo giusto e innocente a priori, l’unico che non ha mai commesso la mancanza più insignificante, la vittima predestinata dei “pregiudizi” di brutali antisemiti, che diventano inevitabilemente demagoghi, imbroglioni, personaggi oscuri, semipazzi e semicriminali, semiparanoici e via dicendo[27].
Con ciò l’antisemitismo viene equiparato alla paranoia e la concezione giudaica del mondo e dei rapporti con i non-ebrei, in una parola il secolare dibattito sul Talmud e sugli scritti rabbinici posteriori, viene banalmente liquidato come irrazionale “pregiudizio” antisemitico o, peggio ancora, come intenzionale “diffamazione”.
La seconda direttrice concerne in modo specifico il modo in cui il filosemitismo ha utilizzato i “Protocolli” e le finalità che persegue. Si tratta, in breve, di una strategia mirante a rafforzare l’idea che l’antisemitismo non abbia cause reali. Identificata l’essenza dell’antisemitismo con i “Protocolli”, poiché essi sono un “falso”, ne consegue che “falsa” è anche la causa dell’antisemitismo.
Da un altro punto di vista, l’argomento “licenza per un genocidio” ha lo scopo di dissuadere dall’indagare le cause reali dell’antisemitismo nazionalsocialista. Dalla “demonologia” tradizionale – dichiara Norman Cohn – si sviluppò il “mito della cospirazione mondiale ebraica” la quale «ispirò tutta una serie di falsi, culminanti nei Protocolli», che, a loro volta, «vennero usati per giustificare i massacri di ebrei durante la guerra civile russa» e infine «si impossessarono della mente di Hitler e diventarono l’ideologia dei suoi seguaci più fanatici in patria e all’estero (contribuendo così a preparare la strada al parziale sterminio degli ebrei europei)»[28].
Anche qui, dunque, nient’altro che “pregiudizio”. Questa tesi è del resto smentita da Cohn stesso già in sede bibliografica: le edizioni dei “Protocolli” apparse durante la Germania nazionalista sono meno di quelle pubblicate nella democratica Francia e l’ultima edizione risale al 1940[29]. A quanto pare, nel momento stesso in cui fu pianificato e attuato il presunto sterminio ebraico, i nazisti non diedero alcun risalto ai “Protocolli”. Non c’è bisogno di dire che, di questa sua tesi, oltremodo esagerata e apertamente faziosa, nel suo libro Norman Cohn non porta alcuna prova.
Un terzo effetto dell’operazione “Protocolli” è il legame fittizio creato tra questo scritto e la più seria polemica antitalmudica: essi, come pretende De Michelis, avrebbero stabilizzato il “topos” talmudico «e da allora la subcultura antisemita considera il Talmud fondamento della “dottrina segreta degli ebrei”». Perciò il carattere apocrifo dei “Protocolli” viene proiettato di rimbalzo sulla questione talmudica, che diventa a sua volta un “pregiudizio” antisemitico.
Un quarto effetto è che si mira a bandire dal consesso delle persone sane e ragionevoli il concetto non solo di “cospirazione”, ma anche di “aspirazione” al dominio del mondo da parte degli Ebrei.
Eppure questa idea è espressa esplicitamente già nel Deutero-Isaia. Il rabbino Isidore Loeb la commenta così:
«Quel che è certo è che, con o senza Re Messia, gli Ebrei saranno come il centro dell’umanità, intorno al quale si raggrupperanno i Gentili, dopo la loro conversione a Dio. L’unità del genere umano si farà mediante unità religiosa. Le Nazioni si riuniranno per andare a portare i loro omaggi al popolo di Dio (LX 3 e ssgg.). Tutta la fortuna delle Nazioni passerà al popolo ebraico […]. Le ricchezze del mare e la fortuna delle Nazioni verranno essere stesse agli Ebrei […]. Il popolo e il regno che non ti serviranno saranno distrutti»[30].
In questo evento messianico gli Ebrei avranno un ruolo attivo:
«Bisogna dire subito, per la comprensione di ciò che segue, che il popolo di Dio, nel Deutero Isaia, è indubbiamente incaricato di un ruolo messianico. È vero che verrà un Messia personale che sottometterà le Nazioni e i Re, farà trionfare su questa terra la giustizia [ebraica] e regnare la pace [la pax judaica], ma il popolo ebraico è incaricato anch’esso di questo ruolo e vi deve concorrere. Proprio esso, senza alcun dubbio, è il nuovo flagello col quale Dio, alla fine dei tempi, scuoterà le montagne, schiaccerà le colline e le spanderà come crusca (XLI, 14-16); proprio Israele, Servitore di Dio, designato e scelto da Dio quando era ancora nelle viscere di sua madre, è la freccia aguzza che Dio nasconde nella sua faretra per vincere e sottomettere i popoli (XLIX, 1-3,7). I suoi nemici e i suoi avversari saranno coperti di confusione, distrutti, annientati (XLI, 8-13); i popoli marceranno alla sua luce e i Re ai raggi del suo splendore (LX, 3)»[31]
E che queste non siano fisime arcaiche ma costituiscano l’essenza stessa del messianismo ebraico è documentato ad abundantiam nello studio di Gian Pio Mattogno L’imperialismo ebraico nelle fonti della tradizione rabbinica[32].
Così anche il reale e ben documentato imperialismo ebraico secondo le fonti rabbiniche, grazie all’operazione “Protocolli”, si dissolve nel “mito” della “cospirazione ebraica mondiale”.
Ma è anche chiaro che la prima concezione giudaica che un falsario antisemita avrebbe invocato per rendere credibile una “cospirazione” mondiale ebraica sarebbe stata proprio il messianismo: che cosa avrebbe potuto inverare una tale “cospirazione” più di una aspirazione imperialistica e di una profezia di dominio mondiale? E che cosa avrebbe messo in più grave imbarazzo i filosemiti?
L’assenza di una simile prospettiva nei “Protocolli” è una delle prove più convincenti che essi non costituiscono in primis et ante omnia uno scritto antisemitico.

Carlo Mattogno
27 maggio 2010

[1] Bruxelles, Imprimerie de A. Mertens et Fils, 1865.
[2] Le citazioni sono tratte da I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Edizioni di Ar, 1971 (nelle citazioni indico il numero del “Protocollo” e la pagina), testo identico a quello pubblicato da Giovanni Preziosi nel 1938: L’internazionale ebraica. IProtocollideiSavi Anzianidi Sion. Roma, La Vita Italiana.
[3] Cfr. Matteo 15,14; Luca, 6,39.
[4] Cfr. Zaccaria, 6,12-13.
[5] M. Joly Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu ou la politique de Machiavel au XIXe siècle, op. cit., p. 67.
[6] Idem, p. 59.
[7] N. Cohn, Licenza per un genocidio. IProtocolli degli Anziani di Sion”: storia di un falso. Einaudi, 1969, p. 229.
[8] S. Romano, I falsi Protocolli. Ilcomplotto ebraicodalla Russia di Nicola II a oggi. TEA Storica, Milano, 1995, pp. 42-43.I
[9] C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. IProtocolli dei Savi di Sion”: un apocrifo del XX secolo. Marsilio, Venezia, 1998, p. 12.
[10] Idem. Cfr. pp. 63-65 e 110-113.
[11] Idem, p. 75.
[12] Idem, pp. 79-80.
[13] Idem, p. 71.
[14] C. G. De Michelis, La giudeofobia in Russia. Bollati Boringhieri , Torino 2001, p. 22.
[15] C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. IProtocolli dei Savi di Sion”: un apocrifo del XX secolo, op. cit., p. 118.
[16] Officina Typographica Caesareae Scientiarum, Petropoli, 1892.
[17] Termine insensato e ridicolo, al pari di “omofobia” e “omofobo”. Chi conia simili imbecillità?
[18] Qui appare un asterisco che rimanda alla seguente “Nota dell’Autore”:«Cfr. Aram-Chajm, p. A, pag. 1; Eben-Gajzer, p. 44, pagg. 8, 24; Jebamot, 98, 25; Katebot, 3, 34; Sanhedrin, 74 e 30; Qiddushin, 68». Ulteriori note alle note (p. 289) “correggono”(!) la grafia e spiegano che “Orech-Chaim” è «un libro del Talmud» e che “Eben-ha-Ezer” è un «altro libro talmudico». In realtà “ ’Orach chajîm” (Sentiero della vita) e “’Ebhen ha‘êzer” (Pietra di soccorso) sono due delle quattro parti in cui è diviso lo Schulhan aruch. Questi riferimenti, e altri non menzionati da De Michelis, si trovano nelle “Spiegazioni necessarie” tratte dall’edizione di Nilus dei “Protocolli” del 1920. Cfr. Mgr. Jouin, Le péril judéomaçonnique, tomo I, Les « Protocols» des Sages de Sion, Parigi, 1920, p. 147.
[19] C.G. De Michelis, Il manoscritto inesistente. IProtocolli dei Savi di Sion”: un apocrifo del XX secolo, op. cit., pp. 287-288.
[20] Il termine «Akum» è formato dalle iniziali delle parole «‘abhôdhath kôkhâbhîm ûmazzâlôth», «‘abhdhê kôkhâbhîm ûmazzâlôth», culto o adoratori delle stelle e delle costellazioni (= idolatria, idolatri). Queste espressioni furono create dalla censura ecclesiastica, che sostituì in tal modo nel testo dello Schulchan aruch le parole originali «nokhrî» (straniero), «gôj» (non ebreo), «‘abhôdhâh zârâh» (culto straniero, idolatria), ecc. Gli «Akum» sono dunque i non-ebrei.
[21] Sepher midhrâš talpjiôth, Smirne, 1736, p. 194 verso, sub: ’ôth jôd,‘ânâph Jisrâ’êl, lettera jod, sezione Israele. Al riguardo si vedano gli eccellenti studi: Gruppo di Ar, La questione ebraica, 1, agosto 1998. Edizioni di Ar; Idem, Johann Andreas Eisenmenger e il Giudaismo svelato. Con un’antologia su ebrei e nonebrei secondo gli insegnamenti rabbinici. Edizioni di Ar, 2008. La dotta antologia (pp. 84-121) riguarda i seguenti temi: 1. Perché gli ebrei siano superiori a tutti i popoli del mondo. 2. Perché i non ebrei siano da considerare bestie. 3. Perché sia lecito uccidere un nonebreo.
[22] B. Lazare, L’antisémitisme. Son histoire et ses causes. Léon Chailley, Éditeur, Parigi, 1894, pp. 1-3.
[23] N. Cohn, Licenza per un genocidio. IProtocolli degli Anziani di Sion”: storia di un falso, op. cit., p. IX.
[24] Edizioni di Ar, 2002, pp. 16-17.
[25] N. Cohn, Licenza per un genocidio. IProtocolli degli Anziani di Sion”: storia di un falso, op. cit., p. IX.
[26] Idem, p. X.
[27] Idem, p. 28, 34, 95, 200.
[28] Idem, p. XIII.
[29] Idem, p. 242.
[30] Idem, p.197.
[31] I. Loeb, La littérature des pauvres dans la Bible. Librairie Léopold Cerf, Parigi, 1892, pp. 218-219.
[32] Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2009.

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